Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 23-04-2012, n. 6328 Illeciti disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 12 ottobre 2011, a seguito dell’udienza dell’8 aprile 2011, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dichiarava la responsabilità della dott. C. T., presidente di sezione del Tribunale di Napoli, relativamente agli illeciti disciplinari di cui era stata incolpata, con esclusione del riferimento ad alcuni degli episodi contestati, rispetto ai quali invece la assolveva, e infliggeva la sanzione disciplinare della censura.

L’incolpazione, consistente in sintesi nell’addebito di avere tenuto un comportamento abitualmente e gravemente scorretto, e in alcuni casi anche ingiurioso, nei confronti di altri magistrati della sezione e, in un caso, di un collaboratore dell’ufficio, era stata articolata nei seguenti due capi, con cui la C. era stata incolpata:

A) dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. d), perchè, in violazione dei doveri generali di correttezza, riserbo ed equilibrio e di rispetto della dignità delle persone, nello svolgimento della funzione di presidente della 9^ sezione penale del Tribunale di Napoli, teneva un comportamento abitualmente e gravemente scorretto nei confronti di altri magistrati della medesima sezione e di collaboratori dell’ufficio; in particolare: – 1) nel corso dell’udienza del 9 marzo 2010, nel contesto della discussione in merito a una misura cautelare reale, essendosi manifestato nel collegio un disaccordo sulla decisione da adottare, la dott.ssa C. iniziava ad urlare, affermando che "non occorreva perdere tempo a fare le cose per bene" poichè "il sistema della giustizia non funziona ed è inutile impegnarsi"; quindi si rivolgeva alla dott.ssa P.F., giudice a latere, dicendole: "ma tu che cazzo vuoi? Che cazzo devi leggere? Vuoi fare le cose alla perfezione? Tanto qui finisce sempre tutto con dichiarazioni di prescrizione… mi avete abboffato le palle"; – 2) nel corso della medesima udienza del 9 marzo 2010, nel contesto della discussione di altro processo (n. 13034/09 RG), risultando in minoranza in merito alla decisione da adottare, la dott.ssa C. preannunciava che si sarebbe auto-assegnata la stesura della motivazione (come poi in effetti avvenuto) e alludeva alla redazione di una motivazione "suicida", in modo da verificare se la decisione avrebbe "retto" nei gradi successivi, e, alle rimostranze dei colleghi componenti il collegio, replicava: "non preoccupatevi, la scriverò a regola d’arte, non come fate voi";

– 3) in occasione di altra udienza, nel corso della quale la dott.ssa G.M.P., giudice a latere, aveva espresso l’intenzione di rivolgere una domanda a un testimone che stava per essere licenziato, diceva: "E vabbè, questa vuole fare una domanda";

– 4) in altra circostanza, la dott.ssa C., rivolgendosi a un avvocato, manifestava pubblicamente le posizioni assunte dai componenti del collegio in un procedimento di esecuzione e, alludendo al due giudici a latere P.F. e D.G.G., affermava: "Avvocato, ma questi due non sono d’accordo";

– 5) in data 13 aprile 2010, in occasione della trattazione di un processo (c.d. "Calciopoli"), avendo le dott.sse M.P. G. e P.F., colleghe della sezione e componenti del collegio, manifestato taluni dubbi in merito alle possibili conseguenze che il prossimo trasferimento delle stesse ad altri uffici avrebbe potuto determinare sul prosieguo del processo, la dott.ssa C., in presenza di altri magistrati dell’ufficio, replicava affermando che a lei non interessava nulla e aggiungeva:

"Tanto ve ne andate voi e arrivano altri due animali al posto vostro", poi puntualizzando che per animali intendeva esseri animati e che peraltro lei aveva grande considerazione per il mondo animale;

– 6) in data 27 ottobre 2009, in occasione della trattazione del suddetto processo, nel cui ambito era stata formulata nei suoi confronti una duplice istanza di ricusazione da parte della Procura della Repubblica, alla domanda della collega dott.ssa F. P. che le chiedeva se avesse valutato la possibilità di una dichiarazione di astensione, la dott.ssa C. ribatteva, con tono adirato e urlando, che non si doveva permettere di dire una cosa del genere, che la responsabilità della seconda ricusazione era della stessa dott.ssa P. per avere sostenuto l’inammissibilità delle costituzioni di parte civile e che comunque erano fatti che non la riguardavano, aggiungendo che in Tribunale nessuno faceva niente, nessuno lavorava e i processi si prescrivevano; quindi, alle rimostranze della dott.ssa Ro.

C., presente, che le ricordava l’impegno dei colleghi, la dott.ssa C. ribatteva intimandole di stare zitta;

– 7) ancora in data 27 ottobre 2009, dopo che la dott.ssa Ca.

