Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-04-2012, n. 6110 Liquidazione e valutazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 6.7/1.12.2009 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la San Paolo IMI spa al pagamento in favore di M.M. della ulteriore somma di Euro 184.000,00 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto a seguito di accertato demansionamento.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, sebbene il M. avesse aderito ad una proposta di reclutamento quale "responsabile delle relazioni sindacali", in realtà, l’assunzione avvenne con inquadramento quale funzionario di 3^ grado, inquadramento che non permetteva di ritenere che lo stesso potesse considerarsi come il referente unico di tale settore, sicchè doveva escludersi che, con riferimento al periodo dal 1976 al 1989, lo stesso fosse stato privato dalle mansioni per le quali era stato assunto; che a diverse conclusioni si doveva, invece, pervenire per il periodo successivo, allorchè lo stesso venne trasferito dal settore delle relazioni sindacali al dipartimento fondo pensioni, settore per nulla aderente alla sua pregressa competenza e professionalità ed in cui, peraltro, venne lasciato del tutto inoperativo.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Intesa Sanpaolo spa con tre motivi. Resiste con controricorso M.M., il quale ha proposto anche ricorso incidentale, affidandolo a cinque motivi. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la società ricorrente denuncia violazione degli artt. 1223, 1225, 1226, 1227 e 2087 c.c., nonchè degli artt. 414, 416, 421, 434 c.p.c., oltre che vizio di motivazione, osservando come i giudici del riesame, con motivazione carente e contraddittoria, non avevano tenuto conto dei forti contrasti che si erano manifestati fra il M. e l’IMI con riferimento a tutto il periodo di lavoro e che, comunque, lo stesso era stato addetto ad un settore, quale quello dei fondi pensione aziendali, che gli consentiva di mantenere e valorizzare la sua professionalità specifica, laddove, invece, non si era considerato che il dipendente aveva assunto incarichi sindacali incompatibili con la sua pregressa funzione di addetto alle relazioni sindacali.

Con il secondo motivo, denunciando ancora violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1223, 2087 e 2697 c.c.) e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), osserva come la corte territoriale avesse mancato di considerare come, anche con riferimento al periodo successivo al 1990, il dipendente non fosse stato costretto ad uno stato di inattività, avendo, invece, prestato una scarsa attività lavorativa come addetto allo staff del servizio sindacale e al dipartimento fondo pensioni per sue esigenze personali.

Con il terzo motivo, infine, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 2103, 2043, 2056, 1218, 1223, 2087, 2697 c.c. e dell’art. 437 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, ed, al riguardo, osserva che la corte territoriale, in difetto di alcuna allegazione in tal senso, aveva ritenuto che il ricorrente fosse stato assegnato ad un settore che non consentiva di valorizzare la sua pregressa esperienza professionale e che aveva confuso il danno professionale con la perdita di chance.

2. Con il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale, svolti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’intimato lamenta violazione degli artt. 115, 116 e 420 c.p.c., degli artt. 2103, 1218 e 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione, ed, al riguardo, osserva che il giudice di appello aveva rigettato la domanda di accertamento di una situazione di demansionamento anche con riferimento al periodo 1976/1989 senza tener conto del materiale probatorio acquisito al giudizio, trascurando, in particolare, i documenti dai quali emergevano le effettive mansioni ed il ruolo propri del M., nonchè le prove orali che davano atto di come il M. non avesse, invece, "alcun ruolo" e di come si occupasse di "questioni pratiche di poco conto".

Con il terzo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, si duole che la corte territoriale, nel riconoscere il demansionamento del M. nel periodo 1990/1997, avesse accolto solo la domanda di risarcimento del danno da perdita di chances, senza in alcun modo esaminare la ulteriore domanda di risarcimento del danno professionale c.d. "puro", pur riguardando quest’ultima la menomazione della capacità professionale del lavoratore, l’altra la perdita di opportunità di carriera dello stesso.

Con il quarto motivo prospetta, con riferimento a questi stessi fatti, che, ove pure non si ritenessero sussistenti i requisiti del vizio di omessa pronuncia, la sentenza impugnata sarebbe, comunque, censurabile per vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), tenuto conto dell’esistenza di un contesto probatorio del tutto univoco nel senso della sussistenza del lamentato danno alla professionalità.

Con l’ultimo motivo, infine, prospettando violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2103, 1218, 1223, 1226, 2727, 2728 e 2729 c.c.), il ricorrente incidentale rileva come nella pronuncia impugnata mancasse qualsiasi congrua disamina del materiale probatorio acquisito in punto di sussistenza degli elementi idonei a far ritenere provata, quantomeno in via presuntiva, la lesione della professionalità sofferta dal dipendente.

3. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

4. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale possono essere trattati congiuntamente, in quanto connessi, e non sono meritevoli di accoglimento. Giova, al riguardo, premettere e ribadire che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe, in realtà, che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità, risultando del tutto estraneo all’ambito di operatività del vizio di motivazione la possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. ad esempio da ultimo Cass. n. 11789/2005; Cass. n. 4766/2006;

Cass. n.6064/2008; Cass. n. 7394/2010); questo in quanto l’art. 360 c.p.c., n. 5, "non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione" (così SU n. 5802/1998), non incontrando, al riguardo, il giudice di merito alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le allegazioni che, sebbene non menzionati specificatamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. ad es. Cass. n. 11933/2003; Cass. n. 9234/2006).

Ciò premesso, deve rilevarsi come emerge dallo stesso ricorso della Intesa Sanpaolo che il M., il quale era stato chiamato (quale "1 addetto specialistico per le relazioni sindacali in assistenza al responsabile del servizio") ad "un ruolo di responsabilità di una struttura che doveva confrontarsi con i più alti livelli di riferimento istituzionale", venne assegnato, dal 1990, a meri compiti di staff, ed in particolare, dal 1995, allo svolgimento di attività di consulenza legale e previdenziale in materia di costituzione di fondi pensione, con inserimento in un dipartimento destinato, fra l’altro, ad essere ricollocato presso una società controllata del gruppo.

A ciò si aggiunga che ha accertato la corte di merito che il dipendente oltre ad esser stato trasferito in un settore (che, con motivata valutazione, si è ritenuto), nonostante la generica riferibilità alle politiche del personale, diverso da quello per il quale era stato specificatamente assunto, ove aveva lavorato per quattordici anni e che rivestiva un ruolo centrale nelle strategie di gestione aziendale era stato, peraltro, nei nuovi compiti, "svuotato di effettive e concrete mansioni", non avendo "più nulla da fare".

Tale accertamento, operato dalla corte romana alla stregua delle risultanze dell’istruttoria, risulta contestato dalla società ricorrente attraverso un diverso apprezzamento delle prove acquisite al processo e facendo riferimento a documenti (lettere di contestazione e di risposta ed altro) che, al pari delle prime, nemmeno sono stati trascritti in seno al ricorso, con conseguente violazione del canone della sua necessaria autosufficienza, che, come noto, impone alla parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie e processuali; l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla relativa trascrizione, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dato che questo controllo, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto dalla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (v. ad es. per tutte Cass. n. 10913/1998; Cass. n. 12362/2006).

Ed eguali considerazioni valgono anche per l’asserita "posizione antagonista" assunta dal M. con l’accettazione di incarichi sindacali, apparendo, anche per tale parte, insuscettibile di censura la lettura data dalla corte territoriale ai materiali probatori sul punto rilevanti, ed in particolare la considerazione, che non risulta certo nè illogica, nè contraddittoria rispetto alle acquisizioni istruttorie, che la scelta di impegnarsi nel sindacato fu conseguenza, e non causa, del demansionamento sofferto, per come testimonia anche il fatto che la pregressa iscrizione al sindacato non determinò alcun problema per circa quattordici anni.

Con la conseguenza, in definitiva, che il ricorso, in quanto volto a prefigurare una diversa opzione interpretativa, senza sminuire, tuttavia, la tenuta logica e normativa di quella adottata dai giudici di merito, non risulta idoneo a contrastare l’accertamento da questi ultimi operato, con conseguente infondatezza delle censure proposte.

5. Infondato è anche il terzo motivo del ricorso principale.

Fermo restando, infatti, quanto si dirà in prosieguo con riferimento ai criteri di determinazione del danno, avuto riguardo ai rilievi sul punto svolti anche dal ricorrente incidentale (v. infra sub 7), deve, per il resto, osservarsi come non risulta affatto documentato (con la trascrizione degli atti in parte qua rilevanti) che il lavoratore non avesse lamentato che, con lo spostamento ad un diverso e nuovo settore, fosse stato privato della professionalità e specifica esperienza acquisita nel settore di precedente assegnazione e che, pertanto, in difetto di specifica allegazione, nessun danno da demansionamento poteva allo stesso riconoscersi; così come, in pari modo, deve rilevarsi che viola il canone di autosufficienza l’affermazione che, nel ricorso introduttivo del giudizio, nulla si era richiesto con riferimento al danno esistenziale e al danno all’immagine.

