Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-04-2012, n. 6639 Conclusione del contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con atto di citazione notificato il 7 giugno 2007, C.P. P. (talvolta indicato anche come P.) convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino la s.n.c. F.lli Tabasso, esponendo di avere concluso in data 19 giugno 2006, con la società convenuta, un contratto preliminare di vendita di immobile sito in (OMISSIS), versando al momento della stipula la somma di Euro 7.500,00; che il contratto definitivo non era stato stipulato perchè la società promittente venditrice si era rifiutata, accampando l’essenzialità del termine pattuito nel preliminare, quando questo non era tale e non era stato rispettato soltanto per il ritardo della banca nell’erogazione del mutuo; che esso promissario aveva intimato diffida ad adempiere, ma il termine di quindici giorni era spirato invano.

Tanto premesso, l’attore dedusse la nullità del contratto preliminare D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122, ex art. 2 (Disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della L. 2 agosto 2004, n. 210), per il mancato rilascio della fideiussione, e domandò, comunque, la risoluzione del contratto, chiedendo la condanna della convenuta al pagamento del doppio della caparra, anche in considerazione della nullità per vessatorietà della clausola che consentiva al professionista di trattenere la somma di danaro versatagli.

Si costituì la società convenuta, resistendo. L’adito Tribunale, con sentenza in data 22 aprile 2008, accolse in parte la domanda, condannando la convenuta alla restituzione di Euro 7.500,00, somma versata dal C. al momento della stipula.

Il primo giudice osservò:

– che la proposta di acquisto sottoscritta dal C., ed espressamente definita come irrevocabile fino al 20 luglio 2006, rappresentava un atto unilaterale fonte di obbligazioni per il solo proponente e non per la società convenuta;

– che, essendo mancata l’accettazione del destinatario, il contratto non si era concluso;

– che le domande dell’attore, là dove presupponevano l’avvenuta stipulazione del contratto, non erano fondate;

– che la somma versata dal C. rappresentava "una cauzione a garanzia della serietà della proposta", con la conseguenza che l’accipiens avrebbe avuto il diritto di trattenerla "in funzione del risarcimento di un danno del quale, tuttavia, non era stata offerta alcuna prova". 2. – La Corte d’appello di Torino, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 25 agosto 2010, ha accolto il motivo di gravame incidentale del C. relativo alla nullità D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ex art. 33, comma 2, lett. e), (Codice del consumo, a norma della L. 29 luglio 2003, n. 229, art. 7), e, di conseguenza, ha respinto l’impugnazione principale della società, confermando, con diversa motivazione, la sentenza impugnata, ed ha rigettato gli altri motivi dell’appello incidentale.

2.1. – La Corte territoriale ha richiamato la clausola n. 9 della proposta di acquisto immobiliare, approvata "con doppia sottoscrizione ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cod. civ.", del seguente tenore: "La presente proposta di acquisto non è vincolante se non dopo la firma delle parti sul contratto preliminare di compravendita redatto dalla venditrice. Se il sottoscritto proponente non intendesse arrivare alla firma del preliminare di compravendita o se lasciasse scadere il termine di cui al punto 8) la somma oggi versata resterà al venditore e la presente proposta di acquisto perderà qualsiasi valore senza ulteriori formalità e comunicazioni di sorta".

Premesso che la clausola in questione prevedeva il diritto del professionista a trattenere l’importo di Euro 7.500,00 versatigli dal C. se costui non avesse concluso il contratto (vale a dire sottoscritto il preliminare o il definitivo), ma non sanciva, per contro, il simmetrico obbligo del professionista, la s.n.c. Tabasso, a corrispondere il doppio della somma ricevuta nel caso in cui fosse stata detta società a non voler concludere il preliminare o il definitivo, la Corte d’appello ha rilevato, richiamando l’art. 36 del codice del consumo, che "lo spostamento patrimoniale da C. a soc. Tabasso era senza causa e l’indebito pagamento deve essere ora restituito ex art. 2033 cod. civ.". 3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la società F.lli Tabasso ha proposto ricorso, con atto notificato il 22 novembre 2010, sulla base di quattro motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza la ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (omessa pronuncia, violazione di legge: art. 112 c.p.c. e art. 277 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) ci si duole che la sentenza impugnata non abbia preso in alcun modo in esame, nè abbia pronunciato, sulla "controeccezione" sollevata dalla società con cui era stata dedotta l’inapplicabilità del codice del consumo al caso di specie, in ragione del fatto che ci si troverebbe di fronte, non ad un "contratto concluso", ma ad un negozio unilaterale recettizio.