R. (in procinto di essere trasferita) aveva incaricato la sig.ra L.M.S., ausiliario A1 in servizio presso la 9^ sezione penale, di contattare telefonicamente il Dott. Pi., dirigente della Squadra Mobile di Napoli, per sollecitare una indagine urgente a lui affidata, in vista della definizione dei processi pendenti in tempo utile prima del trasferimento, la dott.ssa C., irritata per il ritardo del cancelliere in aula, giungendo nel corso della conversazione tra la Sig.ra L. e il dirigente di Polizia, si rivolgeva urlando verso la prima, intimandole di posare il telefono e, togliendole la cornetta del telefono, interrompeva la comunicazione; a seguito dell’episodio, la Sig.ra L. – assente la dott.ssa C. – aveva una crisi di pianto;

8) in altra circostanza, conversando con la dott.ssa Ca.

R., all’epoca giudice addetto alla 9^ sezione penale, avendo la stessa comunicato di avere formulato domanda per il trasferimento in Cassazione, la dott.ssa C. ribatteva: "Ma sì, in Cassazione ci vanno cani e porci, ci puoi andare anche tu";

– 9) in data 2 marzo 2010, avendo precedentemente ricevuto per conoscenza, quale presidente titolare della sezione, una missiva datata 12 febbraio 2010 a firma dei collega della sezione dott. D.G.G., indirizzata al dirigente della cancelleria e nella quale era segnalato un rilevante disguido relativo alla notifica di un estratto contumaciale di sentenza al difensore di un imputato nonchè un successivo ritardo nell’inoltro al magistrato di una segnalazione del medesimo difensore, la dott.ssa C., rivolta al collega D.G., disapprovando la nota di quest’ultimo, affermava: "Io al posto tuo non avrei scritto", e, alle repliche del collega, in presenza di terzi, iniziava a inveire nei confronti dello stesso, affermando che la lettera l’aveva "cestinata senza leggerla" nonchè, urlando, che "lui non poteva pretendere nulla da lei, non essendo presidente". B) dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d), in relazione agli artt. 594 e 595 cod. pen., perchè, con le condotte indicate nel capo A) che precede, punti 1, 2, 5 e 8, offendeva la dignità e la reputazione professionale dei destinatari delle dichiarazioni da lei rese, quali sopra specificate, serbando un contegno idoneo a ledere la propria immagine di magistrato e tale da rendere obiettivamente impossibile il normale svolgimento dell’attività della sezione.

L’assoluzione ha riguardato i fatti di cui ai punti 2), 6) e 9) del capo A) e il capo b) relativamente ai fatti di cui ai richiamati punti 1) e 2) del capo A).

Al riguardo la Sezione disciplinare in sintesi ha osservato che:

– non era rimasta, comprovata l’affermazione della incolpata sulla redazione da parte sua di una sentenza suicida e le espressioni usate dalla medesima nel corso dell’episodio non superavano la soglia della rilevanza disciplinare, anche per l’assenza di toni aggressivi e della interpretabilità delle parole usate nel senso di una battuta ironica priva di carattere offensivo (punto 2);

– la reazione dell’incolpata alla formulata ipotesi di una sua astensione dal processo era consistita in sostanza in un invito alla collega a non interferire sulla questione e la scortesia dei toni concitati non superava la soglia di rilevanza disciplinare, tenuta anche presente la situazione di stress conseguente alla presentazione di due istanze di ricusazione nei suoi confronti (punto 6);

– non era ravvisabile una grave scorrettezza nella posizione di non condivisione assunta relativamente alla nota del collega D.G. in merito ad alcune sviste della cancelleria, e l’eventuale sgradevolezza dei toni adoperati non poteva ritenersi offensiva, stante anche l’incertezza sulle parole effettivamente pronunciate (punto 9);

– le espressioni di cui al punto 1), pur gravemente scorrette, non erano dirette ad offendere la reputazione professionale della dott. P..

Sulla ritenuta responsabilità della dott. C. riguardo alle altre parti delle incolpazioni, la Sezione disciplinare, dopo avere ricordato che tutte le dichiarazioni attribuite all’incolpata erano state inizialmente riportate in una relazione di servizio della dott. P. e del dott. D.G., rilevava che i fatti erano stati confermati dagli stessi magistrati prima al presidente del tribunale e poi, dopo l’avvio del procedimento disciplinare, in sede di deposizione resa davanti al procuratore generale. I medesimi, infine, erano stati ribaditi senza alcuna esitazione pure nel corso dell’istruzione dibattimentale. In particolare, i predetti testi avevano ricordato l’episodio verificatosi nella camera di consiglio del 9 marzo 2010 in occasione della decisione su una misura cautelare reale e avevano concordemente affermato che, nel rivolgersi al giudice P., la C. aveva utilizzato le espressioni, a dir poco triviali, riportate al n. 1) del primo capo d’incolpazione.

