Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-04-2012, n. 6344 Divieto di intermediazione e di interposizione nelle assunzioni di lavoratori

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 2.7.2010, la Corte di Appello di Brescia dichiarava inammissibile l’opposizione avverso il verbale di accertamento della Direzione Provinciale del Lavoro di Brescia nei confronti dalla s.p.a. Modulo Cimac, dichiarando definitiva la conseguente ordinanza ingiunzione per mancata impugnazione, e respingeva le opposizioni alle cartelle esattoriali dell’INPS e dell’INAIL notificate alla società, osservando, quanto al primo capo della pronunzia che, in tema di sanzioni amministrative, l’opposizione davanti al Pretore, a norma della L. n. 689 del 1981, art. 22 è consentita avverso l’ordinanza ingiunzione, ma non anche avverso il verbale di contestazione della infrazione, che è atto endoprocedimentale, inidoneo come tale a produrre alcun effetto sulla situazione soggettiva. Questa, invero, viene incisa soltanto a seguito della emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo costituito dall’ordinanza ingiunzione, unico atto contro cui è possibile proporre opposizione, non essendo neanche ipotizzabile un’azione di accertamento negativo in una fase endoprocedimentale diretta a paralizzarne l’azione. Quanto alla prova dell’esistenza di una interposizione di manodopera tra la società Domus s.r.l. e la società Modulo Cimac, posta a base della pretesa contributiva portata dalle cartelle impugnate, il giudice del gravame osservava che le deposizioni rese dai lavoratori in sede giudiziale non erano tali da condurre a ritenere sussistente tra le parti un appalto lecito, non essendo la mera presenza di un caposquadra, cui venivano trasmessi gli ordini per i lavori da svolgere, sintomo di un’assunzione di rischio di impresa da parte dell’appaltatrice. Anche l’esame dei contratti d’appalto era nel senso di provare che la fornitura dei mezzi di organizzazione e produzione faceva capo alla committente e le dichiarazioni rese dai lavoratori agli ispettori nell’immediatezza dei fatti, da ritenersi genuine proprio perchè rese nell’ignoranza che potessero costituire elementi a sfavore della tesi datoriale, erano nel senso della totale commistione delle maestranze e del controllo della produzione da parte del G., dipendente CIMAC. Aggiungeva che l’affermazione della Modulo Cimac secondo cui l’oggetto dell’appalto era costituto dalla realizzazione di opere di tipo specialistico, era rimasta priva di prova e che, in ogni caso, era di per se sola inidonea a contrastare gli elementi emersi, così come irrilevante era la circostanza che la Domus avesse una propria struttura organizzativa, essendo da dimostrare che la stessa fosse stata utilizzata nello specifico incarico commissionato.

Non poteva, poi, essere accolta l’eccezione proposta dalla CIMAC per la riduzione degli importi dovuti a titolo di contributi, con la decurtazione delle somme versate dalla Domus sulla base di retribuzione dichiarata da quest’ultima, non essendovi alcuna possibilità di controllare l’avvenuto versamento dei contributi e per quali lavoratori la contribuzione fosse stata versata, trattandosi di moduli non nominativamente intestati ai singoli lavoratori.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la Modulo Cimac s.p.a., con cinque motivi.

Resistono, con distinti controricorsi, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’INAIL e l’INPS, quest’ultimo anche come mandatario della S.C.CI. s.p.a., laddove Equitalia Esatri e Domus s.r.l. in liquidazione sono rimaste intimate.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la Modulo Cimac s.p.a. denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, sulla dedotta inammissibilità di un capo della domanda, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, rilevando che, ove in corso di causa sopravvenga l’ordinanza ingiunzione, l’azione, anche se ritenuta originariamente improponibile, si convertirebbe in impugnazione dell’ordinanza stessa e che essendosi formato il silenzio-rigetto dall’amministrazione in ordine ai ricorsi amministrativi proposti dalla società per l’annullamento e la revoca del verbale di accertamento, doveva ritenersi sussistere in capo ad essa istante l’interesse ad agire.

Con il secondo motivo di ricorso, la società lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonchè la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, assumendo che il giudice del gravame ha conferito rilevanza preponderante alle dichiarazioni rese dai lavoratori e da B.A., legale rappresentante della Domus s.r.l., in sede ispettiva, laddove avrebbe dovuto contestualizzare le dichiarazioni stesse al fine di verificarne la spontaneità ed accertare che le stesse fossero state rese in piena libertà. Evidenzia che manca qualsiasi riscontro oggettivo in merito ai presunti illeciti oggetto di contestazione e che non poteva addossarsi all’opponente l’onere di fornire la prova dell’insussistenza dei fatti contestatigli.

Rileva, ancora, che erroneamente la Corte territoriale non ha ritenuto attendibili le deposizioni rese da F.M. e di G.P.L., dipendente CIMAC, ed assume che avrebbe dovuto valutare con le dovute cautele il contenuto del verbale ispettivo.

Con il terzo motivo, la ricorrente ascrive alla sentenza di appello la violazione e falsa applicazione di norme di fatto in merito alla sussistenza di due distinti contratti di appalto; nonchè la violazione di norme di diritto e di ermeneutica contrattuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, osservando come non sia stata evidenziata l’esistenza di due distinti contratti di appalto – di cui richiama il contenuto;

che la prima anomalia rilevata dalla Corte territoriale con riguardo all’inclusione nel prezzo pattuito del materiale è stata frutto di una svista che anche la seconda circostanza, relativa alla riserva del committente rispetto alla direzione dei lavoro oggetto del contratto, affidata all’ing. Z., non è idonea a configurare la dedotta sussistenza di un appalto illecito, attesa la compatibilità del coordinamento del lavoro da parte del committente con l’autonomia organizzativa dell’appaltatore. Quest’ultima non poteva essere automaticamente esclusa sol perchè le caratteristiche del servizio affidato erano determinate dal committente ed, inoltre, rileva che non era stato neanche considerato che il compenso era stabilito in relazione ai metri quadri da realizzare o ai chili di ferro da lavorare e che era stata prevista una penale per ogni giorno di ritardo.

Con il quarto motivo, la società si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, dell’omessa valutazione dell’art. 15 del c.c.n.l.

Edili Industria e della contraddittoria ed insufficiente motivazione in ordine alla L. n. 1369 del 1960, art. 1 fondando la censura sulla considerazione che gli enti previdenziali, avendo contestato violazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1 avevano l’onere di allegare e dimostrare, alla stregua della presunzione assoluta stabilita dalla legge (impiego da parte dell’appaltatore di capitali, macchine o attrezzature fornite dall’appagante), o in base alle normali regole di prova, che l’intermediario era un imprenditore apparente.

Inoltre, assume che la Corte del merito non si sarebbe avveduta della sussistenza di due distinti contratti di appalto e che la incertezza rilevata in merito al responsabile dei lavori derivava dalla circostanza che presso la Cimac operavano due distinte squadre di lavoratori della Domus, con compiti diversi e che non era emerso che alcun lavoratore della Cimac fosse addetto alla lavorazione del ferro o alla rifinitura dei prodotti; senza considerare che l’art. 15 del c.c.n.l. Settore Edile Industria liberamente consente all’impresa appaltatrice di utilizzare macchine ed attrezzature dell’appaltante site in cantiere per esigenze riguardanti l’esecuzione dell’opera complessiva. Aggiunge, a sostegno della censura, che le attrezzature della Cimac erano solo quelle fisse e che la Domus svolgeva attività anche per altri soggetti e riporta il contenuto di deposizioni testimoniali da cui si evincerebbe che gli operai Domus erano soggetti al controllo, al potere disciplinare ed alle direttive del proprio datore di lavoro o di un suo rappresentante e che i dipendenti della Modulo Cimac s.p.a. verificavano esclusivamente che il lavoro fosse consegnato alle scadenze stabilite e che fosse in linea con gli standards qualitativi in uso.

Con l’ultimo motivo, denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, con riguardo alla mancata detrazione degli importi versati dalla Domus ed omissioni INPS, rilevando specificamente che la Corte territoriale ha errato nel rigettare la richiesta di riduzione degli importi dovuti, atteso che i versamenti della Domus risultavano per tabulas.

Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo di ricorso, vale osservare, ai fini della sua ammissibilità, che nello stesso non si indicano le norme violate e non si contesta specificamente che quelle richiamate dal giudice del gravame siano state male interpretate ed applicate. Contrariamente, poi, a quanto assume il ricorrente, deve osservarsi che la Corte territoriale ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto l’inammissibilità dell’impugnazione del verbale di constatazione redatto dalla Direzione Provinciale, rifacendosi al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, alla cui stregua "in tema di sanzioni amministrative – e salvo che si versi in ipotesi di violazioni del codice della strada, per le quali il verbale di accertamento della violazione è immediatamente impugnabile davanti al giudice -, il verbale di constatazione non può essere direttamente impugnato davanti al giudice ordinario da parte dell’interessato ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22 trattandosi di un atto a carattere procedimentale inidoneo a produrre alcun effetto sulla di lui situazione soggettiva, la quale viene invece incisa soltanto a seguito e per effetto dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza ingiunzione, unico atto contro cui è possibile proporre opposizione (cfr. Cass 18.7.2003 n. 11236 ed in senso conforme, ripetutamente, Cass. 10.9.2003 n. 13224, Cass. 2.9.2004 n. 17674, Cass. 12.10.2004 n. 20167, Cass. 4.7.2006 n. 15224, Cass. 12.10.2007 n. 21493, Cass. 17.7.2007 n. 15914). E’ stato, in particolare, escluso che il riconoscimento, anche per espressa previsione legislativa (art. 204 C.d.S.), della possibilità di proporre opposizione avverso il verbale di accertamento delle violazioni in tema di circolazione stradale, sia idoneo a sostenere il dubbio di costituzionalità della L. n. 689 del 1981, artt. 16, 18 e 22 in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 113 Cost., nella parte in cui non rendono estensibile la disciplina dell’impugnazione delle violazioni stradali anche a quella generale delle sanzioni amministrative di carattere pecuniario, tale dubbio essendo stato già dichiarato manifestamente infondato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 160 del 2002, sul rilievo che la disciplina menzionata non comporta alcuna compressione per la facoltà di agire in giudizio e per la tutela delle posizioni lese atteso che, nelle ipotesi considerate, il verbale di accertamento è privo della particolare efficacia giuridica propria del verbale di accertamento delle violazioni del codice della strada (cfr., al riguardo, Cass. 17674/2004 cit.) Quanto al secondo motivo di ricorso, deve richiamarsi il principio, posto alla base di numerose decisioni di questa Corte, secondo cui i verbali redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, fanno fede fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, i verbali, per la loro natura di atto pubblico, hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria. Secondo tale insegnamento giurisprudenziale, il materiale raccolto dal verbalizzante deve, quindi, essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando all’opponente l’onere di fornire la prova dell’insussistenza dei fatti contestatigli (cfr. Cass. 12.8.2004 n. 15702). L’importanza ai fini della prova di tali verbali è stata rimarcata in relazione alla possibilità della loro libera valutazione ed apprezzabilità unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti (cfr. Cass 19.4.2010, n. 9251). Tuttavia, è stato anche chiarito che, se è vero quanto appena richiamato, è altrettanto vero che la libera valutazione ed apprezzabilità del materiale probatorio da tali verbali evincibile comporta che il giudice può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso d’altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori. (cfr. Cass. 22.2.2005 n. 3525, nella quale, in relazione alla fattispecie esaminata, la Corte ha confermato la sentenza del giudice di merito, che aveva fondato il proprio convincimento sulle risultanze del verbale redatto dagli ispettori del lavoro, completo e dettagliato, al quale erano allegati due verbali ispettivi e numerose dichiarazioni rese dai lavoratori, e che era stato confermato in udienza da alcune testimonianze, tra le quali una resa da chi aveva effettuato le ispezioni e ricevuto le dichiarazioni).

Ogni deduzione, per come articolata, non è idonea a contrastare, nei termini di violazione delle norme e dei principi richiamati a fondamento dei vizi dedotti, il ragionamento seguito dalla Corte del merito. Ed invero, in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base (cfr. Cass 21.4.2006 n. 9368, cui adde, tra le altre, Cass 26.6.2007 n. 14745 e Cass 12.7.2007 n. 15604). Non si riscontrano nella formulazione del motivo elementi idonei a dimostrare la sussistenza del vizio dedotto e la decisività di prove asseritamente non valutate a modificare i termini della decisione, che ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati in tema di valutazione dei verbali ispettivi acquisiti.

Con il terzo motivo non si censura adeguatamente e specificamente l’argomentazione, sulla quale si diffonde il giudice del gravame, sulla non conformità alle previsioni del contratto di appalto delle circostanze emerse dalle dichiarazioni testimoniali con riguardo alla fornitura dei materiali da parte della CIMAC ed ogni doglianza espressa relativamente alla determinazione delle caratteristiche del servizio non vale a superare quanto osservato dalla Corte territoriale in merito al coordinamento continuativo del lavoro svolto dai dipendenti della Domus, sostanzialmente diretti e coordinati dalla committente. In ogni caso, i rilievi, così come quelli esposti nel successivo motivo sub 4) attengono al merito della controversia, essendo rivolti a censurare la interprelazione dei contratti di appalto operata dal giudice del gravame attraverso la contrapposizione di una diversa lettura delle clausole contrattuali, senza alcuna idoneità della censura ai fini dell’individuazione in concreto del vizio dedotto.

