Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 29-09-2011) 27-10-2011, n. 38927 Cassa integrazione guadagni Previdenza sociale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p. 1. Con ordinanza del 26/04/2011, il Tribunale di Perugia rigettava l’istanza di riesame avverso l’ordinanza con la quale, in data 7/04/2011, il g.i.p. del Tribunale di Terni aveva disposto la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di F. G. per i reati di truffa aggravata (art. 640 bis, art. c.p., art. 61, n. 7: capo b), con riferimento agli esborsi sostenuti dall’INPS per erogare, sulla scorta di mendaci dichiarazioni da parte del datore di lavoro, la CIG ordinaria e straordinaria alle maestranze delle società Meraklon spa e Meraklon Yarn srl, nonchè di associazione per delinquere (art. 416 c.p.), in quanto il F., in concorso con altri soggetti gravitanti intorno alla società Holding Novalis srl si erano associati allo scopo di commettere più delitti di appropriazione indebita di denaro di società commerciali acquisite tramite Novalis srl, oltre ai delitti di falso in bilancio, false fatturazioni, e truffa ai danni dello Stato. Al F., inoltre, venivano contestati, come reati fine, i delitti di appropriazione indebita aggravata (cui all’art. 646 – art. 61, n 7 e art. 11 c.p.), falso in bilancio e false comunicazioni sociali (artt. 2621 – 2622 c.c.). p. 2. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato, a mezzo dei propri difensori, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:

1. VIOLAZIONE DEGLI artt. 128 – 291 – 292 c.p.p.: sostiene il ricorrente che la richiesta di applicazione della misura cautelare sarebbe inesistente, in quanto mancava l’attestato dell’avvenuto deposito della richiesta ex art. 201 c.p.p., presso la segreteria, di talchè, facendo difetto l’attestazione di deposito, vi sarebbe incertezza giuridica anche in merito alla data in cui il provvedimento era venuto a giuridica esistenza;

2. VIOLAZIONE dell’art. 640 bis c.p.: ad avviso del ricorrente, sarebbero insussistenti gli elementi costitutivi del delitto di truffa aggravata, ossia il conseguimento di erogazioni pubbliche (quelle della CIC ordinaria e straordinaria), atteso che la eventuale dichiarazione menzognera dell’imprenditore di avere una flessione del lavoro non avrebbe potuto costituire, in difetto di ulteriori condotte fraudolente, un artificio idoneo ad indurre in errore soggetti qualificati e preposti a verificare proprio i requisiti per l’ammissione alla CIG (i rappresentanti sindacali, Regione, Ministero del Lavoro, Confindustria età.) all’interno di una procedura rigida disciplinata dalla legge;

3. VIOLAZIONE dell’art. 646 c.p., essendo insussistenti gli elementi costituivi. Ad avviso del ricorrente, infatti, ove l’imprenditore sia il proprietario al 100% delle società commerciali tra le quali intervengono spostamenti di risorse finanziarie ed economiche, la condotta contestata risulterebbe priva di rilevanza penale (per mancanza dell’ingiusto profitto) riducendosi il tutto ad una serie di operazioni di finanziamenti infruttiferi infragruppo, potendosi, al più, configurare l’illecito, non previsto dall’ordinamento come reato, dell’appropriazione d’uso.

4. violazione dell’art. 416 c.p.: sostiene il ricorrente che, venuti meno i reati fine, automaticamente non sarebbe configurabile neppure il reato associativo.

5. violazione dell’art. 274 c.p.p.: ad avviso del ricorrente, non sarebbe ravvisabile nè il pericolo di reiterazione nè quello di inquinamento probatorio atteso che il materiale probatorio, di natura essenzialmente documentale, era stato acquisito, il g.i.p. lo aveva interdetto dall’esercizio delle attività inerenti all’amministrazione ed infine il tribunale di Terni aveva disposto la nomina di un commissario giudiziale al quale era stata affidata la gestione delle due società anche in sostituzione degli organi societari colpiti da misure interdittive.

Motivi della decisione

p. 1. VIOLAZIONE degli artt. 128 – 291 – 292 c.p.p.: in punto di fatto è pacifico che la richiesta di applicazione della misura cautelare in questione, non recava nè la sottoscrizione del segretario del P.M., nè l’indicazione del "depositato", rinvenendosi solo il timbro dell’Ufficio G.i.p. con una data senza alcuna firma.

