Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 05-10-2011) 27-10-2011, n. 38837

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 1/10/2010, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha confermato l’affermazione di responsabilità di C.S. per i delitti di minaccia grave e peculato, assolvendolo dalle ulteriori imputazioni di tentata estorsione, dichiarandolo non punibile ex art. 56 c.p., comma 4, e di molestie, per intervenuta prescrizione, conseguentemente rideterminando la pena e riducendo l’importo liquidato a titolo di risarcimento in favore delle parti civili.

Propongono ricorso la Procura generale presso la Corte d’appello di Palermo, nonchè la difesa di C..

La parte pubblica rileva, con il primo motivo, violazione di legge, in relazione al reato di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen., e difetto di motivazione, osservando che erroneamente il giudice di merito ha ritenuto la desistenza volontaria, dovendo al contrario desumersi, in forza della sentenza di primo grado, che l’interessato, dopo aver formulato la richiesta estorsiva, non proseguì nell’azione avendo appreso dalla parte lesa che si era rivolta alle forze dell’ordine, fornendo loro i dati per l’identificazione dell’autore delle richieste, circostanza che esclude la volontarietà dell’interruzione dell’attività illecita.

2. Con il secondo motivo si lamenta illogicità della motivazione che sorregge la riduzione del risarcimento del danno riconosciuto alle parti lese, fondata sulla sopraggiunta prescrizione della contravvenzione, a fronte dell’indubbia consistenza del danno patito, ampiamente individuato nella pronuncia di primo grado.

3. Con il terzo motivo si contesta illogicità della motivazione, quanto al riconoscimento delle attenuanti generiche in favore dell’imputato, non sorretto da idonea motivazione, a fronte del conclamato comportamento processuale improntato a slealtà, valorizzato nella sentenza di primo grado, non adeguatamente contrastato dalla Corte, che ha fatto leva solo sulla condizione di incensuratezza, violando la nuova lettera dell’art. 62 bis c.p..

4. La difesa di C. con il primo motivo lamenta violazione di legge in relazione al contestato delitto di peculato, ritenuto dalla Corte nella forma attenuata di cui all’art. 323 bis c.p., in riferimento all’uso del telefono dell’amministrazione militare di cui C. fa parte, individuando la condotta appropriativa nell’uso delle energie costituite dagli impulsi elettronici.

Alla luce di tale ricostruzione si ritiene corretto l’inquadramento della fattispecie nell’art. 215 c.p.m. che prevede il peculato per appropriazione, nel quale deve inquadrarsi la fattispecie indicata.

5. Con il secondo motivo, rilevato che, a seguito dell’assoluzione dal delitto di tentata estorsione, il reato più grave deve inquadrarsi nel peculato militare, si ritiene la fondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione svolta in primo grado; si contesta la riferibilità della fattispecie di peculato per appropriazione contestata, all’ipotesi prevista dal codice penale, dovendo circoscriversi tale inclusione al caso del peculato per distrazione, non previsto dalla disciplina speciale, ed applicarsi quindi nella specie il codice penale militare; ne consegue che, essendo tale reato più grave, deve valutarsi la fondatezza dell’eccezione di giurisdizione militare.

Conseguentemente si sollecita la dichiarazione di nullità della sentenza ex art. 178 c.p.c., lett. a), in quanto emessa da giudice privo di giurisdizione.

6. Con il terzo motivo si eccepisce, rispetto alle medesime doglianze, illogicità della motivazione.

7. Con il quarto motivo si sollecita, a seguito dell’accertamento di nullità della pronuncia per i motivi indicati, la caducazione delle disposizioni civili.

8. Con il quinto motivo si contesta la corretta qualificazione dei fatti ascritti quali minaccia grave, non ricorrendo le condizioni di cui all’art. 339 c.p., nell’azione compiuta dall’interessato.

9. Con il sesto motivo si lamenta difetto di motivazione sulla responsabilità per delitto di minaccia grave.

10. La difesa ha depositato memoria nei termini eccependo l’inammissibilità del primo motivo di ricorso proposto dalla parte pubblica in quanto, pur essendo fondato sulla pretesa illogicità della motivazione, non è stato in esso indicato l’argomento sviluppato nel provvedimento non corrispondente al modulo legale.

Si eccepisce inoltre carenza di legittimazione della parte pubblica nel proporre ricorso afferente la pretesa risarcitoria delle parti civili, mancando sul punto il necessario autonomo atto di impugnazione degli interessati, il che rende il motivo di ricorso inammissibile. Nel merito si rileva che la liquidazione, in quanto eseguita in via equitativa è incensurabile; inoltre nella sua determinazione il giudice ha tenuto conto che il reato di molestie si era già prescritto nel corso del giudizio di primo grado.

Quanto all’attribuzione di attenuanti generiche riconosciute al C. in grado d’appello, si sottolinea a tutt’oggi la mancanza di precedenti a suo carico e l’ingiustificata esclusione di tale trattamento operata dal giudice di primo grado, cui il giudice di secondo grado ha posto rimedio.