1.1. – Il motivo è infondato, perchè il mancato esame di una tesi giuridica sostenuta da una parte (nella specie, l’inapplicabilità della disciplina delle clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore), incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa di controparte, non integra il vizio di omessa pronuncia (Cass., Sez. 3, 29 luglio 2004, n. 14486).

2. – Con il secondo motivo (omessa motivazione su un punto decisivo della controversia) si lamenta che la Corte d’appello abbia erroneamente ritenuto che la società Tabasso non avesse preso posizione sulla questione, sollevata dall’attore ed appellante in via incidentale, della nullità della clausola n. 9 della proposta irrevocabile di acquisto, perchè vessatoria ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, comma 2, quando, in realtà, la difesa della società aveva interloquito sul punto tanto in primo grado che in secondo grado nella comparsa conclusionale e nelle note di replica.

2.1. – La censura è inammissibile, perchè si limita ad allegare il vizio di motivazione in ordine ad una questione di diritto senza denunciare l’errore della soluzione interpretativa accolta dalla sentenza impugnata.

Invero, l’espressione normativa, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, "omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio", concerne esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, e quindi il giudizio di fatto, non anche la quaestio iuris, giacchè, ove il giudice del merito abbia correttamente deciso la questione sottoposta al suo esame, è irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza impugnata, che la sentenza abbia bene o male motivato sul punto di diritto, essendo il giudice di legittimità abilitato, nell’esercizio del potere correttivo attribuitogli dall’art. 384 cod. proc. civ., a sostituire, integrare o emendare la sentenza impugnata qualora la stessa sia comunque pervenuta ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (Cass., Sez. 3^, 20 febbraio 1999, n. 1430;

Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass., Sez. lav., 7 aprile 2010, n. 8254).

Non è configurabile, pertanto, il vizio di motivazione là dove si addebiti alla sentenza impugnata di non essersi fatta carico, ai fini della soluzione della questione di diritto, della tesi sostenuta dalla parte soccombente.

3. – Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33 e vizio di motivazione, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) si sostiene che, poichè la proposta in discussione ha natura di negozio unilaterale e non è un contratto, nè può essere ricondotta ai contratti per adesione, sarebbe inapplicabile al caso di specie il codice del consumo. La presunzione di vessatorietà riguarderebbe unicamente i patti inseriti in un contratto concluso, sia esso preliminare o definitivo;

non varrebbe per i negozi unilaterali recettizi.

3.1. – La doglianza è infondata.

Occorre premettere che il giudice del merito ha accertato che in data 19 giugno 2006 il C. sottoscrisse una proposta, irrevocabile fino al 20 luglio 2006, per l’acquisto di un appartamento di un complesso immobiliare in costruzione al prezzo complessivo di Euro 127.500,00, versando, contestualmente alla promessa, l’importo di Euro 7.500,00 a mani dell’oblato.

Sempre secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, la società oblata non accettò espressamente la proposta irrevocabile; ma – richiesta dal C. – con lettera del 12 luglio 2006 accordò al proponente una dilazione rispetto al termine fissato, purchè lo slittamento fosse limitato "a pochi giorni", comunicando che il notaio aveva "messo in agenda la stipula . . . per il giorno 28 luglio 2006, alle ore 15".

Con detta proposta irrevocabile il C. prendeva altresì atto che la somma versata sarebbe restata "al venditore" ove esso proponente non avesse inteso "arrivare alla firma del preliminare di compravendita" o se avesse lasciato "scadere il termine" del 20 luglio 2006. Questa clausola (la n. 9) – evidentemente inserita in un formulario a stampa predisposto o comunque utilizzato dal professionista, destinatario della proposta stessa -venne specificamente approvata per iscritto dal proponente, "ai sensi degli artt. 1341 e 1342 cod. civ.".

