Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-10-2011) 28-10-2011, n. 39150

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte d’appello di Roma in data 2 novembre 2010 ha parzialmente riformato la condanna inflitta a S.V., dichiarando prescritti i reati di cui ai capi 2), 3) e 4) e rideterminando conseguentemente la pena per il residuo delitto di tentata estorsione in anni in uno di reclusione ed Euro 200,00 di multa; tentata estorsione consistita nel pretendere che D.M.M. o i suoi genitori gli consegnassero una somma di denaro oppure di altri beni di valore sotto la minaccia di diffondere in ambienti frequentati dalla persona offesa sue fotografie compromettenti, che la ritraevano in pose di nudo o pornografiche.

Avverso tale sentenza il S. ha proposto ricorso per cassazione allegando tre motivi.

La sentenza di appello è innanzitutto censurata per vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle prove acquisite. Osserva al riguardo l’imputato che i giudici di merito avrebbero conferito acritica attendibilità alla deposizione testimoniale delle persone offese, senza curarsi dell’inesistenza di riscontri obiettivi; tali non potendosi considerare il contenuto della registrazione che le medesime persone offese hanno fatto di una conversazione telefonica intercorsa con l’imputato, il cui significato complessivo non avallerebbe l’interpretazione dei fatti ritenuta in sentenza.

Il secondo motivo di ricorso concerne l’erronea qualificazione giuridica del fatto, che secondo l’imputato andrebbe semmai ascritto alla meno grave fattispecie di cui all’art. 393 c.p., stante la pendenza fra le parti di pregressi rapporti di lavoro insoluti. La questione viene dedotta sub specie di vizio di motivazione, dal momento che la corte territoriale avrebbe preteso, per operare la derubricazione, che l’imputato fornisse la prova piena dell’esercizio di un diritto giudizialmente azionabile, anzichè di un diritto semplicemente supposto, come invece costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine, col terzo motivo l’imputato si duole dell’omessa dichiarazione di prescrizione anche del reato di cui all’art. 629 c.p., in quanto – pur tenendo per buona la qualificazione del fatto fatta propria dalla corte d’appello – lo stesso si sarebbe comunque estinto per decorso del tempo, avuto riguardo alla data di commissione del reato, risalente al (OMISSIS), tanto che si applichi la disciplina previgente, quanto quella nuova.

Il ricorso è inammissibile.

In ordine al primo motivo di ricorso, che concerne l’attendibilità delle persone offese, la giurisprudenza di questa Corte distingue a seconda che via sia stata o meno la costituzione di parte civile.

Nell’ipotesi negativa è senz’altro pacifico che la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, senza che sia indispensabile applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni. Nell’eventualità opposta in cui vi sia stata la costituzione di parte civile, con la conseguenza che la persona offesa diviene perciò portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e ciò può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (ex plurimis Cass. 24 giugno 2010, n. 29372; Cass. 3 giugno 2004, n. 33162).

In ogni caso, la persona offesa, anche se costituita parte civile, può essere assunta come testimone e l’attendibilità che il giudice di merito le riconosca non è censurabile in sede di legittimità, purchè tale valutazione sia sorretta da un’adeguata e coerente giustificazione che dia conto, nella motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (Cass. 4 novembre 2004, n. 443/05).

Nella specie, lo stesso ricorrente indica come possibile elemento di riscontro il contenuto di una telefonata intercorsa fra lo stesso e le persone offese e da queste ultime registrata. Sennonchè egli ritiene che alla telefonata possa conferirsi un significato diverso da quello – di segno gravemente accusatorio – ritenuto dai giudici di merito. A questo punto è evidente che la doglianza in esame vira decisamente verso una censura di merito che prospetta una ricostruzione alternativa in punto di fatto (del contenuto della telefonata de qua), come tale inammissibile in sede di legittimità.

In altri termini, il controllo di questa Corte riguarda l’esistenza di una congrua motivazione che dia conto dell’attendibilità attribuita alla parte offesa costituita parte civile, ma non si può spingere fino a sindacare il significato degli elementi di riscontro individuati dal giudice di merito, poichè ciò si tradurrebbe in un giudizio sul fatto che non è consentito in sede di legittimità fuori dai casi di travisamento della prova.

Per tali ragioni, il primo motivo di ricorso è inammissibile.

A fondamento del secondo motivo l’imputato richiama un orientamento di questa Corte secondo cui "ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (in luogo di quello di estorsione) occorre che l’agente sia soggettivamente – pur se erroneamente – convinto dell’esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale" (Cass. 4 marzo 2010, n. 12329). L’imputato dunque assume che sarebbe erronea la qualificazione del fatto, avendo egli prospettato alla corte territoriale che la sua azione era supportata dal convincimento di agire a tutela di propri diritti patrimoniali nascenti dal rapporto di agente di spettacolo della persona offesa.

Sennonchè questa Corte ha già puntualizzato che "integra il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa che si estrinsechi in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione dell’altrui volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, trasformandosi in una condotta estorsiva" (Cass. 28 ottobre 2010, n. 41365).

In altri termini, "nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta violenta o minacciosa è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e, pertanto, non può consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, in presenza delle quali deve, al contrario, ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto ex se ingiusto, configurandosi in tal caso il più grave delitto di estorsione" (Cass. 27 giugno 2007, n. 35610).

Nella specie è evidente che la minaccia di diffondere fotografie pornografiche che ritraevano D.M.M., all’epoca dei fatti minorenne, nel quartiere di residenza e presso agenzie di spettacolo, in modo da pregiudicare gravemente le sue aspirazioni artistiche, tramoda in modo inequivoco – per la gravità del danno prospettato ed il disvalore sociale e morale della condotta – in una condotta estorsiva connotata dai caratteri dell’obiettiva ingiustizia.

In ogni modo, neanche l’imputato chiarisce quale sarebbe il suo supposto diritto, lasciando solamente intendere che una quale pretesa economica nei confronti della famiglia D.M. sarebbe dipesa dalla pregressa esistenza di rapporti, oltre che sentimentali, anche lavorativi fra lui e la ragazza. In particolare, egli avrebbe agito quella qualità di agente per promuoverne l’ingresso nel mondo dello spettacolo. In ogni caso, come rilevato dai giudici di merito, questa larvata prospettazione non si concilia con l’entità delle somme richieste (dapprima cento milioni di lire, pretesa poi ridimensionata ad ottanta milioni), nè con l’alternativa offerta alle vittime di evitare la diffusione delle fotografie compromettenti cedendo beni di valore (un gommone, una autovettura, un cappotto di pelle).

Anche la doglianza relativa alla prescrizione del reato è inammissibile. Va premesso che, avuto riguardo al tempo in cui è stata pubblicata la sentenza di primo grado, si applica al caso di specie la disciplina previgente. Ciò posto, il ragionamento seguito dal ricorrente è viziato dalla circostanza che, ai fini dell’individuazione della pena massima edittale in base alla quale determinare la lunghezza del periodo prescrizionale, per il tentativo ha operato la riduzione di un terzo, anzichè quella minima di un solo giorno. Ed invero, facendo corretta applicazione dei canoni legali, la prescrizione matura solamente il 11 marzo 2014.

Potendosi ravvisare profili di colpa nell’inammissibilità del ricorso, l’imputato va condannato al pagamento di una sanzione a favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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