Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2011) 27-10-2011, n. 38941

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 22.1.2009 il GUP del tribunale di Lecce dichiarò P.V. colpevole dei reati di cui: a) alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, n. 1, 4, 8, e art. 4, n. 1; c) agli artt. 629 e 56 e 629 c.p., e la condannò alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione ed Euro 400,00 di multa, con la confisca del denaro e degli oggetti in sequestro.

2. La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza in epigrafe, per quanto concerne il reato di cui al capo A), osservò che nella condotta dell’imputata era ravvisabile l’esercizio di una casa di prostituzione, con sfruttamento dell’altrui prostituzione e svolgimento di attività di reclutamento; che avendo le prostitute dichiarate di dividere i loro guadagni a metà con l’imputata, doveva ritenersi che questa ricevesse circa Euro 10.000,00 al mese, ossia una somma esorbitante le mere spese di gestione; che sussisteva l’ipotesi del reclutamento; che era configurabile l’aggravante della pluralità delle persone che esercitavano la prostituzione. Quanto al reato di cui al capo C), la Corte d’appello ritenne che il fatto contestato come estorsione tentata e relativo al conseguimento di un risarcimento per il furto di gioielli, andava qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non perseguibile per mancanza di querela. Quanto alla estorsione consumata relativa alle rimesse di denaro pretese dopo il 1 settembre 2007, la Corte osservò che la somma richiesta era in linea con i proventi della prostituzione e che quindi il fatto andava qualificato come aggravante ex L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 1. Di conseguenza, la Corte dichiarò l’imputata colpevole del reato di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1, 4, 8, e art. 4, nn. 1 e 7, e rideterminò la pena in anni tre di reclusione ed Euro 400,00 di multa, confermando la confisca del denaro e degli altri oggetti in sequestro.

3. L’imputata propone ricorso per Cassazione, a mezzo dell’avv. Nicola Stefanizzo, deducendo:

1) inosservanza ed erronea applicazione della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1, 4, 8, nonchè mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Osserva innanzitutto che il favoreggiamento della prostituzione non può concorrere, nemmeno in astratto, con l’esercizio di una casa di prostituzione, nel quale è assorbito, trattandosi di un concorso di norme sotto il profilo della progressione criminosa. Nel caso concreto poi la condotta di favoreggiamento si è svolta in un unico contesto di azione ed è stata strettamente correlata alla destinazione dell’abitazione all’esercizio del meretricio.

Osserva poi che la Corte d’appello non ha neppure preso in considerazione il motivo di appello relativo al reato di favoreggiamento.

Analogamente, il reato di reclutamento per l’esercizio della prostituzione nella specie integra un elemento costitutivo del reato di esercizio di una casa di prostituzione e da questo è assorbito.

Rileva quindi che la Corte d’appello avrebbe semmai configurato una ipotesi di tentativo e non di reato consumato, perchè le frasi intercettate si riferivano alla selezione di nuove aspiranti prostitute, delle quali non risulta avvenuto l’ingaggio, e non a quelle già operanti nel centro.

Quanto alle altre ipotesi osserva che la Corte d’appello, erroneamente e con travisamento del fatto, ha ritenuto che l’imputata ricavasse circa Euro 10.000,00 al mese dalla attività delle prostitute, essendosi la Corte limitata a dividere a metà l’importo complessivamente guadagnato da esse, senza però considerare che è pacifico nel processo che le prostitute versavano all’imputata solo la metà dei ricavi ottenuti dai massaggi erotici, mentre trattenevano per intero i ricavi per le prestazioni sessuali complete. Le somme versatele quindi non eccedevano in modo esorbitante il valore dei servizi e della attrezzature e pertanto costituivano solo un contributo per le spese di gestione della casa che le donne continuavano a pagare anche dopo che la stessa era andata via.

Osserva poi che non sono ravvisabili le fattispecie di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1 e 4, dovendosi parlare di c.d. prostituzione di gruppo. Infatti, vi era un rapporto di sostanziale parità tra l’imputata e le altre operatrici del centro, che partecipavano pienamente alla gestione dello stesso e percepivano una quota parte della remunerazione anche quando si erano rifiutate. Si è perciò trattato di un c.d. favoreggiamento reciproco, che esclude il reato.

Lamenta infine che la motivazione è meramente apparente perchè la sentenza impugnata si è limitata a richiamare acriticamente la sentenza di primo grado senza valutare le specifiche censure contenute nell’atto di appello.