Gli stessi testi avevano aggiunto che queste intemperanze verbali, peraltro manifestate con toni abitualmente alti e concitati, erano frequenti e avevano altresì confermato gli altri fatti contestati ai numeri 4), 5), 7) e 8) del medesimo capo d’incolpazione. Erano stati così confermati sia l’illegittima grave esternazione, a un difensore, delle posizioni, evidentemente diverse da quella del presidente del collegio, assunte dagli altri due componenti in merito alla decisione da adottare in ordine alla restituzione di una somma di denaro; sia il modo inqualificabile con cui la C., nel replicare alle legittime perplessità manifestate dalle colleghe G. e P. sulle conseguenze negative che un loro prossimo trasferimento avrebbe potuto provocare sulla definizione di un delicato processo, aveva affermato che quell’evenienza non la interessava perchè al posto delle due colleghe sarebbero arrivati "altri due animali"; sia l’inurbano comportamento, indice di mancanza di autocontrollo, adottato in camera di consiglio nei confronti di un’ausiliaria di cancelleria, alla quale l’incolpata aveva tolto violentemente il telefono, comportamento tanto grave da indurre gli altri giudici a invitare il presidente a scusarsi; sia infine il modo davvero volgare e denigratorio col quale la C. si era rivolta al giudice Ca. allorchè quest’ultima le aveva comunicato di aver presentato domanda per la partecipazione al concorso per la Cassazione.

La Sezione disciplinare osservava poi che gli episodi in questione avevano trovato un’ulteriore puntuale conferma anche nelle deposizioni rese dai giudici G. e Ca.. La prima teste aveva ribadito, infatti, quanto già riferito da D.G. e P. sull’atteggiamento irrispettoso e oltremodo scorretto dell’incolpata nei confronti delle colleghe G. e P., da lei definite con l’espressione, carica di disistima se non di vero e proprio dispregio, di "animali". La teste G. aveva poi confermato quanto ricordato dal giudice P. sul modo irriguardoso col quale la C. era solita indicare pubblicamente il giudice a latere che si permetteva di intervenire nel corso dell’udienza, anche soltanto per manifestare l’intenzione di rivolgere una domanda a un testimone ed aveva aggiunto, ancora, che la C. aveva nel tempo acuito le proprie intemperanze caratteriali, tanto che gli indicati comportamenti scorretti erano proseguiti, nei confronti dei magistrati e del personale della sezione, anche dopo l’inizio dell’azione disciplinare.

Il quadro probatorio era stato ulteriormente arricchito dalla deposizione resa dalla dottoressa Ca., la quale, fin dalie prime dichiarazioni al presidente del tribunale, aveva affermato di aver appreso dagli stessi colleghi di sezione dei continui atteggiamenti aggressivi della presidente C. e di aver tentato, inutilmente, di sdrammatizzare gli episodi che le erano stati narrati. La teste aveva aggiunto di essere stata lei stessa vittima delle esternazioni della collega C. ed aveva ricordato la sua sprezzante reazione, offensiva sia per la collega che per Istituzione, alla notizia della domanda di trasferimento della teste in cassazione, che in quell’ufficio andavano "cani e porci" e che, pertanto, avrebbe potuto esservi trasferito anche il predetto magistrato.

In sede valutativa, la Sezione disciplinare osservava in particolare che non era necessaria alcuna particolare analisi linguistica per rendersi conto che gli episodi accertati, le riferite espressioni sprezzanti e il più delle volte volgari utilizzate dalla dott. C., e le stesse modalità, verbalmente fuori misura, adoperate dall’incolpata, integravano condotte che superavano ampiamente la soglia della rilevanza disciplinare. Al riguardo osservava anche che il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 indicando i principi che devono ispirare la condotta del magistrato quali precondizioni essenziali di un corretto esercizio della giurisdizione, fa espresso riferimento alla correttezza, all’equilibrio e al rispetto della persona. D’altra parte non era possibile ricondurre gli accertati comportamenti della dott. C. a semplici, episodiche manifestazioni di cattiva educazione o, com’era stato in qualche modo adombrato dalla difesa, ad una reazione in qualche misura giustificata da una particolare situazione di stress lavorativo, in quanto eventuali e sempre possibili tensioni non possono mai giustificare l’adozione di atteggiamenti in contrasto con specifici doveri professionali.

Nella specie si era in presenza di comportamenti, indubbiamente indicativi dello scarso controllo della propria impulsività e aggressività verbale da parte dell’incolpata, ciascuno dei quali, per il tenore delle espressioni usate, aveva assunto il carattere di oggettiva gravità richiesto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d), per la sussistenza dell’illecito disciplinare. Peraltro sussisteva anche il requisito alternativo dell’abitualità, stante la reiterazione nel tempo dei comportamenti, come confermato, anche per il passato, dalla nota del 29 marzo 2010 del presidente del tribunale, nella quale aveva riferito di precedenti informali segnalazioni di condotte della dott. C. che avevano provocato disagio.

