Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-04-2012, n. 6604 Distanze legali tra costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione ritualmente notificata ERI di Iametti Renato & C. conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Busto Arsizio – sezione distaccata di Gallarate, P.S.A. chiedendo che quest’ultimo, previa disapplicazione della concessione edilizia rilasciata dal Sindaco di Cardano al Campo per la costruzione di un nuovo fabbricato in ampliamento di un edificio preesistente, ed eventualmente della norma delle N.T.A. derogativa delle distanze legali, venisse condannato alla demolizione del fabbricato eretto in violazione delle distanze dalla parete finestrata dell’immobile di proprietà di essa attrice, nonchè al risarcimento del danno patito per effetto della ridotta fruibilità dei locali finestrati, la cui visuale era stata occlusa dalla nuova costruzione.

La società attrice assumeva che il nuovo corpo edilizio era stato edificato ad una distanza inferiore a quella legale dalla parete finestrata del fabbricato di sua proprietà, atteso che, nel caso di specie, trovavano applicazione il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 e l’art. 12, comma 2 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G., che prescrivevano per gli interventi di nuova costruzione una distanza minima di metri 10 rispetto alle pareti finestrate degli edifici antistanti.

Si costituiva il P. eccependo il difetto di giurisdizione e contestando, nel merito, la domanda.

Espletata una consulenza tecnica d’ufficio, l’adito Tribunale, con sentenza non definitiva, rigettava in primo luogo l’eccezione di difetto di giurisdizione e accoglieva la domanda.

Premesso che il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 era immediatamente vincolante per i comuni in sede di approvazione dei nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, integrando l’art. 873 cod. civ., e che le N.T.A. del P.R.G. del Comune di Cardano al Campo, all’art. 12, comma 2, conformemente al citato D.M., stabilivano per gli interventi di nuova costruzione una distanza minima di mt. 10 rispetto alle pareti finestrate dei fabbricati antistanti, il Tribunale riteneva che la realizzazione di una nuova unità costruttiva con ampliamento di volumetria di un edificio preesistente, costituisse a tutti gli effetti una nuova costruzione, come tale soggetta alla richiamata disciplina delle distanze, laddove il c.t.u. aveva accertato che la nuova costruzione era ubicata a circa mt. 5 dalle pareti finestrate dell’edificio dell’attrice. Il Tribunale escludeva poi che potesse trovare applicazione, nella specie, l’art. 12, comma 3 delle N.T.A., concernente le distanze dal confine, ammesse senza convenzione tra privati nel caso di nuove costruzioni ad uso artigianale e industriale, limitatamente ad un’altezza massima esterna di mt. 5,00, trattandosi di prescrizione non applicabile nel caso in cui sul fondo confinante vi fosse una parete finestrata, per la quale la distanza di mt. 10 doveva ritenersi inderogabile.

Il Tribunale disapplicava, quindi, la concessione edilizia rilasciata al Piantanida, che condannava ad arretrare la nuova costruzione sino al rispetto della distanza minima di dieci metri dalla parete finestrata di proprietà dell’attrice, e disponeva, con separata ordinanza, l’ulteriore istruttoria per la decisione sulla domanda risarcitoria.

Avverso la sentenza non definitiva il P. proponeva appello immediato, cui resisteva la società attrice.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 17 dicembre 2009, disatteso il motivo di gravame concernente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ha rigettato l’appello.

In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto infondato il motivo con il quale l’appellante aveva censurato la qualificazione dell’intervento edilizio come nuova costruzione, rilevando che una costruzione, in generico ampliamento di altra già esistente, altro non è che una nuova costruzione, che si aggiunge alla precedente e che insieme a questa è soggetta all’obbligo di osservanza della distanza minima dalla parete finestrata.

La Corte d’appello ha poi ritenuto infondato anche il motivo di appello con il quale si sosteneva la non applicabilità del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 stante la natura di luci e non di vedute della parete finestrata dell’edificio di proprietà dell’attrice. La Corte d’appello, sulla base del principio affermato da Cass. n. 982 del 1999, secondo cui "posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9 – che prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti – non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette lucifere", ha rilevato che le aperture ubicate sulla parete dell’edificio della attrice al pian terreno, mancando della possibilità di inspicre e di prospicere, non potevano essere qualificate come vedute. Ha invece ritenuto, sulla base dell’accertamento effettuato dal c.t.u., che tali caratteristiche le avessero le aperture al primo piano del medesimo edificio dell’attrice, sicchè la domanda attrice risultava fondata, alla luce del principio affermato da Cass. n. 11013 del 2002, secondo cui la previsione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, n. 2, "comporta che, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, il proprietario dell’area confinante che voglia, a sua volta, realizzare una costruzione sul suo terreno deve mantenere il proprio edificio ad almeno dieci metri dal muro altrui, con esclusione, nel caso considerato, di possibilità di esercizio della facoltà di costruire in aderenza (esercitabile soltanto nell’ipotesi di inesistenza sul confine di finestre altrui) e senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto di essa sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907 c.c., comma 3".

Per la cassazione di questa sentenza P.S.A. ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi, cui ha resistito, con controricorso, E.R.I. di Iametti Renato & C. s.n.c., la quale ha proposto altresì ricorso incidentale condizionato. Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente principale denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 900, 902 e 907 cod. civ..

La censura si riferisce al fatto che la Corte d’appello ha ritenuto assorbito anche il terzo motivo di appello, con il quale era stata dedotta la inapplicabilità della disciplina di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 in considerazione che tra i due edifici di proprietà delle parti vi era un altro manufatto, e segnatamente un’autorimessa alta mt. 2,60 e posta in aderenza alla parete dell’edificio di proprietà della ERI. In sostanza, posto che le aperture dell’edificio di parte attrice, sia quelle al paino terra che quelle al primo piano, si affacciavano sull’autorimessa, doveva escludersi la applicabilità della tutela riservata alle vedute, le quali devono consentire l’affaccio sul fondo altrui.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 900, 902 e ss. cod. civ. sulla qualificazione delle aperture e dell’art. 2697 cod. civ. Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia qualificato le aperture ubicate al primo piano dell’edificio ERI come vedute, pur in mancanza di prova sugli elementi che avrebbero potuto consentire tale qualificazione. In particolare, osserva il ricorrente, il c.t.u. non aveva svolto alcuno specifico accertamento e rilievo metrico sulle caratteristiche delle aperture ubicate al secondo piano.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, e segnatamente degli artt. 62 e 194 cod. proc. civ., osservando che il c.t.u. non ha provveduto a descrivere e misurare le aperture poste al piano primo e che tuttavia ha attribuito alle dette aperture, in modo non motivato, la natura di vedute; al contrario, sarebbe stato onere del c.t.u. effettuare le necessarie misurazioni e rilevazioni non solo delle aperture esistenti al piano terreno del fabbricato, ma anche di quelle esistenti al primo piano, mentre era compito del giudice qualificare, sulla base dei rilievi tecnici, le aperture, se luci o vedute.

Con il quarto mezzo, rubricato violazione e falsa applicazione dell’art. 113 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ., il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata perchè fondata su un’affermazione del c.t.u. non basata a sua volta su accertamenti e dati tecnici, ma su di una mera opinione o giudizio esorbitante dall’ambito del quesito posto al medesimo c.t.u..

Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta vizio di omessa, insufficiente motivazione circa la qualificazione come vedute delle aperture poste al primo piano dell’edificio di proprietà ERI. Il ricorrente sostiene che, nel mentre la valutazione della Corte d’appello con riferimento alla natura delle aperture poste al piano terreno dell’edificio era supportata da idonea motivazione sulla base dei rilievi effettuati dal c.t.u., la qualificazione come vedute delle aperture poste al secondo piano, e conseguentemente il riconoscimento della natura di parete finestrata rispetto alla quale vi era obbligo di osservare le distanze, è stata effettuata a prescindere da ogni rilievo tecnico da parte del c.t.u..

La motivazione della sentenza impugnata sarebbe poi carente anche con riferimento alla questione della dedotta presenza di un manufatto tra i due edifici che si assume avrebbero dovuto trovarsi ad una distanza non inferiore a dieci metri.

Con il ricorso incidentale condizionato, la ERI di Iametti Renato & C. s.n.c. censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 per avere ritenuto che l’obbligo di osservare le distanze sussisterebbe solo in relazione alle vedute e non anche alle luci. L’elemento qualificante ai fini dell’applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 sarebbe infatti la destinazione della parete finestrata a garantire l’aero-illuminazione dei locali con permanenza di persone al loro interno, mentre sarebbe irrilevante il fatto che le aperture consentano o no di inspicere e prosplcere. In sostanza, se la parete deve ritenersi sicuramente finestrata quando su di essa si aprono vedute, ciò non comporta che una parete sulla quale vi siano delle aperture lucifere non possa essere ritenuta finestrata, quando le aperture garantiscono i requisiti aero-illuminante dei locali.

Deve preliminarmente essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso principale, formulata dal controricorrente con riferimento alla inosservanza della disciplina di cui all’art. 366- bis cod. proc. civ. nella formulazione dei motivi di ricorso.

In proposito, è sufficiente osservare che la sentenza impugnata è stata depositata il 17 dicembre 2009, sicchè essa è sottratta all’applicazione dell’art. 366-bis citato, applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso provvedimenti depositati dal 2 marzo 2006 al 3 luglio 2009.

Il ricorso principale, i motivi del quale possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, è fondato nei sensi di seguito illustrati.

Risultano in primo luogo fondate le censure del ricorrente formulate sia per violazione di legge che per vizio di motivazione in ordine alla affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che le aperture ubicate al primo piano avessero la consistenza di vedute. La Corte d’appello è pervenuta a tale conclusione riferendo le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il quale – secondo quanto riferito in sentenza – ha affermato: "Il C.T.U. sottoscritto per quanto concerne il concetto di parete finestrata, indica che indipendentemente dalle aperture di piano terreno, dello stesso fabbricato dell’attrice, benchè superiori quelle del piano superiore rialzato (primo piano), in quota altimetrica all’altezza del fabbricato del Convenuto (v. sezione grafica C.T.U.) sul piano tecnico-legale dovrebbero far considerare finestrata la parete attorea per l’intera altezza (piani terreno e primo)". Alla luce di tale valutazione, quindi, la Corte d’appello ha ritenuto che "le aperture del piano superiore dell’edificio dell’attrice, seppur in quota altimetrica superiore all’altezza del fabbricato del convenuto, avevano caratteristiche di vedute".

Orbene, risulta evidente che la valutazione espressa dalla Corte d’appello si fonda non già sulla rilevazione delle misure delle aperture ubicate al primo piano e alle misurazioni ad esse relative, ma unicamente sulla valutazione tecnico-legale espressa dal c.t.u., secondo il quale – peraltro erroneamente con riferimento alle aperture al piano terreno – tutte le aperture realizzate sul fabbricato della resistente avevano consistenza di vedute. Tuttavia, nel mentre per le aperture al piano terreno la sentenza impugnata riferisce delle misurazione effettuate dal c.t.u. e sulla base di tali misurazioni perviene alla conclusione che le stesse fossero in realtà delle aperture lucifere e non delle vedute, come tali sottratte all’applicazione della disciplina di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 un simile accertamento di fatto non risulta dalla Corte d’appello posto a fondamento del proprio convincimento quanto alle aperture collocate al primo piano. Le riportate affermazioni del c.t.u., invero, attengono piuttosto alla valutazione tecnico-legale che non alla evidenziazione di elementi di fatto idonei alla formulazione del giudizio da parte del giudice del merito. In questo senso, dunque, appare fondato anche il rilievo formulato dal ricorrente quanto alla motivazione della sentenza impugnata sul punto, atteso che la stessa si risolve nel recepimento di una valutazione tecnico-legale espressa dal c.t.u. piuttosto che nella elaborazione a fini di giudizio degli elementi tecnici offerti dal c.t.u. per la formazione del convincimento del giudice.

Il ricorso risulta altresì fondato con riguardo alla omessa pronuncia relativamente alle censure concernenti la esistenza di un manufatto che avrebbe determinato la inapplicabilità della disciplina delle distanze. In proposito, nel mentre la Corte d’appello riferisce questa censura specifica tra i motivi di impugnazione, omette poi del tutto di illustrare le ragioni della sua infondatezza. In una simile situazione se può ritenersi che, avendo la Corte d’appello riferito il motivo di gravame, questo deve ritenersi implicitamente rigettato, sussiste però il denunciato vizio di motivazione, atteso che dalla ritenuta applicazione della disciplina sulle distanze tra pareti finestrate, non si desumono le ragioni per le quali la presenza di un manufatto è stata ritenuta dalla Corte d’appello, nel caso di specie, irrilevante.

Per questi aspetti il ricorso principale deve quindi essere accolto.

Il ricorso incidentale condizionato, all’esame del quale occorre procedere a seguito dell’accoglimento del ricorso principale, è infondato.

La Corte d’appello ha infatti correttamente fatto applicazione del principio, reiteratameli te affermato da questa Corte, secondo cui "posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regata lamento edilizio che si ispiri al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9 – che prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti – non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette lucifere" (Cass. n. 1362 del 1996; Cass. n. 982 del 1999; Cass. n. 1321 del 2004).

Il Collegio condivide tale principio e ad esso intende dare continuità, mentre gli argomenti addotti in contrario dalla ricorrente incidentale non appaiono idonei ad indurre a differenti conclusioni.

In conclusione, il ricorso principale va accolto per i profili prima evidenziati mentre quello incidentale condizionato va rigettato.

All’accoglimento del ricorso principale consegue la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello, la quale procederà ad emendare i rilevati vizi di motivazione.

Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale nei sensi di cui in motivazione; rigetta il ricorso incidentale condizionato; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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