Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-04-2012, n. 6223 Accertamento

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Svolgimento del processo

La CTR del Lazio, con sentenza n. 117/19/06 depositata il 9.10.2006, confermando la decisione della CTP di Roma, ha annullato l’avviso d’accertamento con cui era stato elevato, ai fini dell’imposta di registro, il valore dichiarato da D.A.A.M. e da D. P.E. in sede di vendita di una quota indivisa di un terreno edificabile. I giudici d’appello hanno affermato che la valutazione dell’UTE doveva ritenersi erronea, perchè il valore dichiarato era stato ritenuto congruo, con sentenza, passata in giudicato, resa nel giudizio d’impugnazione della rettifica proposta dalla parte acquirente.

Per la cassazione della sentenza, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, ai quali le contribuenti resistono con controricorso.

Motivi della decisione

Va, anzitutto, rilevato che, alla pubblica udienza dell’11.1.2012, prima della relazione di cui all’art. 379 c.p.c., è stata depositata istanza di trattazione del ricorso, a firma dell’Avvocato dello Stato, presente in udienza. Tale istanza implica valida manifestazione della persistenza dell’interesse alla trattazione del ricorso ai sensi della L. n. 183 del 2011, art. 26, come modificato dal D.L. n. 212 del 2011, art. 14, secondo il quale, nei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di Cassazione aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunce pubblicate, come nella specie, prima del 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, ovvero per quelli pendenti davanti alle Corti d’appello da oltre tre anni: "le impugnazioni si intendono rinunciate se nessuna delle parti, con istanza sottoscritta personalmente dalla parte che ha conferito la procura alle liti e autenticata dal difensore, dichiara la persistenza dell’interesse alla loro trattazione entro il termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge" (1.1.2012). In base a tale disposizione, le parti devono, dunque, affermare di essere ancora interessate alla decisione di controversie ormai vetuste, e perciò non più rispondenti, in tesi, ad un loro interesse effettivo ed attuale, viceversa presunto per i ricorsi, più recenti, soggetti alla disciplina legislativa di cui alla L. n. 69 del 2009. La norma, come confermato dal suo stesso titolo "Misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di cassazione e alle corti di appello", risulta emessa con finalità deflattive del contenzioso più vecchio, finalità che vengono perseguite mediante la valutazione, in termini di rinuncia, dell’inerzia di entrambe le parti, e la previsione della conseguente estinzione del giudizio, da dichiararsi mediante la spedita forma del "decreto presidenziale". Per evitare tale declaratoria, la disposizione impone il compimento di un atto d’impulso processuale, da attuare secondo modalità formali assimilabili a quelle del conferimento della procura speciale di cui all’art. 83 c.p.c., comma 3, essendo prescritto il coinvolgimento personale della parte, onerata di effettuare una sorta di rinnovo della procura – l’istanza deve essere sottoscritta dalla parte che l’ha rilasciata, che può non coincidere col titolare del diritto controverso e deve essere autenticata, e, così, introdotta un’eccezione alla regola generale posta dall’art. 84 c.p.c., secondo la quale il difensore compie e riceve, nell’interesse della parte, tutti gli atti del processo (salvo, appunto, che non siano ad essa espressamente riservati). Così convenendo, quando parte del giudizio è un’Amministrazione che, come nella specie, si avvale della rappresentanza processuale facoltativa dell’Avvocatura dello Stato, qual è quella stabilita per le Agenzie fiscali nel D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72, la persistenza dell’interesse alla trattazione della causa non può aver luogo secondo le modalità prescritte dalla norma, essendo applicabile, anche in tali ipotesi, a norma del R.D. n. 1611 del 1933, art. 45, la disposizione dell’art. 1, comma 2, del R.D. cit., secondo cui gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede senza bisogno di ricevere mandato; pertanto, non è necessario che l’Agenzia rilasci una specifica procura all’Avvocatura medesima, per ogni giudizio (cfr. in termini, Cass. SU n. 23020 del 2005, nonchè Cass. SU n. 10894 del 2001 e n. 484 del 1999). Ne consegue che il meccanismo formale previsto dalla L. n. 183 del 2011, art. 26, che presuppone l’esistenza di una parte che abbia conferito una singola procura ad litem, da reiterare in sede di presentazione dell’istanza, con la sottoscrizione di detta parte e l’autentica del difensore, non può attuarsi e che l’atto d’impulso processuale, richiesto da detta norma, per confermare l’interesse alla decisione e scongiurare il decreto d’estinzione, deve esser posto in essere dall’avvocato dello Stato, quale difensore, in applicazione della regola generale di cui al citato art. 84 c.p.c., cosa che, nella specie, si è, appunto, verificata.

