Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-10-2011) 28-10-2011, n. 39169 Determinazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 15.4.2004, il G.U.P. del Tribunale di Bologna dichiarò A.P., B.F., O.E. C. e S.F. responsabili dei reati di associazione per delinquere e truffe, unificati sotto il vincolo della continuazione e – concesse le attenuanti generiche, con la diminuente per il rito – condannò: B. alla pena di anni 4 di reclusione, pena accessoria, A. ed O. alla pena di anni 2 mesi 8 di reclusione e S. alla pena di anni 2, quanto a quest’ultimo con la sospensione condizionale della pena.

Gli imputati furono condannati in solido al risarcimento dei danni (da liquidarsi in separato giudizio con provvisionali) ed alla rifusione delle spese a favore delle parti civili Be.Ge. e C.A.G..

Avverso tale pronunzia gli imputati proposero gravame ma la Corte d’appello di Bologna, con sentenza in data 12.5.2009, confermò la decisione di primo grado e condannò gli imputati in solido alla rifusione a favore della parte civile C. delle spese di giudizio per il grado di appello.

Ricorrono per Cassazione i difensori degli imputati.

Il difensore di A.P. deduce:

1. violazione di legge in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione già maturata al momento della pronunzia della sentenza di appello, in quanto fra la sentenza di primo grado e quella di appello sono decorsi oltre 5 anni e l’avviso di fissazione dell’udienza in camera di consiglio non interrompe il decorso del termine di prescrizione;

2. vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato associativo anzichè il concorso nei reati di truffa.

Con motivi nuovi il difensore di A.P. ha dedotto che la Corte d’appello di Roma con sentenza 10.3.2009, irrevocabile dal 19.10.2010, ha riconosciuto l’unicità del reato associativo contestato in quel processo rispetto a quella oggetto del presente procedimento. Ciò determinerebbe bis in idem. I reati satellite dovrebbero essere unificati sotto il vincolo della continuazione con i reati di cui alla citata sentenza, ma non sarebbe possibile alcun aumento di pena essendo già stata la pena aumentata fino al triplo.

Il difensore di B.F. deduce:

1. violazione di legge in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione già maturata al momento della pronunzia della sentenza di appello, in quanto fra la sentenza di primo grado e quella di appello sono decorsi oltre 5 anni e l’avviso di fissazione dell’udienza in camera di consiglio non interrompe il decorso del termine di prescrizione;

2. vizio di motivazione in relazione al mancato accoglimento delle specifiche doglianze svolte nei motivi di appello e non essendo sufficiente il richiamo all’art. 133 c.p. nella determinazione della pena.

Il difensore di O.E.C., con atto sottoscritto anche dall’imputata, deduce:

1. violazione della legge processuale e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta validità della citazione per il giudizio d’appello ai sensi dell’art. 157 c.p.p., comma 8 senza che fosse stata data contezza di eventuali precedenti tentativi di notifica non andati a buon fine;

2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato associativo solo in ragione della stabile presenza dell’imputata presso l’agenzia immobiliare, trascurando il dato temporale, rilevante, per il breve lasso di due mesi, sull’elemento soggettivo del reato; non è stata data risposta alle doglianze svolte nei motivi di appello.

Con nota in data 27.9.2011 il difensore di O.E.C. deduceva l’intervenuta prescrizione del reato.

Il difensore di S.F. deduce:

1. vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità ignorando le risultanze processuali e trascurando le doglianze svolte nei motivi di appello circa la deposizione del portiere;

2. Vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., stante la marginalità dell’apporto dell’imputato.

Motivi della decisione

Il primo motivo proposto nell’interesse di O.E.C. è generico e manifestamente infondato.

Il vizio di motivazione denunziabile in Cassazione è solo quello in fatto e non quello relativo alle questioni in diritto decise dal giudice di merito, nel senso che non può esservi ragione di doglianza allorquando la soluzione di una questione di diritto, anche se immotivata o contraddittoriamente ed illogicamente motivata, sia comunque esatta, mentre, viceversa, ove tale soluzione non sia giuridicamente corretta, poco importa se e quali argomenti la sorreggano. (Cass. Sez. 2, sent. n. 3706 del 21.1.2009 dep. 27.1.2009 rv 242634).