2) inosservanza ed erronea applicazione della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 1, e mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Osserva che le minacce indicate nel capo C) riguardano esclusivamente la somma di Euro 10.000,00 e non anche quella di Euro 300,00 relativa alle rimesse di denaro dopo il 1 settembre 2007, per le quali non risulta fatta alcuna minaccia. Le minacce invero avevano una unica causale ed erroneamente ed immotivatamente sono state sdoppiate per riferirle ad una doppia causale.

3) inosservanza ed erronea applicazione della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 7, nonchè dell’art. 597 c.p.p.. Osserva che non è configurabile tale aggravante perchè l’esercizio di una casa di prostituzione implica una pluralità di soggetti che in essa si prostituiscono, che è quindi elemento costitutivo della fattispecie.

Lamenta che in ogni caso vi è violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, perchè la Corte d’appello ha applicato l’aggravante sebbene non contestata nel corso del procedimento. Invero, la Corte di Strasburgo ha affermato il principio – recepito dalla giurisprudenza nazionale – che anche la mera riqualificazione giuridica del fatto contestato ad opera del giudice esige che sia assicurata all’imputato la garanzia del contraddittorio. Inoltre l’imputato ha interesse a vedere eliminata l’aggravante anche se ritenuta equivalente alle attenuanti generiche.

Osserva poi che nella specie le conseguenze della applicazione dell’aggravante in questione rilevano anche ai fini della violazione del divieto di reformatio in peius, che opera con riguardo a tutti gli elementi che concorrono alla determinazione della pena. La Corte d’appello ha ingiustamente contenuto la riduzione di pena derivante dalla elisione o riqualificazione del reato più grave, riqualificando l’istituto della continuazione nella aggravante speciale di cui all’art. 4, n. 7, cit., con esiti di maggiore severità punitiva per l’imputato anche nella determinazione della pena.

4) inosservanza ed erronea applicazione della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 1, e mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Lamenta che non si comprende la ragione per cui la Corte d’appello ha ritenuto timbri, agende, blocchetti degli assegni, telefonini cose che servirono o furono destinate a commettere i reati. Quanto alla confisca del denaro, lamenta che la Corte d’appello non ha preso in considerazione, oltre agli stipendi per l’attività di insegnante, anche i compensi per la consulenza telefonica. La confisca perciò andava limitata all’importo di Euro 1.300,00 di cui al capo B) della rubrica.

Motivi della decisione

4. La ricorrente deduce innanzitutto l’inesistenza di qualsiasi reato previsto dalla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, ed anche di quello di gestione di una casa di prostituzione, perchè in realtà nella specie si sarebbe trattato solo di c.d. prostituzione di gruppo, o di c.d. favoreggiamento reciproco, in quanto vi era un rapporto di sostanziale parità tra l’imputata e le altre operatrici del centro, che partecipavano pienamente alla gestione dello stesso e percepivano una quota parte della remunerazione anche quando rifiutavano la prestazione sessuale.

Il motivo si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato.

Il giudice del merito, infatti, con apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha ritenuto che dalle risultanze processuali emergeva la prova che era la P. che gestiva, dirigeva ed amministrava il centro massaggi, prendendo in locazione l’immobile, scegliendo le forme di copertura, tenendo i contati con i clienti, stabilendo i compensi ed accettando eventuali variazioni, selezionando le nuove aspiranti prostitute, effettuando annunci pubblicitari, gestendo e suddividendo i guadagni.

5. La ricorrente sostiene poi che la L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, costituirebbe un reato unico, descritto in una norma a più fattispecie costitutive equivalenti, escludendo la configurabilità di situazioni di concorso.

L’assunto è infondato perchè la tesi del reato unico, descritto in una norma a più fattispecie costitutive equivalenti, fu sostenuta da un insigne A. in sede di prima interpretazione della legge (infelicemente formulata, sotto l’aspetto tecnico, con metodo casistico cui si connettono inevitabilmente pleonasmi, lacune e dubbi), ma non ha trovato significativo seguito in dottrina ed è rimasta superata dalla costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, che ha escluso la configurabilità di situazioni di concorso soltanto in relazione ad ipotesi determinate (v. Sez. 3, 5.11.1999, n. 2730, Gori).

6. Con il primo motivo la ricorrente sostiene: a) che il reato di esercizio di una casa di prostituzione non può concorrere, nemmeno in astratto, con quello di favoreggiamento della prostituzione, da cui è assorbito; b) che nel caso concreto la condotta di favoreggiamento si è svolta in un unico contesto ed è stata strettamente correlata alla destinazione dell’abitazione all’esercizio del meretricio; c) che comunque la Corte d’appello ha totalmente omesso di motivare sui motivi di appello relativi al reato di favoreggiamento.