In materia di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce, invero, in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, onde la possibilità di censurare tale accertamento in sede di legittimità, a parte l’ipotesi in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione del percorso logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, è limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche, violazione da dedursi, peraltro, con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poichè, in caso contrario, la critica alla ricostruzione del contenuto della comune volontà si sostanzia nella proposta di un’interpretazione diversa. In altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove censuri l’interpretazione del contratto accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (cfr., in tali termini, Cass 23.8.2006 n. 18375).

Peraltro, deve aggiungersi, che, in ogni caso, la L. n. 1369 del 1960 non consente, sotto alcuna forma, che si realizzi un sostanziale "prestito di manodopera", cioè che un imprenditore possa inserire a tutti gli effetti nell’organizzazione di un altro imprenditore un proprio dipendente il quale esegua il lavoro nella sfera e per conto di costui, sotto la direzione e il controllo – e, pertanto, a rischio – dello stesso, restando il primo nella posizione giuridica di datore di lavoro. Infatti, alla fattispecie – vietata – dell’appalto di manodopera è sottintesa la presenza di un’impresa che non assicura, con propria organizzazione e con proprio rischio, le prestazioni oggetto del contratto. Elemento caratterizzante di tale fattispecie(che vale a distinguerla dalle ipotesi lecite) è il conferimento di un appalto ad un’impresa la quale, ancorchè titolare di una propria, reale organizzazione non la impegna, con l’assunzione del rischio relativo, nell’esecuzione dell’opera o del servizio in concreto appaltato, circostanza che si verifica anche quando l’intera gestione dei rapporti di lavoro sia stata completamente affidata all’appaltante. Ne consegue che il giudice, al fine di distinguere le varie ipotesi, è chiamato ad accertare non soltanto la esistenza di una reale organizzazione di impresa in capo all’appaltatore, ma anche la natura delle prestazioni appaltate: nel caso esse siano riconducibili a mere prestazioni di lavoro si ha l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa dell’azienda appaltante (ipotesi vietata ex art. 1 Legge vietata); nel caso, invece, in cui le prestazioni appaltate riguardino anche altri fattori produttivi (capitali, macchine, attrezzature) e i rapporti di lavoro strumentali all’esecuzione dell’opera o del servizio appaltato siano gestiti dall’azienda appaltatrice, permane l’inserimento del prestatore nella struttura organizzativa di quest’ultima, salvo, per le ipotesi di cui all’art. 3 della cit. Legge, l’obbligo solidale di appaltante e appaltatore di assicurare i trattamenti minimi retributivi e normativi praticati ai dipendenti del primo (cfr. Cass 23.4.1999 n. 4046 e succ. conformi). Non assume, dunque, significatività che la Domus fosse dotata di propria autonoma struttura organizzativa, se non nella prospettiva della avvenuta utilizzazione della stessa, – come detto, ritenuta dal giudice del gravame non dimostrata – nell’esecuzione dei servizi e delle opere appaltate.

Infine, deve essere disatteso anche l’ultimo dei motivi di impugnazione, posto che correttamente e conformemente ai principi validi in materia contributiva, è stata affermata l’impossibilità di decurtazione dagli importi a titolo di contributi dovuti dalla Modulo Cimac di quanto già versato e risultante per tabulas da parte della Domus s.r.l.. E ciò in forza della condivisibile considerazione che non vi è alcuna possibilità di controllare per quali lavoratori la contribuzione sia stata versata, trattandosi di moduli non nominativamente intestati ai singoli lavoratori, (con la possibilità, quindi, che la contribuzione soddisfatta riguardi lavoratori diversi da quelli interessati dalla vicenda interpositoria) ed in base all’ulteriore rilievo che, proprio in ragione di ciò, l’impresa appaltatrice può aver versato, in base all’inquadramento anche in un settore diverso da quello della committente, una contribuzione diversa e meno gravosa rispetto a quella cui era tenuta l’interponente.

Le svolte argomentazioni conducono al rigetto del ricorso.

Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della società Modulo Cimac e sono poste a carico della stessa per quanto riguarda i controricorrenti costituitisi, nella misura per ciascuno liquidata in dispositivo. Nulla va statuito nei confronti della Equitalia Esatri spa e della Domus srl in liquidazione, poichè rimaste intimate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna delle parti costituite, delle spese del presente giudizio, liquidate, per ciascuna di esse, in Euro 30,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Nulla per spese nei confronti delle parti non costituite.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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