Il Tribunale ha disatteso la suddetta eccezione, rilevando che "nel caso in esame, e premesso che la richiesta di misure cautelari è ritualmente sottoscritta dal sostituto procuratore procedente, nessuna conseguenza è fatta discendere dall’ordinamento dalla mancanza di data certa, quest’ultima per altro desumibile in base anche ai registri di passaggio (che documentano la consegna della richiesta alla cancelleria del Gip e, specularmente il giorno della ricezione) essendo infine evidente che, recando l’ordinanza cautelare la data del 7 aprile 2011, la richiesta sarà stata anche se di poco precedente. Nessuna sanzione di nullità il legislatore ha previsto nel caso di specie – in un sistema in cui vige il principio della tassatività delle nullità – come pure non può parlarsi di inesistenza giuridica della richiesta di misure cautelari attesa la non essenzialità dell’elemento della data".

Il ricorrente obietta, citando una serie di massime di questa Corte di legittimità (pag. 3-8 ricorsocene la richiesta del P.M., per avere rilevanza esterna, è indispensabile che sia depositata e che di tale deposito venga dato atto formalmente con l’attestazione del pubblico ufficiale ricevente perchè solo tale attestazione vale a dare certezza giuridica all’atto.

La doglianza è infondata per le ragioni di seguito indicate.

La misura di custodia cautelare, benchè provvedimento di esclusiva competenza del g.i.p., non può essere da questi emessa senza che vi sia una richiesta del P.M., sicchè, ove questa manchi, l’eventuale provvedimento del g.i.p. deve ritenersi nullo ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b): ex plurimis Cass. 33858/2008 Rv. 240799.

Ora, poichè agli effetti esterni, l’effetto giuridico nei confronti dell’indagato è prodotto solo dal provvedimento del g.i.p. (che accolga la richiesta), è del tutto ovvio che la richiesta del P.M. è un atto interno, sebbene indispensabile, che costituisce il presupposto giuridico della decisione del g.i.p..

Il problema, quindi, non è tanto l’apposizione di una data certa, quanto la certezza che la richiesta che perviene al g.i.p. e, sulla base del quale, questi decide, provenga dal P.m..

Nel caso di specie, non è in discussione che il P.M. aveva effettuato e presentato la richiesta al g.i.p. di emissione di una misura cautelare nei confronti del F.: tanto si desume, secondo l’incensurabile accertamento di fatto del tribunale, dai "registri di passaggio che documentano la consegna della richiesta alla cancelleria del Gip e, specularmente il giorno della ricezione".

Di conseguenza, poichè il g.i.p. ha deciso sulla base di una richiesta pacificamente proveniente dal P.m. e sicuramente effettuata in data anteriore all’emissione del provvedimento restrittivo, non è ravvisabile alcuna nullità nè tantomeno inesistenza giuridica proprio perchè, nel caso di specie, sulla base dei riscontri fattuali indicati dal tribunale, risultano salvaguardati i due requisiti essenziali richiesti dalla legge affinchè il g.i.p. possa decidere sulla richiesta, ossia: a) che la richiesta provenga dal P.M. competente; b) che la richiesta sia stata effettuata in data anteriore all’emissione del provvedimento restrittivo, atteso che, nessuna norma stabilisce, a pena di nullità, che la richiesta del P.M. debba indicare una data certa ove questa sia desumibile aliunde.

La giurisprudenza invocata dal ricorrente è fuorviante. Infatti, è vero che, in alcuni casi la richiesta dev’avere la data certa ma si tratta di casi in cui il provvedimento del P.M. ha rilevanza esterna ed è essenziale per valutare il rispetto della tempistica imposta dalla legge: in terminis Cass. 42/2004 Rv. 230526 (Fattispecie in tema di convalida delle intercettazioni disposte d’urgenza dal P.M.);

Cass. 45604/2005 Rv. 232750 (Fattispecie relativa all’emissione della convalida da parte del G.i.p. del provvedimento del questore di divieto di accedere ad impianti ove si svolgono manifestazioni sportive, al fine di valutare il rispetto del termine per presentare le difese, stabilito dalla L. n. 401 del 1989, art. 6, comma 2 bis);

Cass. 1217/2008 Rv. 241990. p. 2. violazione dell’art. 640 bis c.p.: il Tribunale ha ritenuto la configurabilità del reato contestato, osservando che: "trattandosi di materia in cui l’erogazione delle provvidenze è dominata dalla discrezionalità tecnica della P.A., assume assoluta centralità il dato della induzione in errore con riferimento ai presupposti della CIG sia ordinaria (situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o agli operai; crisi temporanee di mercato) che straordinaria (ristrutturazioni, riorganizzazioni, conversioni aziendali; casi di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale ed alla situazione produttiva del settore), e tale induzione in errore si ravvisa qualora, come accaduto nella presente vicenda, l’imprenditore abbia taciuto dell’esistenza di commesse per importi milionari che avrebbero consentito, se evase puntualmente, il normale esercizio dell’attività di impresa senza possibilità di sospendere l’obbligo retributivo facendone ricadere i costi sulla collettività. (La CIG straordinaria si avvale di un finanziamento a carico del bilancio dello Stato; quella ordinaria è finanziata da un contributo a carico delle imprese.)".