Con il primo motivo, corredato da idoneo quesito, si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La ricorrente espone che: 1) nel corso dei separati giudizi d’impugnazione proposti dalle contribuenti, l’Ufficio aveva depositato una proposta di conciliazione alla quale le stesse avevano aderito, e che era stata ritenuta ammissibile dalla CTP, che, con sentenze n 580 e 581 del 1998, aveva dichiarato estinti i giudizi; 2) tali sentenze erano state appellate dall’Ufficio, che aveva chiesto la riattivazione dei giudizi instaurati dalle contribuenti, deducendo il mancato versamento dell’imposta conciliata; 3) il gravame era stato accolto dalla CTR che, con sentenze n. 39 e 40 del 2000, passate in giudicato, aveva rinviato alla CTP, perchè fossero ripristinate "le condizioni acchè la conciliazione giudiziale possa produrre gli effetti voluti dal legislatore"; 4) i giudizi erano proseguiti innanzi alla CTP di Roma, che, dopo averli riuniti, con sentenza n. 419 del 2004, aveva accolto, nel merito, i ricorsi delle contribuenti; 5) anche tale sentenza era stata impugnata dall’Ufficio sul presupposto che la CTP doveva limitarsi ad emettere il decreto di conciliazione della lite, del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 48, comma 5, secondo quanto disposto con la sentenza di rinvio, e non poteva esaminare il merito, come invece aveva fatto; 6) tale motivo, pur enunciato in narrativa, non era stato esaminato dai giudici d’appello, i quali avevano, in tal modo, violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, oggetto della censura. Il motivo è infondato: con la conferma della decisione di merito adottata dai primi giudici, la CTR ha riconosciuto, a monte, che siffatta decisione poteva essere emessa (e non solo quella limitata all’esame della proposta conciliativa) ed ha implicitamente rigettato il motivo d’appello, con cui tale potere era stato contestato. Non può, peraltro, sottacersi che, come riassunto nel punto 2), le sentenze dichiarative dell’estinzione del giudizio sono state appellate dall’Ufficio, proprio, allo scopo di ottenere "la riforma della pronuncia emessa per mancato versamento dell’imposta conciliata e la riattivazione del giudizio a suo tempo instaurato dalla ricorrente con rinvio alla Commissione Tributaria Provinciale", sicchè la doglianza con cui oggi si invoca l’emissione del decreto di estinzione appare del tutto illogica, perchè contraddice quanto l’Ufficio stesso aveva, in precedenza, caldeggiato.

Col secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di motivazione in cui è incorsa la CTR nel non esporre le ragioni della mancata considerazione dei limiti della cognizione del giudice di prime cure "in sede di rinvio del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 59", e nel non enunciare gli elementi esaminati per ritenere congruo il valore dichiarato nell’atto registrato. Il motivo è inammissibile, non avendo la ricorrente corredato del momento di sintesi i prospettati vizi motivazionali. Questa Corte, alla stregua della stessa formulazione letterale dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, ha, costantemente affermato (cfr. Cass. SU n. 20603 del 2007, Cass. n. 11019 del 2011; ord. 4309 del 2008) che la censura con cui si deduce il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve comprendere, a pena d’inammissibilità, un’illustrazione che indichi in modo chiaro e sintetico il fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende la motivazione inidonea a giustificare la decisione. Al riguardo, è stato, anche precisato che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che pur senza rigidità formali, si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata; adempimento che, nella specie, è stato, del tutto, pretermesso.

Col terzo motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 48, per non avere la CTR rilevato che, in virtù della conciliazione del giugno 1998, il rapporto tributario doveva considerarsi novato, sicchè le parti non potevano più mettere in discussione il contenuto dell’accordo raggiunto. Il motivo è inammissibile. La questione della novazione del rapporto risulta estranea rispetto a quella valutata nella sentenza impugnata, sicchè in questa sede la ricorrente avrebbe dovuto sostenere di aver sollevato la questione con l’appello e, quindi, denunciare l’omessa pronuncia del giudice del merito, riproducendo, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, le parti rilevanti degli atti processuali ad essa relativi, oppure riconoscere che il motivo è nuovo. Insomma: o per difetto di autosufficienza o per novità il motivo è inammissibile, dovendo, inoltre, rilevarsi che il quesito formulato, inerente "alla novazione del rapporto obbligatorio" per effetto della "conciliazione c.d. preconcordata fuori udienza" è privo di ogni specificità in riferimento alla ratio decidendi della sentenza impugnata, in violazione dell’art. 366 bis c.p.c., con ulteriore profilo d’inammissibilità del motivo stesso (Cass. n. 8463 del 2009).

Con il quarto motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 1304 e 1306 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente evidenzia che il giudicato formatosi nella lite promossa dall’acquirente non può valere quando il venditore coobbligato ha impugnato, in proprio, l’atto impositivo ed ha raggiunto un accordo conciliativo, tenuto conto che il vincolo solidale non incide sull’autonomia sostanziale e processuale del rapporto tra ciascun debitore e fisco. In conclusione, la ricorrente formula il seguente quesito: "se sia estensibile al condebitore solidale che abbia autonomamente impugnato l’atto impositivo ed abbia stipulato nel corso del giudizio un accordo conciliativo, il giudicato favorevole ottenuto successivamente alla conciliazione giudiziale da altro condebitore solidale". Anche questo motivo è inammissibile. Esso muove, infatti, dal presupposto, chiaramente indicato nel quesito, che si sia perfezionata una conciliazione giudiziale, circostanza che non risulta affatto accertata nell’impugnata sentenza, ed, anzi, è esclusa dalla ricostruzione dei fatti riferita dalla ricorrente. Nè il motivo nè il quesito, che lo conclude, risultano, dunque, attinenti alla sentenza della CTR, in violazione del principio, espresso da questa Corte, secondo cui, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, motivi che siano specifici, completi e riferibili alla decisione impugnata (Cass. n. 13066 del 2007; n. 20652 del 2009), non potendo, diversamente, la Corte adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della violazione lamentata; ed, inoltre, in violazione del principio, sopra richiamato, in base al quale il quesito deve investire la ratio decidendi della sentenza impugnata e proporne una alternativa e di segno opposto (cfr. pure ord. n. 4044 del 2009).

Il ricorso va, in conclusione, rigettato, dovendo porsi a carico della ricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.000,00, di cui Euro 100,00 per spese, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.000,00, oltre accessori di legge.

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