Il primo profilo del motivo è fondato e va quindi accolto, con conseguente assorbimento degli altri profili.

La Corte infatti condivide, e quindi conferma, il risalente e prevalente indirizzo secondo cui "il delitto di favoreggiamento dell’altrui prostituzione non può concorrere con l’esercizio di una casa di prostituzione poichè quest’ultimo reato implica sempre una certa facilitazione, che si offre ad, una o più prostitute per svolgere la loro attività, con la messa a disposizione dei locali.

L’azione, infatti, che è propria del reato di favoreggiamento, costituisce un minus attraverso cui necessariamente passa quella costitutiva dell’esercizio di una casa di prostituzione e conseguentemente, per il principio dell’assorbimento, nel più rimane compreso il meno. Ricorre, pertanto, nella specie non l’ipotesi del concorso ideale di reati (pluralità di reati e unità di azioni), ma quella del concorso di norme sotto il profilo della progressione criminosa. ( Conf mass n 099549; (Conf. mass n 103838; (Conf mass n 104845; (Conf mass n 133382; (Conf. mass n 105595)" (Sez. 3, 24.6.1983, n. 7783, Saracino, m. 160424).

Indirizzo questo che è stato anche successivamente ribadito e confermato, affermandosi che nel reato di esercizio di casa di prostituzione "è assorbito il favoreggiamento, che costituisce una forma generica di reato di fronte a quelle speciali e del reclutamento e dell’esercizio di una casa di prostituzione" (Sez. 3, 11.4.1995, n. 6353, Bellia, m. 202284).

A ben vedere non si discosta in realtà da questo indirizzo nemmeno l’affermazione (apparentemente difforme) che "il concorso del reato di favoreggiamento della prostituzione con il reato di esercizio di una casa di prostituzione è escluso solo se trattasi di unico contesto d’azione" (Sez. 3, 23.10.1990, n. 15538, Cosma, m. 185848;

che peraltro pare riferirsi e meglio attagliarsi alla diversa ipotesi del concorso con il reato di locazione di immobile a fini di esercizio di una casa di prostituzione: cfr. Sez. 3, 20.12.2002, n. 3874, Verzicco, m. 223550); affermazione che potrebbe condividersi se con essa si voglia sostenere che un comportamento di favoreggiamento può concorrere quando esso esuli del tutto dai comportamenti che integrano il reato di esercizio di una casa di prostituzione. Sotto questo profilo, nella specie il concorso del favoreggiamento sarebbe comunque escluso perchè la condotta dell’imputata è stata strettamente correlata alla destinazione dell’abitazione all’esercizio del meretricio.

La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio nella parte in cui ha ritenuto il concorso con il reato di favoreggiamento della prostituzione.

7. E’ invece infondato il motivo con cui si eccepisce che erroneamente è stato ritenuto il concorso con il reato di sfruttamento della prostituzione.

Va invero ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, che qui si condivide e conferma, "Il delitto di esercizio di casa di meretricio può concorrere con quello di sfruttamento della prostituzione quando l’esercente della casa percepisca, oltre le somme costituenti il compenso per l’attività di tenutario, altri vantaggi economici o utilità derivanti dai guadagni che la prostituta ricava dall’esercizio del suo mestiere" (Sez. 3, 5.11.1999, n. 2730, Gori, m. 215761; Sez. 3, 21.1.2010, n. 9447, Memoli, m. 246343).

La ricorrente sostiene che essa non percepiva una somma superiore ai servizi resi perchè il suo guadagno, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, non era di circa Euro 10.000,00 al mese, e ciò perchè la Corte d’appello ha erroneamente diviso a metà l’importo ritenuto complessivamente guadagnato dalle prostitute, senza considerare che esse invece le versavano solo la metà dei ricavi ottenuti dai massaggi erotici, mentre trattenevano per intero i ricavi per le prestazioni sessuali complete. Di conseguenza, le somme versate non eccedevano in modo esorbitante il valore dei servizi e delle attrezzature e pertanto costituivano solo un contributo per le spese di gestione della casa, che del resto le donne continuavano a pagare anche dopo che la P. era andata via.

Il motivo si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato.