La Sezione disciplinare riteneva inaccoglibile la tesi difensiva circa una preconcetta avversione dei testi nei confronti della presidente di sezione, rimasta sfornita di prova e anche contrastante con quanto riferito dall’incolpata circa normalità in un primo momento dei rapporti con i colleghi. Era poi ritenuto non significativo il fatto che gli addebiti non avevano trovato riscontro nelle dichiarazioni rese in istruttoria dai dott. Pa. e As., dato che il primo era stato assegnato alla 9^ sezione penale nel luglio 2010, in epoca successiva ai fatti contesati, ed era stato assegnato all’altro collegio della sezione, e la seconda era stata chiamata ad integrare il collegio della C. solo sporadicamente per qualche sostituzione, nell’ultima parte del periodo feriale del 2010.

In merito al secondo capo di incolpazione, la Sezione disciplinare rilevava che l’utilizzazione da parte dell’incolpata di espressioni fuori misura, gravemente infamanti e umilianti, in occasione degli episodi di cui ai nn. 5) e 8) dell’incolpazione, alla presenza di altre persone e, verosimilmente, per esprimere un giudizio pesantemente critico nei confronti delle capacità professionali delle colleghe G., P. e Ca., costituiva un comportamento oggettivamente ingiurioso, idoneo ad integrare il reato di diffamazione. Osservava anche che il reato di diffamazione è caratterizzato dal dolo generico, con la conseguenza che ciò che rileva è il significato delle parole nel linguaggio comune, a prescindere dalle intenzioni inespresse dell’offensore, come pure dalle sensazioni puramente soggettive dell’offeso. Nella specie le espressioni "tanto ve ne andate voi e arrivano altri due animali al posto vostro" e "in cassazione ci vanno cani e porci, ci puoi andare anche tu", si sottraevano a interpretazioni alternative, risultando rivolte esclusivamente a porre in dubbio il possesso da parte delle colleghe del livello minimo di competenza giuridica.

Infine la Sezione riteneva appropriata, in considerazione della gravità dell’illecito e della assenza di precedenti disciplinari, la sanzione della censura, prevista come sanzione minima per il capo A) dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 1, lett. c).

La dott. C. ricorre per cassazione con undici motivi.

Motivi della decisione

1.1. Il primo motivo denuncia difetto assoluto di motivazione e violazione delle norme disciplinanti l’assunzione e la valutazione della prova per testimoni (art. 194 c.p.p. e segg., art. 497 c.p.p. e segg.)- Violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. c) – e).

Si lamenta che la sentenza abbia fondato le sue conclusioni immotivatamente sulla mera parola di alcuni colleghi "accusatori" dell’incolpata, i quali, in particolare i dott. P. e D. G., si sono detti offesi, senza alcuna valutazione circa la loro attendibilità. Si osserva anche che tali due magistrati si erano spinti ad affermare che la C. si era pubblicamente rivolta ad un avvocato con l’epiteto di "camorrista", mentre gli accertamenti svolti al riguardo dal presidente del tribunale erano rimasti senza esito. Si sostiene che la medesima inattendibilità investiva anche la dott. C., che aveva allegato atti relativi ad una vicenda rivelatasi del tutto insussistente sul piano disciplinare.

A sostegno della tesi della non attendibilità delle testimonianze valorizzate dalla Sezione disciplinare, si evoca un clima di generale prevenzione nei confronti della incolpata, evidenziato da circostanze come: le plurime ricusazioni di cui la incolpata era stata fatto oggetto anche ad iniziativa della procura della Repubblica, dichiarate totalmente infondate dalla corte d’appello; il ruolo assunto dai pubblici ministeri del processo c.d. di calciopoli anche nel corso delle indagini disciplinari preliminari e, da due di essi, anche nella trattazione dibattimentale (riferendo essi su loro impressioni e sensazioni – peraltro senza che, invalidamente, fosse concesso alla difesa dell’incolpata di contro esaminarli); le pressioni fortissime ad astenersi dal suddetto processo penale che la C. aveva subito (sia da parte dei sostituti procuratori -che a tal fine si erano rivolti al presidente del tribunale -, sia da parte delle stesse colleghe de collegio giudicante).