La Corte d’appello ha ritenuto questa clausola vessatoria (ex art. 33, comma 2, lett. e, del codice del consumo), e quindi nulla, perchè consentiva al professionista di trattenere l’importo versatogli dal consumatore se costui non avesse concluso il contratto, preliminare o definitivo, ma non sanciva il simmetrico obbligo del professionista di corrispondere il doppio della somma corrisposta nel caso che fosse stato quest’ultimo a non volere stipulare il preliminare o il definitivo.

La ricorrente denuncia l’erroneità della soluzione interpretativa offerta dalla sentenza impugnata, sul rilievo che il codice del consumo – e con esso la presunzione di vessatorietà della clausola che ha per oggetto, o per effetto, di consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere a carico dell’accipiens professionista un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio nel caso sia egli stesso a recedere o non concludere – si applicherebbe al solo contratto, non alla proposta, sia pure irrevocabile, che non è un contratto, ma un atto del processo formativo del contratto.

La doglianza è basata su un erroneo presupposto interpretativo.

Essa muove dall’assunto che la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti tra professionista e consumatore abbia un ambito oggettivo di applicabilità coincidente con il contratto che ha già completamente esaurito il suo ciclo di formazione e vincolante per entrambi i contraenti.

Si tratta di una tesi contrastante con la ragione della normativa posta dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33 e segg. che è quella di garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto negoziale da parte del professionista, quale possibile fonte di abuso sostanziantesi nella preclusione per il consumatore della possibilità di esplicare la propria autonomia contrattuale (Cass., Sez. 3^, 20 marzo 2010, n. 6802; Cass., Sez. 2^, 18 ottobre 2010, n. 21379).

Siffatta ratio sussiste egualmente sia con riguardo a contratti definitivamente perfezionati, sia con riguardo a negozi preparatori e tuttavia già vincolanti per il consumatore aderente.

Del resto, è lo stesso tenore testuale della previsione contenuta nel cit. art. 33, comma 2, lett. e) a smentire la premessa della società ricorrente. La norma infatti, riferendosi al versamento di una somma di denaro che il professionista potrà trattenere se il consumatore "non conclude il contratto", ha riguardo a figure più ampie e diverse dal contratto da cui scaturirà il definitivo assetto di interessi, ed è destinata a ricomprendere nel suo raggio di operatività quei negozi preparatori che hanno la caratteristica di essere strumentali ad un successivo e finale contratto. Inoltre, non specificando il titolo per il quale la somma di denaro deve essere versata, la norma citata esibisce un campo di applicazione più ampio rispetto alle ipotesi della caparra confirmatoria o penitenziale, che presuppongono un contratto già concluso.

E, sotto questo profilo, va rilevato, per un verso, che la proposta irrevocabile, tendendo a creare un vincolo stabile per il suo autore (tanto che può anche obbligare gli eredi e lo stesso proponente divenuto incapace) ed attribuendo all’oblato un diritto che non può essere reso vano dall’esercizio del potere di revoca, costituisce un negozio giuridico unilaterale recettizio, pur introducendo, allo stesso tempo, un procedimento contrattuale (Cass., Sez. 3^, 14 luglio 1965, n. 1512);

e, per l’altro verso, che l’art. 1324 cod. civ. prevede l’applicabilità delle norme che regolano i contratti (tra cui, quindi, quelle relative ai contratti del consumatore) anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, non in via analogica, ma diretta, con il solo limite della compatibilità (che, nella fattispecie di cui si discute, al Collegio non sembra assolutamente mancare).

Nè è di ostacolo alla applicabilità degli artt. 33 e segg. del codice del consumo la circostanza che il consumatore abbia rivestito il ruolo di proponente. Poichè, infatti, il consumatore, nel formulare la proposta irrevocabile di acquisto, ha aderito (come è reso palese dalla doppia sottoscrizione e dal richiamo agli artt. 1341 e 1342 cod. civ.) ad un testo predisposto dal professionista oblato (o, comunque, da quest’ultimo utilizzato per la disciplina dei suoi rapporti) , il fatto che sia stato il consumatore a fare la proposta ed il professionista ad assumere la veste di destinatario non modifica nulla sotto il profilo della sussistenza del presupposto della predisposizione unilaterale.