La Corte d’appello, invero, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha ritenuto, che sulla base di una stima ragionevole, doveva presumersi che la P. ricevesse dalla prostitute non meno di Euro 10.000, al mese, ossia una cifra esorbitante rispetto alle spese di gestione. La al mese, ossia una cifra esorbitante rispetto alle spese di gestione. La ricorrente non ha nel giudizio di merito dedotto elementi di prova a sostegno della sua affermazione, la quale del resto è smentita da essa stessa con il secondo motivo di ricorso, laddove sostiene che essa ricavava dal centro non meno di Euro 300,00 al giorno.

8. Con il primo motivo la ricorrente eccepisce anche che non è configurabile il reato di reclutamento per l’esercizio della prostituzione che nella specie integra un elemento costitutivo del reato di esercizio di una casa di prostituzione.

Sul punto, come è noto, esiste un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte perchè, secondo un primo e maggioritario indirizzo, il reato di reclutamento non può concorrere "con la fattispecie delittuosa di cui al citato art. 3 , n. 1, perchè il reclutamento, quando avviene col fine di fare esercitare alla persona reclutata la sua illecita attività in una casa di prostituzione, diventa un elemento costitutivo del reato di esercizio di casa di prostituzione o da questo viene assorbito, così come ne è assorbito il favoreggiamento" (Sez. 3, 11.4.1995, n. 6353, Bellia, m. 202284;

conf. 19.12.1966, n. 2885, Buonsante, m. 103485), mentre secondo un minoritario ma più recente indirizzo "Ove al reclutamento segua l’esercizio del meretricio in una casa di prostituzione diretta dal reclutante, le ipotesi previste alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1 e 4 concorrono, poichè l’esercizio di una casa di prostituzione ben può prescindere da ogni attività di reclutamento;

non potendosi così parlare di mezzo necessario" (Sez. 3, 5.11.1999, n. 2730, Gori, m. 215760).

Ritiene il Collegio che non sia necessario in questa sede risolvere il contrasto perchè, anche alla stregua del secondo indirizzo, occorre pur sempre che il reclutamento sia stato effettuato dal tenutario della casa di prostituzione per fare esercitare alla reclutata il meretricio nella casa stessa. Nella specie, dalla sentenza impugnata non risulta alcuna prova sulla circostanza che l’imputata avesse compiuto una vera e propria attività di reclutamento con riferimento alle donne che esercitavano il meretricio nel centro, risultando invece piuttosto che essa si limitava ad accogliere le ragazze che spontaneamente si presentavano e quindi, tutt’al più, a mettere in atto una condotta di favoreggiamento, che resta comunque assorbita in quella di esercizio della casa di prostituzione. La sentenza impugnata richiama invero il contenuto di una intercettazione laddove la P. discorreva di persone contattate al fine di introdurle nel giro di prostituzione, ma a pag. 2 della stessa sentenza, dove è riportato il contenuto testuale della conversazione, emerge che non di reclutamento si trattava ma di rifiuto di ragazze che si presentavano spontaneamente al centro e che dal l’imputata erano ritenute inadatte. Non vi è invece nella motivazione alcun accenno ad una avvenuta concreta attività di reclutamento e di ingaggio nei confronti delle donne che si prostituivano nel centro.

Anche aderendo al secondo degli indirizzi richiamati, pertanto, l’ipotesi del reclutamento deve essere esclusa perchè dalla sentenza impugnata non emerge alcun elemento da cui possa desumersi una concreta attività di reclutamento della prostitute che esercitavano nel centro. L’ipotesi poi di un reclutamento di altre prostitute non è stata contestata e parimenti non risulta da nessun elemento probatorio indicato nella sentenza impugnata.

In ordine alla ipotesi del reclutamento, quindi, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio.

9. Con il terzo motivo la ricorrente contesta la sussistenza della aggravante del fatto commesso ai danni di più persone di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 7, e ciò perchè: a) tale aggravante non è configurabile in relazione alla ipotesi dell’esercizio di una casa di prostituzione, che implica una pluralità di soggetti che in essa si prostituiscono e quindi è elemento costitutivo della fattispecie; b) vi è violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, perchè l’aggravante è stata applicata sebbene non contestata nel corso del procedimento e senza che tale possibilità di applicazione fosse stata contestata dal pubblico ministero o rappresentata dal giudice nel contraddittorio con l’imputato.

Il primo, ed assorbente, profilo è fondato.