6. Venendo, quindi, all’esame del ricorso incidentale, infondati devono ritenersi, innanzi tutto, il primo ed il secondo motivo, che ben possono trattarsi congiuntamente, in ragione della loro connessione ed interdipendenza sul piano logico e giuridico.

Premessi, anche con riferimento a tale ricorso, i limiti, già rammentati, che incontra il sindacato di legittimità rispetto al vizio di motivazione ed alle censure di mera ricostruzione fattuale, basta, in proposito, osservare come la corte territoriale abbia accertato che il M., sebbene avesse aderito ad una offerta di assunzione quale "responsabile per le relazioni sindacali", in realtà, accettò di essere inquadrato come "funzionario di terzo grado", posizione che non gli consentiva certo di essere considerato come "il referente unico aziendale" delle relazioni sindacali, non potendo derivare dall’inquadramento riconosciuto "alcuna aspettativa relativa al grado di autonomia e alla titolarità di poteri gestori, trattandosi di un inquadramento che consentiva ciò in modo limitato".

Tale essendo la ragione giustificatrice essenziale della decisione adottata dai giudici del riesame, non contrasta con la stessa il riferimento che il ricorrente incidentale opera a documentazione (inserto del Corriere della Sera del 4.4.1976, "profilo professionale IMI" del "responsabile delle relazioni sindacali") che riguarda, in realtà, un profilo professionale diverso da quello in concreto attribuitogli, nè appare illogica o contraddittoria, anche rispetto alle acquisizioni dell’istruttoria orale, la considerazione che, con tal contesto risulta, anzi, coerente, che "la natura strategica dell’attività, la costante partecipazione alla stessa di uno studio di consulenza esterna, la maggiore o minore inclinazione dei dirigenti a partecipare alla stessa" rappresentano "circostanze univoche idonee a spiegare, a secondo dei periodi dell’epoca 1976 – 1989, la maggiore o minore autonomia e (-) la più ampia o più ridotta attività del M.", il quale, peraltro, in tale periodo venne pure promosso a funzionario di secondo e poi di primo grado.

Trattasi di valutazione di merito, che individua le fonti del convincimento e giustifica in modo logicamente plausibile la decisione, e non risulta, pertanto, sindacabile in sede di legittimità. 7. Infondati sono da ritenere, infine, anche gli ultimi tre motivi del ricorso incidentale, che, riguardando i criteri di determinazione del danno risarcibile, ben possono essere, in relazione alla loro connessione, esaminati congiuntamente.

Al riguardo, giova ribadire, in conformità all’insegnamento di questa Suprema Corte, come, in tema di demansionamento e di dequalificazione, se il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ben può, tuttavia, la sua dimostrazione in giudizio essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo, peraltro, precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità nell’ambiente di lavoro dell’attuato demansionamento, frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale ecc.), la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire all’esistenza del danno, facendosi ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali di comune esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. SU n. 6572/2006 e, nella giurisprudenza successiva, ad es., Cass. n. 29832/2008, Cass. n. 10527/2011).

Facendo corretta applicazione di tali criteri, la corte territoriale, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale, ha preso in considerazione l’incidenza che l’accertato demansionamento, alla luce delle sue caratteristiche temporali e modali, aveva determinato sul bagaglio professionale del dipendente e sulle sue prospettive di carriera, pervenendo, sulla base di una valutazione globale, ad una quantificazione idonea ad assicurare l’integrale reintegrazione del pregiudizio sofferto, evitando, al tempo stesso, una moltiplicazione, puramente nominalistica, delle voci risarcitorie.

Ne deriva che non si può, pertanto, ritenere che la corte territoriale abbia omesso di pronunciare sul c.d. "danno professionale puro", dando rilievo solo al danno da perdita di chances (o che si sia fatta confusione fra le due tipologie di danno, per come sostiene la ricorrente principale), avendo la stessa, piuttosto, con incensurabile valutazione, ritenuto di adottare, come criterio di quantificazione del danno, non già la retribuzione percepita dal lavoratore, ma quella che gli sarebbe spettata se, per la professionalità acquisita e la sua ulteriore valorizzazione, avesse conseguito la superiore qualifica di dirigente (per come era avvenuto per una significativa quota dei funzionari del suo grado a ridosso del periodo in considerazione). Ed ha, così, determinato il risarcimento con riferimento a tutte le componenti atte a descrivere la rilevanza assunta, nella concreta fattispecie, dall’illecito, alla luce della direttiva della esaustività della tutela risarcitoria e del divieto di indebita moltiplicazione delle causali risarcitorie.

8. Entrambi i ricorsi vanno, pertanto, rigettati. Spese compensate, in considerazione della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 6 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2012

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