In altri termini, ai fini che qui rilevano, il termine contratto nella disciplina delle clausole vessatorie, essendo sostanzialmente sinonimo di operazione economica negoziale, comprende anche i negozi tra vivi a contenuto patrimoniale, inclusa la proposta irrevocabile;

e siccome non rileva il ruolo che le parti hanno assunto nel procedimento diretto alla formazione del contratto, la circostanza che il consumatore abbia riprodotto nella sua proposta lo schema redatto dal professionista non esclude che, in presenza degli altri presupposti di applicabilità della disciplina, l’operazione negoziale possa essere sindacata nell’interesse del consumatore stesso.

Conclusivamente, va affermato il principio secondo cui in tema di clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, la previsione dell’art. 33, comma 2, lett. e), del codice del consumo – diretta a sanzionare la lesione inferta all’equilibrio negoziale che si concretizza nel trattenimento di una somma di danaro ricevuta prima dell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal contratto, qualora non si ponga a carico dell’accipiens un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio nel caso che sia egli stesso a non concludere o a recedere – è applicabile in presenza non solo di un contratto già concluso ed impegnativo per entrambi i contraenti, ma anche di un negozio preparatorio vincolante per il consumatore, quale quello discendente da una proposta irrevocabile, tutte le volte che il consumatore stesso – nel versare, contestualmente all’impegno assunto, una somma di denaro destinata ad essere incamerata dal destinatario in caso di mancata sottoscrizione, da parte dello stesso proponente, del successivo preliminare "chiuso" o del definitivo – abbia aderito ad un testo, contenente la detta clausola vessatoria, predisposto o, comunque, utilizzato dal professionista oblato.

4. – Il quarto motivo lamenta violazione di legge con riferimento agli artt. 33 e 34 del codice del consumo e vizio di motivazione, giacchè, nel ritenere vessatoria la clausola n. 9, la Corte del merito si sarebbe astrattamente limitata a valutare la previsione in sè, senza fare riferimento, come impone l’art. 34 del predetto del codice, alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo. La Corte subalpina non avrebbe considerato che la somma trattenuta dalla società Tabasso non è certamente di importo manifestamente eccessivo, visto che rappresenta meno del 5% del prezzo indicato per l’acquisto dell’immobile. La sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto della circostanza che la clausola in questione, contenuta in una trattativa individuale, è coerente con la particolare funzione della proposta irrevocabile, che necessita della massima serietà dell’offerente in ragione delle intuitive ricadute negative sul destinatario dell’offerta. Ad avviso della ricorrente, il C. entro il termine prefissato non ha inteso sottoscrivere nè il rogito notarile definitivo nè un preliminare di compravendita: e tanto basterebbe a far sorgere in capo alla società il diritto a ritenere la somma.

Infatti, la somma prevista nella promessa unilaterale aveva la funzione di garantire la serietà dell’offerta, con la conseguenza che, ove il proponente non avesse sottoscritto il preliminare o il rogito entro il termine prefissato, il destinatario dell’offerta l’avrebbe trattenuta. Ricorrerebbe la figura della caparra confirmatoria, essendo previsto il diritto dell’accipiens di incamerare la somma in caso di inadempimento dell’altra parte.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

Per un verso la doglianza – là dove lamenta la mancata valutazione del carattere non "manifestamente eccessivo" dell’importo – non coglie nel segno, ove si consideri che nella specie il giudice del merito ha fatto applicazione, non della lett. f), ma della lett. e) del comma 2 del citato art. 33, che, a differenza della prima, quella valutazione non richiede.

Per l’altro verso, essa solo genericamente richiama l’art. 34 del codice del consumo: non spiegando da quali circostanze, che il giudice del merito non avrebbe considerato, si ricaverebbe che la clausola sia stata oggetto di trattativa individuale (seria ed effettiva, come richiede la giurisprudenza di questa Corte: tra le tante, Sez. 3^, 20 agosto 2010, n. 18785); e neppure indicando in concreto le risultanze probatorie, ancora una volta assuntivamente non tenute presenti dal giudice a quo, dalle quali emergerebbe che, nello specifico, la clausola in questione, valutata in relazione alle circostanze esistenti al momento della formulazione della proposta irrevocabile ed alle altre clausole dell’operazione negoziale, sia idonea a superare la presunzione del significativo squilibrio.

5. – Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta, il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 18 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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