Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-10-2011) 28-10-2011, n. 39151

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte d’appello di Milano ha confermato la condanna alla pena di mesi otto di reclusione inflitta dal locale tribunale a C. L., nella qualità di amministratore della Esseduemila s.r.l., per il delitto tentato di cui all’art. 640 bis c.p., i cui artifizi sono consistiti nell’invio a mezzo posta alla Centro Banca Studio Finanziario s.p.a. di (OMISSIS) (istituto bancario concessionario per l’erogazione delle agevolazioni finanziarie pubbliche di cui alla L. n. 488 del 1992) di una falsa lettera di referenze bancarie in realtà inesistenti.

Contro la superiore condanna il C. propone ricorso per cassazione allegando tre motivi.

Col primo motivo ripropone l’eccezione di incompetenza territoriale del giudice milanese, già rigettata in primo grado ed in appello.

Osserva al riguardo che l’ultimo atto idoneo a procurarsi l’ingiusto profitto è stato costituito dalla formazione e dalla spedizione della falsa lettera di referenze bancarie, fatti avvenuti in quel di (OMISSIS), essendo del tutto irrilevante il momento della ricezione della stessa documentazione da parte della Centro Banca Studio Finanziario s.p.a., in quanto quest’ultimo evento era estraneo alla sua sfera di controllo.

Col secondo motivo, deduce l’erronea qualificazione del fatto, assumendo che esso dovesse ricondursi alla meno grave fattispecie regolata dall’art. 316 ter c.p..

Infine, il terzo motivo di ricorso riguarda il vizio di motivazione della sentenza impugnata, con particolare riferimento sia alla ritenuta idoneità della condotta addebitata all’imputato alla commissione del reato contestato, sia alla affermazione sua personale responsabilità penale, senza aver tenuto in conto che egli si era avvalso di professionisti per la redazione della domanda di agevolazioni finanziarie.

Il ricorso è inammissibile.

La questione di diritto prospettata col primo motivo di ricorso riguarda il problema del locus commissi delicti del delitto di truffa nel caso in cui la condotta fraudolenta consista nella spedizione di documentazione artefatta alla persona offesa; se, in simili occorrenze, il reato si sia consumato nel luogo della spedizione o in quello della ricezione del plico. La questione assume rilievo solo qualora la truffa sia meramente tentata – cioè se la persona offesa si sia avveduta, a seguito di ulteriori verifiche, dalla falsità della dichiarazione – in quanto se all’induzione in errore è seguita l’erogazione di contributi pubblici, il momento consumativo del delitto coincide con quello del pagamento e, qualora i pagamenti avvengano in più ratei, con l’ultimo di essi, che segna anche la fine dell’aggravamento del danno, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata (Cass. 24 aprile 2007, n. 26256; Cass. 11 luglio 2008, n. 31044; Cass. 29 gennaio 2009, n. 14905; Cass. 9 luglio 2010, n. 28683).

Su una questione così specifica si rinviene un unico e remoto precedente di legittimità. Con ordinanza n. 2548/68 del 28 novembre 1967 questa Corte ha infatti affermato che allorquando l’ultimo atto di esecuzione del delitto di tentata truffa consista nella spedizione di un messaggio, il luogo che viene in considerazione ai sensi dell’art. 39 c.p.p. è quello in cui il proposito fraudolento raggiunge il destinatario del messaggio stesso, ossia dove sarebbe rimasto indotto in errore il soggetto passivo della truffa qualora l’evento consumativo si fosse verificato.

Il principio, nonostante l’avvicendamento delle norme di rito, deve essere tuttora condiviso e ribadito. Com’è noto, la condotta materiale del delitto di truffa consiste nell’induzione in errore della vittima mediante artifizi o raggiri. Questi ultimi possono avere natura dichiarativa, ossia consistere in false affermazioni o prospettazioni fatte dal reo alla vittima oralmente o attraverso qualsiasi forma di comunicazione. Consegue che, nel caso di comunicazione a distanza, l’azione criminosa ha natura chiaramente ricettizia, nel senso che acquista rilievo penale solo quando la falsa dichiarazione perviene a conoscenza del raggirato perchè solo in quel momento è astrattamente possibile l’induzione in errore.

Venendo al secondo motivo di ricorso, va premesso che, a seguito dell’inserimento dell’art. 316 ter c.p. (introdotto nel codice penale dalla L. 29 settembre 2000, n. 300, art. 4), si è posto il problema di chiarificare i rapporti fra questa nuova fattispecie incriminatrice e quella di truffa ai danni dello Stato, di cui all’art. 640 bis c.p..

La questione è stata risolta da questa Corte osservando che "la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p., che sanziona l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, costituisce norma sussidiaria rispetto al reato di truffa aggravata (art. 640 c.p., comma 1 e comma 2, n. 1, art. 640 bis c.p.), essendo destinata a colpire condotte che non rientrano nel campo di operatività di queste ultime. Ne consegue che la semplice presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere non integra necessariamente il primo delitto ma, quando ha natura fraudolenta, può configurare gli "artifici o raggiri" descritti nel paradigma della truffa e, unitamente al requisito della "induzione in errore", può comportare la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 640 o 640 bis c.p." (Cass. 8 giugno 2006, n. 23623; Cass. 12 febbraio 2009, n. 8613; v. pure 18 febbraio 2009, n. 21609).

Quindi, "la linea di discrimine tra il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni e quello di truffa aggravata finalizzata al conseguimento delle stesse va ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l’erogazione consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza costituire l’effetto dell’induzione in errore dell’ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall’art. 316 ter c.p. e non quella di cui all’art. 640 bis c.p." (Cass. 26 giugno 2007, n. 30155; v. pure Cass. sez. un. 16 dicembre 2010, n. 7537).

Questa Corte ha dunque chiarito che la qualificazione della condotta va effettuata caso per caso dal giudice del merito, dal momento che pure il silenzio o il mendacio possono assumere natura fraudolenta ed integrare l’elemento oggettivo del reato di truffa. L’induzione in errore, infatti, anche mediante l’affidamento che può essere ingenerato da una condotta meramente omissiva, qualora questa costituisca inadempimento di un obbligo di comunicazione.

Consegue che, qualora il giudice di merito abbia congruamente motivato circa la ricorrenza in concreto degli elementi distintivi – "artifizi o raggiri" e "induzione in errore" – che definiscono in reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 bis c.p.) rispetto a quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.), la qualificazione giuridica del fatto che ne consegue non è censurabile in sede di legittimità.

Nella specie, la sentenza impugnata assolve a tale obbligo di motivazione (pag. 5 sent. app.). Dal tenore della motivazione, che ricostruisce in modo analitico l’elaborazione di legittimità sul punto, si evince altresì che il motivo di appello è stato ritenuto generico e non meritevole di ulteriore approfondimento. Non sussistono, quindi, i vizi denunziati.

Il terzo motivo di ricorso contiene censure di merito che non possono trovare ingresso in questa sede.

Costituisce consolidato principio di legittimità quello secondo cui l’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto (ex plurimis, Cass. 4 marzo 2010, n. 27918). Tale giudizio, che deve essere basato sulla capacità causale della condotta, attiene al merito della decisione e non può essere censurato in sede di legittimità se supportato da idonea motivazione, la quale può essere ricavata anche dalla ricostruzione dei fatti ritenuta dai giudici di merito.

Ed infatti l’azione criminosa può essere ritenuta inidonea solamente se, in assoluto, difetti intrinsecamente di qualsiasi efficacia causale rispetto al delitto voluto (Cass. 13 maggio 1998, n. 9365);

con la conseguenza che la motivazione di merito deve essere più permeante proprio nel caso in cui si giunga ad affermare l’inidoneità causale dell’azione almeno in apparenza idonea, piuttosto che il contrario.

Sulla base degli elementi di fatto affermati nella sentenza di appello, va escluso che la condotta fosse astrattamente inidonea all’induzione in errore del concessionario per l’erogazione delle agevolazioni finanziarie. Pertanto, ogni altra doglianza al riguardo consiste in un sindacato dell’apprezzamento di merito fatto dai giudici di appello ed è inammissibile.

Altrettanto deve dirsi in relazione alla circostanza, affermata dall’imputato, di essersi avvalso di professionisti per la redazione della domanda di agevolazione finanziaria. In parte qua il ricorso difetta innanzitutto del requisito dell’autosufficienza, non avendo il C. neppure solamente indicato gli atti da cui emergerebbe la circostanza dedotta. A prescindere dalla superiore considerazione – di per sè assorbente – è di chiara evidenza che pure questa doglianza attiene al merito della decisione, dovendosi peraltro escludere, pure secondo un criterio logico non contrastato dall’evidenza dei fatti, che l’iniziativa delittuosa possa essere provenuta da soggetti diversi da quello che avrebbe beneficiato del finanziamento agevolato.

Il ricorso è quindi inammissibile sotto ogni profilo.

Potendosi ravvisare profili di colpa nell’inammissibilità del ricorso, l’imputato va condannato al pagamento di una sanzione a favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2011

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