Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-04-2012, n. 6212

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

In totale riforma delle statuizioni adottate in prime cure il 15.1.09 dal Tribunale di Tempio Pausania, con sentenza depositata il 3.12.09 la Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, rigettava la domanda, proposta da P.A.C., di condanna della C.S. Nautica S.r.l. a pagargli le retribuzioni maturate quale direttore della società medesima, così come rigettava la riconvenzionale con cui la C.S. Nautica S.r.l. aveva chiesto la condanna dell’attore a restituirle somme da lui indebitamente incassate per vendita di barche ed attività manutentive svolte dalla società in favore di clienti.

I giudici di secondo grado rilevavano il difetto di prova tanto della riconvenzionale quanto dell’asserito rapporto di lavoro subordinato sotteso alla domanda principale avanzata dal P., che per la cassazione di tale sentenza ricorre affidandosi a tre motivi.

Resiste con controricorso la C.S. Nautica S.r.l., che spiega ricorso incidentale articolato in due motivi, cui resiste a sua volta il P. con controricorso.

Motivi della decisione

Preliminarmente ex art. 335 c.p.c., si riuniscono i ricorsi perchè aventi ad oggetto la medesima sentenza.

1- Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta vizio di motivazione e travisamento dei fatti laddove l’impugnata sentenza, pur rilevando che dall’istruttoria di causa erano emersi una costante e pluriennale presenza in azienda del P. e i suoi attivi rapporti con dipendenti, clienti e fornitori della società nonchè con sedi istituzionali presso le quali la rappresentava, nondimeno osserva che si tratta di attività spiegabili con la qualità di socio rivestita dal P. e con una sorta di propria "auto investitura" e non necessariamente con il conferimento di incarico da parte della società: obietta, invece, il ricorrente che, come documentato in atti, fin dal 17.10.1996 egli aveva ceduto alla moglie la propria (per altro modesta) quota di partecipazione societaria;

altrettanto viziata – si prosegue in ricorso – è la motivazione nella parte in cui svaluta l’elemento indiziario (a favore della subordinazione) costituito dal verbale INAIL, poi non opposto dalla società, di accertamento della mancata assicurazione del P.;

altro vizio di motivazione – prosegue il ricorrente – si rinviene laddove la Corte territoriale, pur ammettendo che il P. aveva svolto attività ai massimi livelli dirigenziali nell’interesse della società, tuttavia ha concluso che ciò non prova il rapporto di lavoro subordinato.

Con il secondo motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. per avere l’impugnata sentenza ravvisato la causa della prestazione lavorativa, pur indubbiamente svolta dal P. per otto anni quale preposto all’azienda della C.S. Nautica, in una sorta di "auto investitura" quale parente di soci che della società medesima erano dipendenti: in realtà, a parte il rilievo dell’infondatezza in punto di fatto dell’accenno, che pur si legge nella gravata pronuncia, al fatto che il P. avrebbe frequentato l’azienda perchè ne era socio il figlio (mentre i documenti in atti dimostrano che soltanto la moglie ne era socia, a partire dal 17.10.96), obietta il ricorrente principale che la qualità di socio non autorizza ad ingerirsi dell’attività sociale al punto da gestire il cantiere, assumere il personale, firmare contratti con fornitori e clienti etc.; nè la società ha sostenuto che il P. ne fosse amministratore; pertanto, escluso che il P. avesse operato abusivamente per ben otto anni, non resta che l’ipotesi della natura dirigenziale dell’attività da lui prestata.

Con il terzo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in relazione all’art. 1362 c.c., comma 2, per avere l’impugnata sentenza escluso il rapporto di lavoro subordinato fra le parti sulla base dell’asserita mancanza di un accordo in tal senso, neanche in termini di pattuizione di una retribuzione, trascurando – invece – che il contratto di lavoro e il vincolo della subordinazione si desumono dal contegno attuativo delle parti nel concreto assetto di interessi da loro prescelto.

I tre motivi di censura – da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono per certi profili esterni all’area dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e, per altri, infondati.

Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema – da cui non si ravvisa motivo alcuno di discostarsi – il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un punto (ora, dopo la novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, di un "fatto") decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità controllare unicamente sotto il profilo logico – formale la valutazione operata dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi).

Nel caso di specie, al contrario, l’impugnata sentenza ha, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, rilevato che il P., non era assoggettato ad altrui eterodirezione (nei termini sfumati pur compatibili con l’ipotesi di un rapporto di lavoro a livello dirigenziale) e che dalle risultane istruttorie emerge che il ricorrente era considerato, anche all’esterno, come il "boss", ovvero il proprietario e non come un dipendente. Aggiunge, poi, che il non aver il P. percepito per ben otto anni compenso alcuno, senza muovere proteste o richieste di sorta, mal si concilia con un rapporto di lavoro subordinato.

Ancora i giudici d’appello hanno esattamente notato che la prolungata frequentazione dell’azienda è di per sè compatibile tanto con un rapporto di lavoro subordinato quanto con una sostanziale ingerenza (che definiscono "auto investitura") nell’amministrazione della società, spiegabile con la qualità di socio e con il rapporto di parentela con altri due soci, ingerenza che – rileva questa S.C. – tollerata o subita che sia, resta in punto di diritto concettualmente diversa dall’attività di lavoro subordinato.

Infine, la mancanza di prova d’un qualche accordo negoziale con la società, a monte dell’attività espletata dal P., se non esclude di per sè un rapporto subordinato nei fatti, neppure concorre a dimostrarlo.

Per quel che concerne il verbale INAIL di accertamento della mancata assicurazione del P., si noti che lo stesso ricorso ne ammette una valenza solo indiziaria, in quanto tale liberamente apprezzabile dai giudici di merito, che ne hanno evidenziato l’insufficienza perchè l’accertamento contiene soltanto le valutazioni – non vincolanti – dell’ispettore verbalizzante.

Quanto alla censura di travisamento, essa potrebbe astrattamente farsi valere solo in via di revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 e non mediante ricorso per cassazione (giurisprudenza costante: cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3^ n. 15702 del 2.7.10 e Cass. Sez. 3^ n. 213 del 9.1.07), se intesa come denuncia di travisamento del fatto.

Ove – invece – volta a dedurre un ipotetico travisamento della prova, si rivelerebbe comunque infondata perchè detto vizio sussiste solo se il contenuto di una determinata prova sia stato veicolato in maniera distorta all’interno della decisione, ovvero solo se il significante (e non il significato) risulti diametralmente opposto a quello riversato nella motivazione: ma non è questo il caso, avendo l’impugnata sentenza fedelmente riprodotto il contenuto delle prove acquisite agli atti, limitandosi ad attribuire loro una valenza giuridica diversa da quella suggerita in ricorso.

In ordine, poi, alla c.d. "auto investitura" e/o al titolo per cui il P. potrebbe aver espletato la propria attività non remunerata per otto anni, a parte qualche improprietà terminologica in cui incorre la gravata pronuncia resta il rilievo che svariati possono essere i titoli per cui un soggetto (socio, ex socio o parente o coniuge di soci) si occupi della concreta gestione di una società, che vanno dall’esistenza d’un rapporto di lavoro dirigenziale (come invocato dal ricorrente principale) alla figura del socio occulto o dell’amministratore di fatto.

Verificare se e quale di tali figure sia ravvisabile nel caso concreto è compito dei giudici del merito che, se nella specie non hanno dato esaustiva risposta in positivo circa la qualificazione del rapporto, nondimeno hanno chiaramente escluso – con motivazione, giova ribadire, scevra da vizi logici o giuridici – che vi siano prove sufficienti di subordinazione e ciò vuoi sotto il profilo dell’inesistenza d’una concorde volontà negoziale in tal senso (neppure sotto forma di fatti concludenti), vuoi sotto quello relativo agli indici sintomatici della subordinazione desumibili dal concreto svolgersi del rapporto.

In altre parole, la motivazione della Corte territoriale ha sostanzialmente soddisfatto entrambi gli orientamenti in tema di accertamento della subordinazione, che possono, in linea di massima, ricondursi a due direttrici fondamentali (che spesso si integrano fra loro) di cui l’una privilegia l’esegesi della volontà delle parti, l’altra l’aspetto contenutistico del rapporto così come ha trovato attuazione concreta, indipendentemente dall’intento originariamente esplicitato (se esplicitato) dai contraenti.

A ciò si aggiunga che questa S.C. ha già avuto modo di statuire che, pur essendo astrattamente possibile che il socio di una società di capitali ne sia altresì dipendente, nondimeno non è configurabile il rapporto di lavoro con la società quando egli (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (cfr. Cass. 17.11.04 n. 21759).

In ricorso si nega tale qualità di socio del P., in tal senso prospettandosi un travisamento del fatto che però, giova rimarcare, non è denunciarle mediante ricorso per cassazione.

2 – Con il primo motivo del ricorso incidentale si lamenta violazione dell’art. 2727 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c., per avere l’impugnata sentenza erroneamente valutato le prove documentali portate a sostegno della riconvenzionale, fra cui il decreto di rinvio a giudizio in sede penale del P. per il delitto di appropriazione indebita ai danni della società.

Il motivo è inammissibile in quanto invoca una mera rivisitazione del merito, operazione preclusa in sede di legittimità.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale si deduce violazione dell’art. 421 c.p.c., per non avere la Corte d’appello esercitato i poteri istruttori d’ufficio al fine di accertare i fatti posti a sostegno della riconvenzionale.

Il motivo è infondato.

Nel rito del lavoro l’uso dei poteri istruttori d’ufficio, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso al motivato apprezzamento del giudice del merito, censurabile in sede di legittimità solo ove la parte dimostri di averne sollecitato l’esercizio indicando anche i mezzi di prova suggeriti:

diversamente, si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito (cfr., ex aliis, Cass. 12.3.09 n. 6023; Cass. 26.6.06 n. 14731).

Nel caso in esame, invece, il ricorso incidentale non allega nemmeno se, quando e come sia stato chiesto alla Corte territoriale di avvalersi dei poteri istruttori d’ufficio.

3 – In conclusione, entrambi i ricorsi sono da rigettarsi.

La reciproca soccombenza importa integrale compensazione fra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi, con integrale compensazione fra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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