Si lamenta poi che sia stata ritenuta la gravità dei singoli episodi addebitati alla attuale ricorrente, senza tenere presente la particolare situazione in cui la medesima, nel ristretto periodo di tempo in cui si erano svolti i fatti, si era trovata (essendo oggetto delle richiamate fortissime pressioni da parte dei pubblici ministeri e delle colleghe ed essendo subentrata, in conseguenza della complessiva situazione di stress, il grave, documentato, pregiudizio alla salute, con ricovero in ospedale e imminente pericolo di vita, per il grave stato anemico dovuti a gravissima carenza di ferro – notoriamente fonte di irritabilità caratteriale).

Si lamenta anche la sottovalutazione delle deposizioni dei testi As. e Pa., del tutto positive riguardo ai comportamenti della incolpata e al tipo di rapporti dalla medesima instaurati, nonchè delle parimenti favorevoli deposizioni del personale amministrativo.

Quanto alla affermata abitualità dei comportamenti scorretti della incolpata, si lamenta il riferimento ad una nota del presidente del tribunale, generica e non facente riferimento a fatti specifici idonei a consentire una difesa. A contestazione della abitualità si richiama anche l’assoluzione per alcuni degli episodi contestati e si evoca uno svolgimento dei fatti evidenzianti una condotta assolutamente collaborativa e di favore della C. nei confronti del D.G. a proposito dell’episodio del rilievo mosso da quest’ultimo al dirigente della cancelleria.

1.2. Il secondo motivo denuncia difetto di motivazione e violazione di norme di diritto negli stessi termini di cui al primo motivo.

Con riferimento al primo degli episodi di cui alla incolpazione (lett. A, punto 1), si formulano dubbi circa la verosimiglianza dei fatti così come ivi esposti, rilevandosi che dalla deposizione del D.G. risulta che sulla questione dibattuta in camera di consiglio – in concreto restituzione o meno a un notaio di un assegno dal medesimo protestato per conto di un cliente all’esito di un’assoluzione con formula perchè il fatto non sussiste – si era formata la maggioranza tra la C. e il D.G.. E soprattutto si rileva che, come sostenuto in dottrina, un’espressione in se stessa offensiva può essere adoperata senza intenzione di ingiuriare quando venga usata soltanto per conferire maggiore forza ad un incitamento, nella specie giustificato dall’urgenza di definire una decisione di poco rilievo mentre in aula vi erano imputati detenuti in attesa.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia difetto assoluto di motivazione e violazione di legge in merito alla rilevanza disciplinare del fatto e alla valutazione della relativa prova, oltre che delle altre norme di cui ai motivi precedenti.

Con riferimento alla condanna per l’incolpazione di cui al capo A), punto 3), si sostiene l’inconsistenza sul piano disciplinare dell’episodio in questione e si lamenta la mancanza di specifica motivazione al riguardo, in relazione anche alla effettiva portata del medesimo quale risultante dalla stessa deposizione dibattimentale della dott. G.. Infatti, nell’ambito del processo c.d.

"calciopoli" la G., mentre un testimone si stava già allontanando, aveva espresso l’intenzione di rivolgergli una domanda.

Allora era intervenuta la frase della presidente "Si accomodi. Questa vuole fare una domanda". La teste aveva precisato di ricordare solo questo episodio verificatosi in pubblico e di non sapere se le parole fossero state percepite dai difensori e dai pubblici ministeri. Si osserva che l’espressione "questa" non è offensiva in sè, che non risulta l’impiego di alcun tono particolare e che può essersi verificata una semplice difficoltà espressiva nell’ambito della conduzione di una difficile udienza.

1.4. Con il quarto motivo si denunciano vizi analoghi a quelli di cui al precedente motivo.

Con riferimento alla condanna per l’incolpazione di cui al capo A), punto 4), premesso che l’espressione "questi due non sono d’accordo" di cui alla contestazione è stata precisata nei termini "i colleghi non sono d’accordo" nella deposizione dibattimentale di D.G. e P., e quindi non sussiste l’ipotesi della denigrazione dei colleghi mediante le parole "questi due", si rileva che se si fosse voluta sanzionare la violazione del segreto della camera di consiglio la decisione avrebbe dovuto essere diversa e soprattutto si sarebbe dovuto precisare che una decisione era già stata presa e quale ne era il tenore. Queste circostanze invece non risultano confermate e precisate dalla prova testimoniale e in ogni caso manca ogni motivazione al riguardo. Si lamenta anche l’indeterminatezza della contestazione per la mancata precisazione temporale e la non indicazione del nome dell’avvocato coinvolto (in atti è indicato l’avv. F. e in (OMISSIS) vi sono moti avvocati con questo cognome). Si sostiene anche che il valore sostanziale della frase contestata è quello di fare presente all’avvocato che per ora un’istanza che la decisione sulla stessa non rientra nei poteri del solo presidente.

1.5. Il quinto motivo denuncia difetto di motivazione e violazione delle norme indicate nel secondo motivo sulla valutazione dei testimoni e sulla rilevanza disciplinare dei fatti.

Con riferimento al punto 5) del capo A) si sostiene la necessità di valutare l’insistenza delle due colleghe nel volersi liberare di un processo pesante che ha portato la C. a non andare oltre una dichiarazione della sua indifferenza per la composizione del collegio, che poi effettivamente non era stata cambiata, e di valutare anche l’atmosfera che si era determinata per i tentativi di far saltare il processo andandosene dalla sezione o costringendo la C. ad astenersi.

1.6. Con il sesto motivo, denunciandosi gli stessi vizi di cui al precedente motivo, a proposito dell’episodio di cui al capo A) punto 7), si rileva che la dott. Ca., dando l’incarico all’ausiliaria L. di telefonare ad un funzionario della Questura, si era sovrapposta alla richiesta della presidente C. di sollecitare l’arrivo in udienza del cancelliere di turno al fine di potere dare inizio ad un processo con detenuti, e da ciò trovava giustificazione il risentimento della attuale ricorrente.

1.7. Con il settimo motivo, denunciandosi la violazione delle norme indicate nel secondo motivo, si deduce l’insussistenza di un illecito disciplinare quanto all’addebito di impiego di una frase sconveniente a proposito dell’eventuale trasferimento della dott. Ca. in cassazione. Potrebbe, infatti, proporsi semmai un problema di delicatezza personale in rapporti non aventi a che fare con l’attività di ufficio. Peraltro la Ca. era incorsa nell’illecito di interferenza nell’attività della C., con il suo invito ad astenersi nel processo calciopoli.

1.8. Con l’ottavo motivo, denunciandosi nuovamente violazione delle stesse norme indicate nel secondo motivo, si lamenta l’omessa considerazione del fatto decisivo rappresentato dalla pendenza del processo calciopoli, dalle tre ricusazioni rigettate e gli illegittimi tentativi, sia da parte dei pubblici ministeri che di alcuni giudici, ad astenersi, pur dopo il rigetto delle ricusazioni.

1.9. In subordine con il nono motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12 per l’applicazione della censura in un contesto in cui non ne sussistevano i presupposti, in assenza di violazioni dei doveri d’ufficio.

Con riferimento alle specifiche incolpazioni si ribadisce la tesi della insufficienza di un quadro probatorio basato solo sulle affermazioni di colleghi che si affermano offesi e contraddetto dalle altre deposizioni, tutte nel senso della disponibilità, operosità e capacità tecnica dell’attuale ricorrente, e si sottolinea la formazione di un ambiente non favorevole alla correntezza dei rapporti per l’implicazione dei testi a carico nelle vicende del processo calciopoli che essi sostanzialmente non amavano affrontare, e caratterizzato da una convergenza di iniziative dirette a sottrarre detto processo alla C.. Di conseguenza si lamenta anche lo squilibrio determinatosi nell’adozione delle iniziative disciplinari, ingiustamente e severamente assunte nei confronti della C., senza considerazione dell’ambiente in cui ella si era trovata ad operare per le indebite iniziative assunte dai P.M. e dai colleghi, e nella mancata presa in considerazione della censurabilità di queste iniziative.

1.10. Il decimo motivo denuncia violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, art. 2, comma 1, lett. d), e art, 4, comma 1, lett. d).

Con la prima parte del motivo si sostiene che sia stato ingiustificatamente invocato l’art. 1, comma 1, che delinea la personalità del magistrato nel suo complesso, poichè nessuno degli addebiti mossi alla C. può incrinare la personalità di un magistrato qualificato, laborioso e onesto, mai implicato in episodi effettivamente "scorretti", in quanto gli episodi in questione possono tutt’al più essere dovuti a temporanei stati reattivi, provocati da altri e ingiustificati episodi. A contestazione della qualificabilità degli episodi contestati in termini di scorrettezza ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), si sottolinea nuovamente che i fatti in questioni avrebbero rappresentato una reazione all’illecito disciplinare rappresentato (ex art. 2, lett. e) dall’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di un altro magistrato. Si sostiene poi che comunque nella configurazione di un illecito disciplinare il contesto assume decisiva importanza nell’ambito dei complessi canoni di valutazione che guidano il giudizio disciplinare e in particolare nell’indagine sul nesso di causalità. 1.11. L’undicesimo motivo deduce difetto di presupposti per l’affermazione della responsabilità disciplinare.

Il motivo in sostanza ripropone in termini più schematici doglianze e tesi già avanzate con i precedenti motivi. In particolare, quanto a l’episodio sub 5) si deduce il tono decisamente confidenziale dell’espressione usata, spiegabile con la prossimità esistente tra i giudici che operano nella stessa sezione e che esclude l’animus iniurandi. Quanto all’addebito sub 7) si osserva che il comportamento reattivo della C. ha avuto le sue motivazioni nelle circostanze pressanti e non nella volontà di diminuire chicchessia.

L’episodio sub 8) si spiega analogamente con la confidenzialità tra colleghi e si intendeva dire che l’accesso alla magistratura superiore è ormai abbastanza agevole: è stata usata una frase usuale per indicare la realtà del dilagante "facilismo". 1.12. Nell’ambito (formalmente) dello stesso undicesimo motivo, ma con specifico riferimento al capo B) dell’incolpazione, si deduce infine violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), e degli artt. 594 e 595 c.p., oltre che delle stesse norme indicate per il secondo motivo.

Si rileva che la diffamazione non è contestabile perchè i fatti sono avvenuti in presenza delle persone offese e si deduce l’insussistenza dell’animus iniurandi, considerate le occasioni in cui le frasi sarebbero state pronunciate: in un caso si è parlato in sostanza di sostituzione e reintegra di un collegio e nell’altro di un accenno al "facilismo" imperante, che avrebbe potuto essere meglio formulato ma che si è basato su espressioni che in sostanza rientrano nel linguaggio comune dell’attuale nostra convivenza.

2. I primi otto motivi vengono esaminati congiuntamente stante la loro connessione.

2.1. Tali motivi contengono doglianze relative all’accertamento, oltre che alla valutazione, dei fatti oggetto dell’incolpazione, sotto il profilo del vizio di motivazione, della violazione delle norme disciplinanti l’assunzione e la valutazione della prova per testimoni e, infine, sempre strumentalmente a problemi di valutazione dell’attendibilità dei testimoni e della valutazione del comportamento dell’incolpata, delle norme disciplinari in materia di obbligo di astensione e di interferenza nell’attività giudiziaria di altri magistrati.

La risposta in termini complessivi a tali censure è formulabile nel senso che la ricostruzione dei fatti operata dalla Sezione disciplinare in effetti è corredata da un’adeguata e logica motivazione, basata su puntuali riferimenti alle risultanze istruttorie, riguardo alle quali è stata effettuata sotto molteplici aspetti, come si è visto, quell’opera di interpretazione e di valutazione di attendibilità che costituisce un’attribuzione del giudice di merito e che è insindacabile in sede di legittimità, salvo il caso di illogicità della motivazione, ipotesi alla quale non è riconducibile la mera prospettabilità di valutazioni difformi (cfr. Cass. pen. 27 settembre 1989 n. 87, 5 maggio 2011 n. 20806), in quanto il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. sez. un. civ. 11 giugno 1998 n. 5802).

La sentenza contiene sia espresse che implicite considerazioni circa l’attendibilità dei testi e in particolare di quelli le cui deposizioni hanno avuto un rilievo centrale ai fini dell’accertamento dei fatti. In particolare, le circostanze relative alla plurime ricusazioni subite dalla dott. C. sono state tenute presenti dal collegio giudicante, che le ha anche considerate ai fini della valutazione dell’episodio derivato dall’invito formulato dalle colleghe P. e Ca. di esaminare l’opportunità di prendere in considerazione l’ipotesi di una sua astensione. E non è ravvisabile un’illogicità deducibile come vizio di annullabilità della sentenza la mancata considerazione di detto episodio come ragione di una inattendibilità come testi dei colleghi della sezione a proposito in genere dei fatti di causa, tanto più che la Sezione disciplinare ha esplicitamente escluso la ravvisabilità di una preconcetta ostilità dei medesimi testi.

2.2. Quanto alla censure relative al ruolo assunto negli accertamenti istruttori dai pubblici ministeri del processo di calciopoli, è assorbente il rilievo che le relative deposizioni non risultano valorizzate a carico della attuale ricorrente.

2.3. In relazione alle doglianze formulate con riferimento a singoli punti dell’incolpazione (motivi da due a sette) deve rilevarsi, in linea complessiva, che si è in presenza di adeguatamente motivati accertamenti in linea di fatto con riferimento anche ai profili di particolare rilievo ai fini del giudizio in termini di gravità.

Con particolare riguardo all’episodio di cui al punto 4) deve rilevarsi che non può attribuirsi significativa incidenza alla circostanza che dalla prova testimoniale risulterebbe l’utilizzazione dell’espressione "i colleghi non sono d’accordo", invece che di quella "questi due non sono d’accordo". In effetti l’aspetto qualificante della condotta contestata non era rappresentato dall’impiego della informale espressione "questi due", quanto dal diverso aspetto – che è poi quello concretamente considerato dalla sentenza impugnata – dell’anticipazione al difensore della parte interessata che il previsto rigetto dell’istanza in corso di esame sarebbe stato attribuibile all’orientamento contrario degli altri componenti del collegio, con una (almeno potenziale) violazione del c.d. segreto della camera di consiglio (concretizzabile anche prima dell’adozione del provvedimento), e comunque l’integrazione di una scorrettezza nei confronti dei colleghi, ai quali è indebitamente attribuito il previsto esito del procedimento, con la conseguenza dell’ascrivibilità dell’episodio all’ipotesi disciplinare dell’art. 2 lett. d).

Con riferimento agli sconvenienti rilievi formulati riguardo alla domanda di trasferimento in cassazione comunicatale dalla dott. Ca., il contesto lavorativo in cui si era verificato l’episodio e la stessa attinenza al lavoro di tale comunicazione fa escludere la plausibilità della tesi dell’estraneità dell’episodio stesso all’attività di ufficio.

2.4. Circa la gravità degli episodi, in relazione al relativo elemento costitutivo dell’ipotesi disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. d), il giudice disciplinare ha adeguatamente e logicamente motivato, in particolare con riferimento alla maggior parte di essi, consistenti, come sottolineato in sentenza, in comportamenti implicanti mancanza di controllo, aggressività verbale e impiego di espressioni particolarmente offensive nei confronti di colleghi. Al riguardo lo stesso giudice ha anche rilevato la non adeguata incidenza della situazione di stress in cui l’incolpata possa essersi trovata per effetto delle vicende da lei richiamate relative al processo c.d. di calciopoli. Peraltro l’accertamento della ricorrenza nella specie del requisito, previsto dalla legge come alternativo, della abitualità deve ritenersi perfettamente giustificato dalla pluralità degli episodi e dalla loro relativa concentrazione nel tempo, sicchè non può attribuirsi rilievo determinante all’ulteriore riferimento in sentenza alla nota del presidente del tribunale facente generico riferimento ad episodi del passato.

La doglianza di omessa considerazione dello stato di salute della ricorrente è priva dei necessari specifici riferimenti alle relative fonti di prova.

3. Con riferimento al nono motivo appare priva di pregio la denuncia di violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12 per l’applicazione della sanzione della censura, dato che la stessa è espressamente prevista in caso di integrazione delle violazioni accertate di cui all’art. 2, comma 1, lett. d).

Gli altri rilievi del medesimo motivo e il decimo motivo riguardano la già esaminata problematica della attendibilità dei testimoni e del giudizio di fatto. E deve di nuovo rilevarsi che, nei limiti in cui poteva esserci qualche collegamento tra gli episodi che il ricorso qualifica come di illegittima interferenza e gli addebiti disciplinari, è intervenuta una puntuale valutazione della Sezione disciplinare e l’assoluzione della dott. C. dallo specifico addebito.

4. La prima parte dell’undicesimo motivo in sostanza reitera o comunque propone in forma sintetica valutazioni dei vari episodi diverse da quelle formulate dai giudici disciplinari, e più favorevoli all’incolpata, senza evidenziare palesi illogicità del giudizio di merito e quindi si risolve in censure inammissibili nel giudizio di legittimità.

Sono fondati invece i rilievi dell’ultima parte del motivo nella parte in cui si osserva l’erroneità della qualificazione, in motivazione, degli episodi di cui ai numeri 5) e 8) dell’incolpazione in termini di integrazione del reato di diffamazione, in relazione al carattere ingiurioso delle espressioni usate e alla presenza di altre persone oltre a quelle a cui si riferivano le espressioni offensive.

Infatti relativamente ad un episodio unitario la presenza della persona offesa è determinante ai fini della integrazione del reato come ingiuria e non come diffamazione, attesa la rispettiva formulazione dell’art. 594 c.p., comma 1, e dell’art. 595 c.p., comma 1 (cfr. Cass. pen. 22 maggio 1972 n. 4902, 22 ottobre 2009 n. 48651, 3 febbraio 2010 n. 19544).

L’esatta qualificazione delle fattispecie di rilevanza penale incidentalmente accertate ai meri fini disciplinari (per i quali si prescinde dall’eventuale estinzione del reato e dalle condizioni di promuovibilità o proseguibilità dell’azione penale, a norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. d) è quindi quella dell’ingiuria e in tal senso deve pertanto correggersi la motivazione della sentenza impugnata.

Deve infine rilevarsi che il giudice del merito ha adeguatamente motivato in ordine al dolo, sulla base del corretto principio della sufficienza del dolo generico (Cass. pen. 29 maggio 1998 n. 3371, 11 maggio 1999 n. 7597, 19 dicembre 2001 n. 2972).

5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Non essendo intervenuta costituzione in giudizio del Ministero della giustizia, non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio, tenuto presente che l’ufficio del pubblico ministero non può essere destinatario di pronunce sulle spese del giudizio nè in caso di sua soccombenza, nè quando soccombente sia uno dei suoi contraddittori (Cass. S.U. n. 5165/2004; Cass. n. 3824/2010).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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