Il ricorrente, in questa sede (pag. 8-15 ricorso), ha ribattuto che l’affermazione del tribunale sarebbe una mera petizione di principio, tanto più che, nella specie, la procedura era stata regolarmente rispettata, sicchè l’affermazione secondo la quale la mera dichiarazione dell’azienda di avere una flessione del lavoro possa costituire un artificio che possa indurre in errore soggetti qualificati, sarebbe apodittica.

La censura va disattesa alla stregua delle considerazioni di seguito indicate.

In punto di diritto, va premesso che, alla stregua dei principi statuiti dalle SSUU n 16568/2007 e ribaditi da SSUU 7537/2011, "la truffa va ravvisata solo ove l’ente erogante sia stato in concreto circuito nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi. La sussistenza della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall’altro, deve formulare oggetto (come segnalato dalla Corte Costituzionale) di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto" (così SSUU 7537/2011).

Il Tribunale ha ben impostato giuridicamente la questione, in quanto si è posto il problema di verificare se, nel comportamento tenuto dal ricorrente, fosse o meno ravvisabile quel quid pluris rispetto alla semplice falsa dichiarazione, tale da far ritenere la configurabilità dell’artificio e, quindi, della truffa.

Il Tribunale ha individuato un preciso elemento truffaldino consistente nell’"aver taciuto dell’esistenza di commesse per importi milionari che avrebbero consentito, se evase puntualmente, il normale esercizio dell’attività di impresa senza possibilità di sospendere l’obbligo retributivo facendone ricadere i costi sulla collettività".

Su tale importante dato fattuale, il ricorrente, si è limitato a replicare che il rilievo sarebbe indeterminato "oltre che aleatorio" non avendo il tribunale indicato nè l’ammontare nè la tempestica dei pagamenti.

Sennonchè, con tutta evidenza, si tratta di un’obiezione di scarso momento e del tutto generica perchè il Tribunale ha fatto riferimento ad un preciso dato fattuale (essendo irrilevante che non abbia provveduto a dettagliarlo) al quale il ricorrente ben avrebbe potuto replicare e contestare ove il medesimo non fosse stato rispondente alla realtà.

Posto quindi che è stato individuato un ben preciso dato fattuale che il ricorrente ha omesso di indicare e che ove fatto presente avrebbe portato alla reiezione della domanda di ammissione alla CIG, deve convenirsi con la conclusione alla quale è pervenuto il tribunale il quale ha rinvenuto in quel mendacio quel quid pluris idoneo ad integrare gli estremi degli artifizi e raggiri. Sul punto, infatti, è appena il caso di rilevare che, costantemente, questa Corte ha affermato che anche la semplice menzogna o anche l’omissione di informazioni dovute può costituire raggiro idoneo a concretare gli estremi del reato di truffa (Si veda: Sez. 2, Sentenza n. 10206 del 14/05/1982 Ud. – dep. 28/10/1982 – Rv. 155882; Conf. Mass. n. 150458; Conf. Mass. n. 143164; Conf mass n 120649; Conf. Mass. n. 100665; Sez. 2, Sentenza n. 29411 del 15/04/2008 Ud. – dep. 15/07/2008). p. 3. VIOLAZIONE dell’art. 646 c.p.: la complessa censura dedotta, è irrilevante ai fini della decisione per le ragioni di seguito indicate. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa solo ed esclusivamente per i reati di cui agli art. 640 bis e art. 416 c.p.. Come, però, si è detto in parte narrativa, al ricorrente sono stati contestati anche altri reati, fra cui, appunto, l’appropriazione indebita.

Sennonchè, il ricorrente sostiene che, nell’ambito della presente procedura, si possa e debba prendere in esame anche il suddetto reato, perchè il medesimo è un reato fine rispetto a quello di associazione a delinquere, sicchè, ove venga ritenuto insussistente, automaticamente verrebbe meno anche il reato associativo.

La censura, nei termini in cui è stata dedotta, è infondata.