Riguardo ai propri motivi di ricorso si sottolinea che l’ipotesi di minaccia risulta prescritta al maggio 2011, il che comporta la sopravvivenza dell’unica accusa di peculato, in relazione al quale ci si richiama all’eccezione di difetto di giurisdizione.

11. La difesa ha depositato ulteriore memoria nei termini nella quale, valorizzando, da un canto l’acclarata natura appropriativa del delitto di peculato contestato, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, ed il minimo valore degli impulsi elettronici oggetto dell’appropriazione, ha sostenuto l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, nonchè di quello soggettivo, stante l’autorizzazione all’uso di apparecchi telefonici d’ufficio per comunicazioni private, purchè di breve durata, sollecitando conseguentemente l’accoglimento del ricorso proposto dal C., ed il rigetto di quello proposto dalla procura generale.

Motivi della decisione

1. Il ricorso della procura generale è inammissibile.

L’esame della sentenza di primo grado ha condotto infatti ad accertare che, contrariamente all’assunto posto al base dell’atto introduttivo della parte pubblica, non è stato chiarito che la richiesta estorsiva è rimasta ineseguita solo per effetto dell’acquisita consapevolezza dell’avvenuta presentazione della denuncia a cura della parte lesa, sicchè non sussiste alcun elemento di fatto sulla base del quale escludere che la condotta tenuta dal C. possa qualificarsi desistenza volontaria. Entrambe le pronunce di merito a riguardo evidenziano che vi furono plurime richieste di pagamento ripetute nel tempo e correlate alla minaccia di rendere pubbliche le condotte tenute dalla parte offesa al suo coniuge, che pur se reiterate nel tempo e precise quanto all’importo richiesto risultano permanentemente generiche quanto alle modalità di esecuzione di tale pagamento, al punto che la parte minacciata, ove avesse voluto cedere alle pressioni subite, non avrebbe potuto materialmente realizzare alcuna condotta idonea a concretizzare l’azione illecita, venendo a trovarsi nell’impossibilità di far conseguire all’estorsore, di cui non le era nota l’identità, il profitto perseguito.

La circostanza che l’odierno ricorrente abbia deciso di rendere pubbliche le condotte della donna ai suoi stretti familiari, prima ancora di concretizzare con specifiche richieste l’azione, permette di valutare corretta l’interpretazione resa dal secondo giudice, che è giunto all’assoluzione per il contestato delitto di tentata estorsione ravvisandovi la condizione di non punibilità di cui all’art. 56 c.p., comma 3, il che rende inammissibile il motivo di ricorso proposto in quanto fondato su una ricostruzione di fatto non sussistente nella specie.

2. Ad analoga conclusione deve giungersi per il secondo motivo di ricorso proposto dalla parte pubblica per carenza di interesse, non avendo questi alcun titolo per impugnare la pronuncia relativa alla quantificazione del danno, cui avrebbero dovuto attendere i diretti interessati. Per mera esigenza di completezza si rileva che la riduzione, per di più, non sarebbe stata impugnabile in questa sede in quanto la diversa liquidazione del danno non è fondata su una contraddittoria motivazione, quale quella indicata dalla parte pubblica, ma risulta eseguita sulla base di una diversa determinazione equitativa dei danni subiti dai congiunti della parte lesa del delitto di estorsione, congruamente motivata.

3. Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile in quanto la Corte ha correttamente motivato la concessione delle attenuanti generiche al C.; peraltro pacificamente la nuova disposizione di cui all’art. 62 bis c.p., u.c., contenente il divieto di concessione del beneficio sulla base della sola valutazione di incensuratezza non si applica retroattivamente ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella legislativa, tra i quali pacificamente rientra quello oggetto del presente giudizio.

4. Passando all’analisi dei motivi di ricorso proposti dalla difesa si deve valutare corretto l’inquadramento della fattispecie nella disposizione sanzionatoria prevista dal codice penale.

L’esame dell’imputazione, così come formulata e ritenuta dal giudice di merito, prospetta quale reato la distrazione dell’utenza telefonica per scopi personali che implica, unitamente all’appropriazione degli impulsi, anche l’utilizzazione dell’apparecchio a fini diversi da quelli consentiti, per compiere i quali viene affidato il bene della pubblica amministrazione. Nella specie il reato risulta configurato anche nella forma di utilizzo del bene telefono, considerato che esso è stato utilizzato non per le ordinarie esigenze di vita, per le quali è ipotizzabile un’autorizzazione alla saltuaria utilizzazione da parte della pubblica amministrazione, ma per la consumazione di un reato, non potendo verificarsi alcuna autorizzazione a monte nell’utilizzo dell’apparecchio, sicchè risulta corretto qualificare anche tale aspetto nella distrazione, forma di peculato che concorre con l’appropriazione degli impulsi elettrici e giustifica la qualificazione del fatto secondo il codice penale ordinario, poichè solo nell’ipotesi di reato ivi prevista è inclusa anche la figura tale forma appropriativa.

In ragione di ciò si deve escludere la fondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, formulata nell’erroneo presupposto della necessaria qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 215 c.p.m.p.; peraltro per completezza si rileva che in ogni caso l’intervenuta assoluzione dal delitto più grave di tentata estorsione non potrebbe costituire il presupposto dell’attrazione nella giurisdizione militare della cognizione sul reato ordinario, del tutto pacifico essendo che l’individuazione del giudice fornito di giurisdizione vada operata sull’ipotesi di accusa astratta, quale risultante del decreto di citazione a giudizio, non potendo mutare a seguito degli accertamenti sulla sussistenza delle ipotesi d’accusa intervenute nel corso dei giudizi di merito.

5. Il terzo ed il quarto motivo, come si evince dalla parte narrativa, sono fondati sulla riproposizione dei medesimi motivi di ritenuta illogicità della motivazione, nella parte in cui ravvisa l’ipotesi di reato contestata, in relazione alla cui infondatezza non può che richiamarsi quanto in precedenza espresso; l’infondatezza dell’assunto esclude la possibilità di giungere alla sollecitata caducazione delle disposizioni civili, che si giustifica per effetto dell’accertamento dell’illiceità della condotta.

6. Risulta corretto l’inquadramento giuridico della condotta originariamente contestata come tentata estorsione nella minaccia grave, poichè è pacifico che tale reato sussista tutte le volte in cui venga prospettato un danno di rilevante gravità alla parte lesa, prospettazione che ha trovato concreta realizzazione nella specie ove, a seguito della diffusione di notizie che facevano parte della sfera privata della parte lesa, si è realizzata la dissoluzione del vincolo familiare, cui la prospettazione del male ingiusto tendeva.

Tali conseguenze non possono che inquadrarsi nel concetto di minaccia grave cui far richiamo il comma 2 della norma incriminatrice nella parte generale, ove l’individuazione dell’estremo della gravità è rimessa alla valutazione del giudice di merito, che in questo caso ha articolatamente motivato la gravità del fatto, con valutazione che si sottrae a censure di illogicità.

In particolare nel provvedimento impugnato è stata operata tale valutazione richiamando le modalità della condotta, il tenore dell’espressione usate con evocazione di gravissimi danni alla vita personale di relazione della persona, realizzata anche con la trasmissione di immagini dal contenuto macabro che legittimamente ingeneravano un rilevante timore e turbamento della persona offesa, elementi tutti che correttamente possono essere inquadrati nella fattispecie di cui all’art. 612 c.p., comma 2, parte prima.

Risulta del tutto evidente dall’esame del precetto della disposizione richiamata che siano individuati due tipi di minaccia inquadrabile in tale definizione, costituiti da una situazione ritenuta grave sulla base delle modalità di realizzazione di natura atipica la cui valutazione è rimessa, nelle sue modalità attuative e nella gravità delle conseguenze, al giudice di merito, oppure da una condotta tipica, realizzata in uno dei modi indicati dall’art. 339 cod. pen.; la deduzione difensiva relativa all’assenza di una condotta tipica, pur condivisibile, non esaurisce l’ambito di efficacia della disposizione sanzionatoria, per ciò stesso escludendo la fondatezza del ricorso sul punto.

7. Del tutto insussistente è poi l’eccepito difetto di motivazione sulla responsabilità per il delitto di minaccia grave, essendo generica l’allegazione difensiva e risultando, al contrario, nel provvedimento impugnato analiticamente valorizzati tutti gli elementi di fatto che hanno condotto ad individuare il C. quale il mittente dei messaggi minacciosi inviati alla parte offesa.

Contrariamente a quanto assunto in ricorso, la debolezza dell’accusa non può desumersi dall’assoluzione dal reato più grave di tentata estorsione, poichè, come già evidenziato in precedenza, a tale pronuncia si è giunti in ragione della mancata concretizzazione delle richieste di pagamento, elemento costitutivo del diverso delitto di estorsione, che all’evidenza, in nulla incide sull’accertamento di sussistenza ed efficacia delle minacce formulate.

8. Il termine massimo di prescrizione non risulta ad oggi compiuto con riferimento al reato in esame, atteso che al periodo massimo, scadente nel maggio 2011, devono essere aggiunti mesi otto e giorni 26 di sospensione del decorso del termine, per effetto dei rinvii concessi su istanza dell’interessato e della difesa nel corso dei gradi del processo, che devono essere defalcati dal computo complessivo.

9. Per i motivi già accennati, e relativi all’utilizzazione del telefono pubblico per scopi illeciti, e non solo per fini privati, non può essere utilmente evocata nella fattispecie la giurisprudenza di questa Corte sul peculato avente ad oggetto gl’appropriazione di impulsi telefonici, che valorizza la minima entità economica del bene sottratto in caso di sporadicità ed occasionalità delle comunicazioni per escludere l’elemento oggettivo e soggettivo del reato, non essendo le comunicazioni realizzate da C. autorizzabili dall’ente neppure in via astratta, stante la finalità di commissione di reati attraverso le comunicazioni, e mantenendo l’azione conseguentemente un connotato di gravità inidonea ad escludere, per l’illiceità dei motivi, gli elementi costitutivi del reato.

10. Il rigetto del ricorso dell’imputato comporta la sua condanna al pagamento delle spese processuali, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del P.g..

Rigetta il ricorso del C. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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