La Corte invero ritiene di dover confermare il prevalente, e comunque più convincente, orientamento secondo cui "per integrare il concetto di casa di prostituzione previsto nella L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1 e 2 è necessario un minimo, anche rudimentale, di organizzazione della prostituzione, che implica una pluralità di persone esercenti il meretricio" (Sez. 3, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m. 214228); e "per integrare il concetto di casa di prostituzione, è necessario il contestuale esercizio del meretricio da parte di più persone negli stessi locati ed, all’interno dello stesso locale, l’esistenza di una sia pur minima forma di organizzazione" (Sez. 3, 16.4.2004, n. 23657, Rincari, m. 228971). Da questa premessa la Corte ha poi coerentemente tratto la conseguenza che "Il reato di chi, avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa, la concede in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione non sussiste, pertanto, quando il locatore conceda in locazione l’immobile ad una sola donna, pur essendo consapevole che la locataria è una prostituta, e che eserciterà nella casa locata autonomamente e per proprio conto. (La Corte ha in proposito precisato che il locatore potrà rispondere in tale caso di favoreggiamento ai sensi della citata Legge, art. 3, n. 8)" (Sez. 3, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, m. 214228, cit.) e persino che "Non integra il reato di locazione di immobile alfine dell’esercizio di una casa di prostituzione concedere in locazione un appartamento all’interno del quale, sebbene con frequente turnazione, venga esercitata la prostituzione di volta in volta da una sola donna" (Sez. 3, 16.4.2004, n. 23657, Rincari, m. 228971, cit.).

Il contrario indirizzo (Sez. 3, 5.11.1999, n. 2730, Gori, m. 215760;

Sez. 3, 27.2.1007, n. 21090, Petrosillo, m. 236739) non convince perchè se fosse vero che per aversi casa di prostituzione sia sufficiente anche il meretricio di una sola persona, allora dovrebbe rispondere di locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione (L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 2), anzichè di favoreggiamento della prostituzione, colui il quale affitti un immobile ad una donna consapevole che la stessa è una prostituta e che eserciterà il meretricio nella casa locata autonomamente e per proprio conto, eventualità questa che è stata esclusa dalla giurisprudenza dianzi richiamata, anche in ipotesi limite come quella della turnazione di più prostitute, e che non risulta essere mai sta adottata da decisioni difformi.

Del resto, anche sulla base della ratio legis oltre che della lettera della disposizione, appare preferibile l’interpretazione secondo cui per integrare il concetto di "casa di prostituzione", previsto espressamente nella L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, nn. 1 e 2, e implicitamente nel cit. articolo, n. 3, è necessario un minimo – anche rudimentale – di organizzazione della prostituzione, che implica una pluralità di persone esercenti il meretricio. La nozione di casa di prostituzione contenuta nella originaria proposta di L. Merlin, che la identificava in ogni "stabile appartamento o altro luogo chiuso in cui due o più persone esercitano la prostituzione", benchè scomparsa come formula definitoria nella L. 20 febbraio 1958, n. 75, è sicuramente rimasta nella concettuologia del legislatore, il quale ha chiaramente distinto le prime tre ipotesi previste nell’art. 3, con cui intende punire l’organizzazione sotto qualsiasi forma delle soppresse "case di meretricio", per contrastare ogni esercizio professionale di locali in cui si fa mercimonio del proprio corpo dalle altre cinque ipotesi previste nello stesso articolo, volte a reprimere penalmente ogni forma di lenocinio. A questo riguardo è significativo che per le ipotesi di reclutamento e induzione alla prostituzione il legislatore le reputi esplicitamente rilevanti sotto il profilo penale anche se riferite a una sola persona; mentre anche il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione assumono indubbiamente rilevanza anche se riferiti a una sola persona, sia per la natura intrinseca della condotta sia per il loro carattere residuale anche rispetto alle ipotesi di reclutamento e induzione. In altri termini, insomma, una lettura logica e sistematica dell’art. 3 induce a individuare nella casa di prostituzione prevista nelle prime tre ipotesi una forma organizzata di esercizio della prostituzione altrui, mentre tutte le varie condotte di lenocinio previste nelle altre ipotesi hanno rilievo penale anche se riguardano una sola prostituta (cfr. Sez. 3, 19.5.1999, n. 8600, Campanella, cit).

La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio in ordine alla aggravante di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 7, che non è configurabile nel caso in esame.

10. Con il secondo motivo la ricorrente contesta la sussistenza dell’aggravante di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 1, (fatto commesso con minaccia) perchè le minacce indicate nel capo C) della imputazione riguardavano esclusivamente la somma di Euro 10.000,00 e non anche quella di Euro 300,00 relativa alle rimesse di denaro dopo il 1 settembre 2007, per le quali non risulta fatta alcuna minaccia.

Il motivo è fondato essendo effettivamente la motivazione della sentenza impugnata sul punto carente e manifestamente illogica. Lo stesso capo di imputazione, infatti, riporta testualmente le frasi minacciose, che erano consistite nelle parole "se non mi date Euro 10.000 so dove abiti ti faccio bruciare a te e la tua famiglia me la pagherete mando qualcuno sotto casa a farvela pagare" (rivolte a B.); "io sono parente anche di … i quali non si dispiacciono a farmi questi tipi di favori anzi li fanno volentieri stai attenta se non ci dai Euro 10.000 farai una brutta fine tu e la tua famiglia" (rivolta a L.); "giro tutta (OMISSIS) fino a trovare B. per bruciarla viva". E’ quindi evidente che la minaccia era finalizzata alla consegna di Euro 10.000 nel loro complesso e non di piccole somme giornaliere. Ora la Corte d’appello ha ritenuto che questa minaccia diretta a farsi consegnare la somma di Euro 10.000,00, non riguardava l’attività di prostituzione ed i relativi proventi, bensì era pretesa come risarcimento del danno per un furto di gioielli che l’imputata riteneva essere stati sottratti dalle prostitute. La Corte d’appello ha quindi qualificato il fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni non procedibile per mancanza di querela. La Corte d’appello ha tuttavia ritenuto sussistenti anche altre minacce aventi invece ad oggetto il pagamento della somma di Euro 300,000 giornaliere richiesta alle prostitute come percentuale sul ricavo della loro attività ed ha quindi ritenuto che tale comportamento minaccioso integrasse l’aggravante di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, comma 1.

Sennonchè, come già rilevato, dal contenuto delle frasi minacciose riportate nel capo di imputazione e dianzi trascritte, appare evidente che esse si riferissero solo alla consegna dei Euro 10.000 pretesi come risarcimento del danno per il furto dei gioielli e non anche alla consegna della percentuale dei ricavi dell’attività di prostituzione. Dallo stesso capo di imputazione, quindi, sembra apparire che le minacce avessero una unica causale, sicchè è fondata la doglianza della ricorrente secondo cui la Corte d’appello erroneamente ed immotivatamente le ha sdoppiate per riferirle ad una doppia causale. In ogni caso, la sentenza impugnata – anche a prescindere dalla contestazione – non spiega perchè la frase "ogni giorno mi dovete mandare almeno Euro 300, io so quanto frutta questo posto" conterrebbe una qualche minaccia così come non indica in alcun modo in cosa sarebbe consistita la minaccia in ordine alla richiesta di invio della percentuale sui ricavi.

In ordine alla aggravante del fatto commesso con minaccia, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per mancanza e comunque manifesta illogicità della motivazione.

11. Con il quarto motivo infine la ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al sequestro di oggetti vari, perchè non si comprenderebbe perchè la Corte d’appello abbia ritenuto che timbri, agende, blocchetti degli assegni, telefonini fossero cose che servirono o furono destinate a commettere i reati.

L’assunto è infondato perchè la Corte d’appello ha plausibilmente ritenuto che tali oggetti erano stati legittimamente sequestrati perchè strumentali alla attività svolta.

Quanto al sequestro del denaro, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello ha preso in considerazione solo gli stipendi per la attività di insegnante e non i compensi ricevuti per la consulenza telefonica. Il motivo è manifestamente infondato perchè la Corte d’appello non era tenuta sul punto a rispondere al relativo motivo di appello, stante la sua assoluta genericità, in quanto non era nemmeno specificato di che attività si trattasse nè era indicato un qualche elemento probatorio a sostegno dell’assunto.

12. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in relazione alle ipotesi del favoreggiamento e del reclutamento ed alla aggravante del fatto commesso ai danni di più persone, e con rinvio per nuovo esame sul punto in relazione alla aggravante del fatto commesso con minaccia. I motivi relativi alla determinazione della pena restano assorbiti.

Nel resto il ricorso deve essere rigettato.

Il giudice del rinvio, ovviamente, dovrà anche procedere ad una nuova determinazione della pena, previo nuovo giudizio di comparazione tra attenuanti ed eventuali aggravanti residue e tenendo conto del divieto di reformatio in peius.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Lecce limitatamente alla continuazione ed alle aggravanti di cui al capo A) nonchè in ordine al residuo reato di cui al capo C).

Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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