La questione prospettata rileva dunque solo sotto il profilo della violazione della legge processuale, ma sul punto il ricorso è generico in quanto si limita a dolersi della mancata motivazione senza specificamente dedurre la mancanza di un precedente tentativo di notifica non andato a buon fine, tanto che si riferisce che nel verbale di udienza era stata solo richiesta la verifica la ritualità della notificazione.

Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di A.P. ed il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di B. F. sono manifestamente infondati.

Il decreto di citazione viene emesso anche per il giudizio camerale ai sensi dell’art. 599 c.p.p. e non è contestato che sia stato emesso, giacchè altrimenti si verserebbe in ipotesi di nullità.

Quello che viene indicato come avviso della fissazione di udienza deve dunque essere considerato decreto di citazione.

Il riferimento, sia pure generico, al decreto di citazione a giudizio, contenuto nell’art. 160 c.p., comma 2, consente di ricomprendere tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione anche il decreto di citazione per il giudizio d’appello. (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 27324 del 20.5.2008 dep. 4.7.2008 rv 240525).

Il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di A. P. ed il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di O.E.C. sono manifestamente infondati.

La Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di una struttura associativa nella predisposizione di un’agenzia immobiliare falsa, finalizzata alla perpetrazione di una serie di truffe, mentre la presenza di O. era riferita allo svolgimento delle mansioni di segretaria ed al suo coinvolgimento nelle truffe.

Il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di B. F. è generico e manifestamente infondato.

In primo luogo è generico il richiamo ai motivi di appello.

Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, in tema di ricorso per Cassazione, i relativi motivi non possono limitarsi al semplice richiamo "per relationem" ai motivi di appello, allo scopo di dedurre, con riferimento ad essi, la mancanza di motivazione della sentenza che si intende impugnare. Requisito, infatti, dei motivi di impugnazione è la loro specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame. Conseguentemente, la mancanza di tali requisiti rende l’atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre effetti diversi dalla dichiarazione di inammissibilità.

(Cass. Sez. 5A sent. 2896 del 9.12.1998 dep. 3.3.1999 rv 212610).

In secondo luogo la determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicchè l’obbligo della motivazione da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 c.p. ed anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello. (Cass. Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 rv 181825. Conf. mass. N. 155508; n. 148766; n. 117242).

Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di S. F. è generico e manifestamente infondato.

Anche in questo motivo vi è un richiamo generico alle doglianze svolte nei motivi di appello e non sono svolte specifiche censure alle argomentazioni del giudice di appello.

Il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di S. F. è manifestamente infondato e generico.

La Corte territoriale ha argomentato che la minima partecipazione dovesse essere esclusa in ragione dell’essersi egli fatto fotografare con la barba, alla creazione di un falso documento di identità, utilizzato per la conclusione di un contratto.

Nessuna specifica critica è mossa a tali argomentazioni.

I ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili.

La inammissibilità del ricorso principale comporta la inammissibilità del motivo nuovo presentato nell’interesse di A.P., ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4.

Peraltro il motivo aggiunto è altresì inammissibile perchè il divieto del "bis in idem" stabilito dall’art. 649 c.p.p., postula una preclusione derivante dal giudicato formatosi per lo stesso fatto e per la stessa persona o anche dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona (anche se pendenti in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M.. Il divieto presuppone la produzione innanzi al giudice di merito della sentenza definitiva o degli atti necessari per l’accertamento della identità del fatto. Tanto non può essere effettuato dinanzi alla Corte di Cassazione, perchè è precluso al giudice di legittimità l’accertamento del fatto e la parte non può produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito. L’imputato non rimane peraltro senza tutela, potendo fare valere la preclusione davanti al giudice dell’esecuzione. (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9180 del 29.1.2007 dep. 2.3.2007 rv 236259; Sez. 4, Sentenza n. 48575 del 3.12.2009 dep. 18.12.2009 rv 245740).

Da ultimo il Collegio osserva che non possono trovare applicazione le norme sulla prescrizione del reato dal momento che – secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte – l’inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla mancanza, nell’atto di impugnazione, dei requisiti prescritti dall’art. 581 c.p.p., ovvero alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. (cfr.: Cass. Sez. Un., sent. n. 21 del 11.11.1994 dep. 11.2.1995 rv 199903; Cass. Sez. Un., sent. n. 32 del 22.11. 2000 dep. 21.12.2000 rv 217266).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – ciascuno al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *