Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-04-2012, n. 6214 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 15 – 18.9.2009, confermò la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso fra la Poste Italiane spa e F.M. per il periodo 8.10.1999 – 28.2.2000 e aveva dichiarato la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, condannando la parte datoriale al risarcimento del danno in misura corrispondente alla retribuzione globale di fatto dalla data della messa in mora (21.7.2006).

Per la cassazione di tale sentenza la Poste Italiane spa ha proposto ricorso fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

L’intimata F.M. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1. La sentenza impugnata ha ritenuto l’infondatezza della tesi dell’avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso in relazione all’inerzia mantenuta dalla lavoratrice dopo la scadenza del contratto a termine e fino alla manifestazione della volontà di ripristinare la funzionalità di fatto del rapporto; tale assunto è stato censurato dalla ricorrente con il secondo mezzo.

1.1 Secondo il condiviso orientamento di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass., n. 23554/2004), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto) per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;

la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

Nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto di disattendere la tesi secondo cui la mancanza di una più tempestiva reazione del lavoratore alla estromissione configurerebbe un suo consenso alla risoluzione del rapporto alla scadenza del termine apposto, osservando, in conformità ai principi sulla ripartizione degli oneri probatori, che nessuna prova era stata fornita dalla parte eccipiente (ossia la Poste Italiane spa) in ordine alla sussistenza di circostanze dalle quali avrebbe potuto effettivamente ricavarsi la comune volontà delle parti di voler porre definitivamente fine al rapporto lavorativo e tali conclusioni, in quanto prive di vizi logici o errori di diritto, resistono alle censure mosse in ricorso.

2. Il ricordato contratto a termine in forza del quale l’odierna intimata è stata assunta venne stipulato a norma dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane la Corte territoriale ha attribuito rilievo decisivo al fatto che, avendo le parti collettive raggiunto un’intesa originariamente priva di termine, le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine, limite fissato al 30 aprile 1998; il contratto a termine in esame, stipulato in epoca successiva all’ultimo dei termini sopra indicati, era quindi illegìttimo in quanto privo del supporto derogatorio.

2.1 L’impostazione seguita dalla Corte territoriale è stata ampiamente censurata dalla Società ricorrente con il primo mezzo; la ricorrente contesta, in particolare, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi; deduce in particolare che questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.

2.2 Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr, ex plurimis, Cass., n. 18378/2006), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione ..), dopo il 30 aprile 1998. 2.3 Premesso, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata de rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza n. 4588/2006) e che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo; ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 12245/2003; 12453/2003); ha rilevato altresì che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass., n. 2866/2004).

2.4La giurisprudenza di questa Corte ha altresì ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento deiìinterpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr., ex plurimis, Cass., n. 5141/2004).

2.5 Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato, atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito e quelle oggi proposte all’attenzione della Corte non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravita da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

Il motivo all’esame va quindi disatteso.

3. In ordine alle conseguenze derivanti dalla riconosciuta nullità del termine, la Corte territoriale, disattendendo le eccezioni svolte al riguardo dalla parte datoriale e richiamando la documentazione prodotta dalla lavoratrice, ha confermato la statuizione del primo Giudice, che aveva condannato la Società al risarcimento del danno in misura corrispondente alla retribuzione globale di fatto per il periodo dal 21.7.2006, data della messa in mora configurata dalla offerta della prestazione lavorativa, al giorno della sentenza, detratto l’aliunde perceptum.

3.1 Con il terzo articolato motivo la parte ricorrente si è doluta delle suddette conseguenze risarcitorie, in particolare deducendo che:

– la lavoratrice non aveva fornito la prova del danno lamentato, in particolare non depositando i documenti utili a tal fine, e avrebbe dovuto offrire formalmente la propria prestazione lavorativa, illegittimamente rifiutata dalla parte datoriale;

– avrebbe dovuto essere onere della lavoratrice, in ordine alla svolta eccezione di aliunde perceptum, provare di non aver reperito altra occupazione ovvero di non avere ottenuto altre offerte di lavoro disattesa dalla Corte territoriale, poichè il risarcimento è da escludersi ove il danno del lavoratore, derivante dalla perdita della retribuzione, si sia ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti.

3.2 Secondo la giurisprudenza di legittimità:

– il ricorso per cassazione deve essere articolato su motivi dotati dei caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata; pertanto, poichè per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo; in riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 13830/2004; 359/2005; 22499/2006; 15952/2007;

17125/2007);

– il ricorrente che denuncia il vizio o la carenza di motivazione per omesso esame di documenti decisivi ha l’onere di indicare, ai fini della corretta proposizione della censura, i singoli documenti che assume essere stati trascurati o valutati insufficientemente o illogicamente, riproducendo nel ricorso il tenore esatto de documento il cui omesso o inadeguato esame è censurato (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 6456/1994; 8388/2002; 13953/2002; 9954/2005; 18506/2006).

3.3 Con il motivo all’esame la ricorrente non ha rispettato tali principi, atteso che:

– il rilievo della necessità da parte del lavoratore della prova del danno trascura del tutto di considerare che i Giudici del merito hanno espressamente valorizzato l’atto con cui la parte datoriale è stata vanamente messa in mora e sulla base del quale la lavoratrice ha quindi provato il fondamento della propria pretesa;

– non è stato tenuto conto che gli effetti risarcitori sono stati appunto fatti decorrere dalla data di messa in mora;

– non è stato riprodotto in ricorso il contenuto dell’atto sulla base del quale si è concretizzata la messa in mora, vanificando con ciò in radice qualsivoglia spunto critico inerente ad eventuali vizi di motivazione sui punto;

– quanto all’aliunde perceptum, il relativo profilo di censura è affatto inconferente rispetto al decisum, che ha accolto la relativa eccezione.

3.4 Il motivo all’esame, nei distinti profili in cui si articola, è quindi inammissibile.

4. Va considerato, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr., Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In tale contesto, è altresì necessario che ti motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

Nel caso in esame il motivi che investe i tema al quale è riferibile la disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, è il terzo, testè esaminato, il quale, come evidenziato, è inammissibile.

Deve quindi convenirsi per l’inapplicabilità nel presente giudizio dei ricordato ius superveniens.

5. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 40,00 (quaranta), oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *