Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-04-2012, n. 6531

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La controversia concerne l’impugnazione di avvisi di revisione di accertamento per dazi non corrisposti in relazione a merci importate dalla Lettonia delle quali era stata dichiarata l’origine preferenziale, risultata falsa a seguito di controlli disposti dall’autorità doganale. I ricorsi (uno dei quali proposto dal Lanificio C.T.N. s.r.l. e gli altri due dalla C.T.N. s.r.l., essendo in corso il conferimento di ramo d’azienda dal primo alla seconda) venivano rigettati dalla C.T.P. di Prato con tre diverse sentenze tempestivamente appellate.

La C.T.R. Toscana, previa riunione dei diversi appelli, confermava le sentenze di primo grado.

In particolare, i giudici d’appello affermavano che gli avvisi opposti risultavano adeguatamente motivati e che non vi era possibilità di applicare la scriminante prevista dall’art. 220 del C.D.C. (Reg. CEE n. 2913 del 1992) in presenza di certificati risultati falsi o falsificati, non potendo l’operatore invocare la propria buona fede senza fornirne obiettivi riscontri, posto che ciò che rileva non è se lo stesso contribuente sia stato, in ipotesi, vittima di un falso, ma se egli sia stato adeguatamente diligente per verificare la suddetta falsità.

Per la cassazione di questa sentenza sia la Lanificio C.T.N. s.r.l. che la C.T.N. s.r.l. ricorrono, con due analoghi ma distinti ricorsi, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria della Stato e dell’Agenzia delle Dogane, che resistono con controricorso.

2. Deve essere innanzitutto disposta la riunione dei suddetti ricorsi siccome proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo (identico in entrambi i ricorsi), deducendo vizio di motivazione, le società ricorrenti sostengono che, in relazione alla falsità degli EUR 1 e delle bollette doganali di importazione della merce nonchè in ordine alla conoscenza e conoscibilità di tale falsità da parte di esse ricorrenti, i giudici non abbiano adeguatamente motivato. Le ricorrenti sostengono inoltre che la decisione impugnata non è giustificata "con sufficiente ed idonea motivazione per le ragioni illustrate nel motivo di ricorso in appello sub 1, totalmente ignorate dai giudici a quibus e da intendersi qui integralmente riportate", ed aggiungono infine che in analogo procedimento relativo ad altre dichiarazioni di importazione era stato accolto l’appello "proprio per illegittimità dei provvedimenti impugnati".

Le censure esposte sono inammissibili per mancanza della indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale il motivo di censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 deve contenere una indicazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica del fatto controverso e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, essendo peraltro da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è viziata deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un "quid pluris" rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (v. cass. n. 8897 del 2008).

E’ poi da sottolineare che l’indicazione de qua deve sempre avere ad oggetto (non più un "punto" o una questione ma) un fatto preciso, inteso sia in senso naturalistico che normativo, ossia un fatto "principale" o eventualmente anche "secondario", purchè controverso e decisivo, e che nella specie manca non solo una indicazione costituente un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, ma altresì l’individuazione di un fatto preciso rispetto al quale la motivazione risulti omessa nonchè l’evidenziazione della carattere decisivo e della natura controversa del medesimo.

E’ infine appena il caso di rilevare che nei motivi in esame si fa riferimento ad atti (il ricorso in appello, la sentenza pronunciata in altro processo) senza riportarne in ricorso il contenuto, in contrasto col principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

Col secondo motivo (anch’esso identico in entrambi i ricorsi), deducendo ulteriore vizio di motivazione, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano sospeso il processo tributario in attesa della decisione sul processo penale a carico di V.R., imputato di truffa aggravata, falsità in atti pubblici e contrabbando aggravato in relazione ad episodi di importazione di tessuti in esenzione dal dazio doganale, processo nel quale le società ricorrenti risultavano "vittime". Le censure esposte sono infondate.

Con sentenza n. 31 del 1998 la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39 e pertanto può pacificamente affermarsi che nel processo tributario la sospensione per pregiudizialità opera solo in presenza delle ipotesi tassativamente previste nel citato art. 39 (proposizione di querela di falso, decisione sullo stato e la capacità delle persone), con la conseguenza che ogni altra questione diversa da quelle riconducibili al suddetto art. 39 può e deve essere decisa dal giudice tributario incidenter tantum. Deve pertanto escludersi la sospensione del processo tributario per pregiudizialità penale, e ciò indipendentemente dalla riformulazione dell’art. 295 c.p.c. a seguito della eliminazione del principio sancito dall’art. 3 c.p.p. previgente e dalla sopravvivenza o meno all’entrata in vigore del c.p.p. del 1998 del D.L. n. 429 del 1982, art. 12, comma 1, prevedente che, in deroga all’art. 3 c.p.p., il processo tributario "non può essere sospeso".

E’ peraltro da rilevare che le censure esposte, siccome formulate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sarebbero in ogni caso inammissibili per mancanza della indicazione prevista dalla seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c., come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata con riguardo all’esame del motivo che precede, nonchè per difetto di autosufficienza.

Col terzo motivo (anch’esso identico in entrambi i ricorsi), deducendo violazione e/o falsa applicazione dell’art. 220, comma 2, lett. b) del codice doganale comunitario, le ricorrenti si dolgono del fatto che i giudici d’appello non abbiano ritenuto applicabile la scriminante di cui all’art. 220, comma 2, lett. b) C.D.C., nonostante la falsificazione "a monte" dei certificati EUR 1 di esportazione di merce di origine preferenziale. La censura è infondata.

L’esenzione daziaria postula l’autenticità della documentazione relativa all’origine e/o provenienza dai rispettivi paesi fornita alla dogana comunitaria presso la quale è effettuata l’operazione di importazione, con la conseguenza che, qualora le Autorità doganali constatino, sulla scorta delle indagini effettuate dai servizi ispettivi comunitari, la falsità dei certificati, devono procedere alla "contabilizzazione a posteriori" dei dazi doganali. L’esimente di cui all’art. 220, comma 2, lett. b) Reg. CEE n. 2913 del 1992 può essere invocata dall’importatore solo se la mancata riscossione dei dazi "ab origine" sia stata causata da un errore delle autorità competenti che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore in buona fede e sempre che tale errore sia dipeso da un comportamento attivo dell’Ufficio, mentre qualsiasi altro fatto imputabile all’esportatore non esime l’operatore dall’adempiere alla sua obbligazione (v. cass. n. 23985 del 2008). In particolare, la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ripetutamente affermato che – tanto in base al previgente testo dell’art. 220 del regolamento del Consiglio CEE 12 ottobre 1992, n. 2913 che in base alla medesima disposizione novellata con l’art. 1 del regolamento del Consiglio CEE 16 novembre 2000, n. 2700 -, deve ritenersi che l’importatore, il quale intenda avvalersi del particolare regime di esenzione ivi previsto, deve fornire la prova che, "per tutta la durata delle operazioni doganali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale", comprese quelle in ordine alla corrispondenza a verità delle certificazioni sull’origine della merce importata (v. SU n. 18190 del 2008 e da ultimo Cass. n. 15547 del 2010).

Pertanto, in mancanza della prova che sia intervenuto nella specie un errore delle autorità competenti dipendente da un comportamento attivo dell’Ufficio e non solo da fatti imputabili all’esportatore ed in mancanza altresì della prova che per tutta la durata delle operazioni doganali gli importatori hanno agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale, non è sufficiente ai fini dell’applicabilità della invocata scriminante la mera falsificazione "a monte" dei certificati EUR 1 di esportazione della merce. I ricorsi devono essere pertanto rigettati. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce la presente il ricorso recante il n. 28747/2008 e rigetta entrambi. Condanna le ricorrenti alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.500,00 oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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