Infatti, innanzitutto, in punto di mero fatto, va osservato che il reato associativo è stato ipotizzato come finalizzato non solo alla commissione del reato di appropriazione indebita ma anche di numerosi altri reati (fra cui l’art. 640 bis c.p.).

Di conseguenza, poichè deve ritenersi, allo stato degli atti, la configurabilità del reato fine della truffa, nonchè degli altri delitti di falso in bilancio e false fatturazioni (non peraltro, perchè, sul punto, nulla è stato dedotto), è del tutto evidente che, quand’anche in ipotesi, si accogliesse la tesi del ricorrente (e cioè l’insussistenza del reato di appropriazione indebita), il reato associativo manterrebbe tutta la sua validità in relazione agli altri reati.

Da qui la carenza di interesse ad agire del ricorrente. p. 4. violazione dell’art. 416 c.p.: anche la suddetta censura, nei testuali termini in cui è stata dedotta (cfr supra in parte narrativa), è infondata, atteso che il ricorrente ha basato la sua doglianza sulla sola circostanza dell’insussistenza dei reati fine. p. 5. violazione dell’art. 274 c.p.p.: il Tribunale, alla stregua di ben precisi episodi scoperti immediatamente prima dell’arresto ed, addirittura, quando il ricorrente era sottoposto alla misura cautelare, è giunto alla conclusione che, pur essendo assente ogni pericolo di fuga ("al Tribunale non pare esigenza in concreto enucleabile": pag. 12 ordinanza impugnata), concreti erano, invece, non solo la possibilità di reiterazione ("nell’ambito di ulteriori società riconducibili al ricorrente – l’elenco completo delle stesse non è ancora noto") ma anche e soprattutto l’inquinamento probatorio, esigenze cautelari queste non preservabili neppure con gli arresti domiciliari atteso che "l’indagato sarebbe in grado di seguire a distanza i propri affari, anche per interposta persona, di occultare/contraffare documentazione contabile, di rendere più difficoltoso l’accertamento degli inquirenti il quale si svolge a 360^ in considerazione dell’avvenuta contestazione del reato associativo". Il ricorrente, ha ribattuto che:

– il pericolo di reiterazione era da escludere, essendo state disposte misure interdittive che gli precludevano qualsivoglia attività di gestione non solo rispetto alle società indicate nella misura custodiate ma anche di qualsivoglia società tout court; – il pericolo di inquinamento probatorio era tecnicamente impossibile essendo stata tutta la documentazione sottoposta a sequestro e le società sotto il controllo di un commissario. L’episodio della delega rilasciata durante la stessa carcerazione era ininfluente ai fini cautelari perchè si trattava di una delega a trattare con i sindacati. Il tribunale, inoltre, non solo non aveva fondato il suo giudizio prognostico su criteri probabilistici e di attualità del pericolo di reiterazione, ma aveva omesso di giudicare su un motivo ben preciso ossia sulla mancanza, stabilità a pena di nullità, nell’ordinanza di custodia cautelare, di un termine di durata relativamente alle esigenze probatorie, ex art. 292 c.p.p., comma 2, lett. d).

Anche la suddetta censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.

La pretesa violazione dell’art. 292 (mancata fissazione di un termine) non sussiste atteso che, per costante giurisprudenza di questa Corte la fissazione della durata di una misura cautelare personale disposta al fine di garantire l’acquisizione o la genuinità della prova è necessaria quando la misura sia applicata al solo fine di tutelare la suddetta esigenza, ma non lo è nel caso in cui la misura sia disposta anche a tutela delle altre esigenze cautelari indicate nell’art. 274 cod. proc. pen., essendo inutile fissare un termine di durata quando la misura cautelare deve continuare ad essere applicata per la salvaguardia delle altre esigenze cautelari: Cass. 7582/2006 Rv. 236094: + Cass. 34447/2007.

Quanto alla carenza delle esigenza cautelari, va osservato che il tribunale ha individuato due dati fattuali ben precisi (rilascio di una delega mentre il ricorrente si trovava in carcere; accertamenti in corso nell’ambito di ulteriori società riconducibili al ricorrente il cui elenco completo non era ancora noto) che giustificano ampiamente la disposta misura cautelare atteso che dimostrano che, nonostante tutte le misure protettive predisposte, l’indagato è ancora in grado di condizionare la raccolta delle prove e di reiterare i reati. Di conseguenza, la motivazione addotta dal Tribunale deve ritenersi adeguata, logica e coerente con il dato normativo e, quindi, incensurabile. p. 6. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

RIGETTA CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2011

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