Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-05-2012, n. 6642 Università

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso dell’8/7/03 B.R., assunta come lettrice di madrelingua presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 con contratto di lavoro a tempo determinato rinnovato per diversi anni, adì il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli spiegando che con accertamento giudiziale erano stati ritenuti illegittimi i termini annuali ed era stata accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla stipula del primo contratto, ma che l’Università aveva, tuttavia, sospeso il rapporto dal 16/7/99 al 31/1/00 sull’erroneo presupposto che lo stesso fosse da intendere a tempo indeterminato in regime di part-time verticale per il periodo 1 febbraio – 15 luglio di ogni anno accademico. La ricorrente aggiunse che all’esito de doppio grado di giudizio, da lei intentato attraverso l’impugnativa della predetta sospensione, la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 351 del 18/2/02, in riforma di quella di primo grado, aveva dichiarato l’illegittimità di tale sospensione e condannato l’Università al pagamento delle retribuzioni da lei non percepite dal 16/7/99 alla reintegra;

tuttavia, quest’ultima aveva disposto nuovamente la sospensione del rapporto lavorativo anche negli anni 2000 e 2001, per cui essa ricorrente si era vista costretta a chiedere ancora la reintegra e la condanna alle retribuzioni non percepite.

Il Tribunale adito accolse parzialmente il ricorso e dichiarò l’illegittimità della sospensione del rapporto lavorativo, respingendo la sola parte della domanda relativa alla richiesta di condanna al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate.

La B. propose il gravame avverso tale decisione, dopodichè con sentenza del 29/9 – 10/9/09 la Corte d’Appello di Napoli – sezione lavoro accolse l’impugnazione ed in parziale riforma della sentenza appellata condannò l’Università al pagamento della somma di Euro 21.128,03, oltre interessi e spese del doppio grado di giudizio.

La Corte partenopea spiegò tale decisione sulla base delle seguenti motivazioni: – Anzitutto, come osservato con la precedente sentenza della stessa Corte d’appello n. 1813/2001, passata in giudicato, non era possibile ravvisare nella fattispecie in esame una specifica pattuizione di prestazione lavorativa a tempo parziale, nè tantomeno poteva desumersi dagli atti del giudizio una chiara volontà negoziale avente ad oggetto un accordo in tal senso, la prova della cui esistenza avrebbe dovuto essere offerta, in ogni caso, dall’Università; per quel che concerneva il periodo anteriore alla conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato si trattava di applicare il principio della sinallagmaticità delle prestazioni in relazione agli intervalli di tempo non lavorati tra i vari contratti a termine succedutisi negli anni, mentre per il periodo successivo trovavano applicazione i principi della mora del creditore, col conseguente riconoscimento alla lavoratrice della retribuzione per l’attività lavorativa che le era stata ingiustificatamente impedita di svolgere da parte della datrice di lavoro; a seguito della sentenza n. 6589/2004 della Corte di Cassazione era stata definitivamente accertata l’insussistenza, nella fattispecie, di una clausola di lavoro part-time verticale; non era condivisibile la tesi del Tribunale secondo cui, pur in presenza di una illegittima sospensione del rapporto lavorativo da parte dell’Università, il diritto al conseguimento delle retribuzioni "medio tempore" maturate dipendeva dal formale atto di messa a disposizione delle energie lavorative ad opera della dipendente, atteso che solo la funzionalità di fatto del rapporto era rimasta sospesa per effetto della unilaterale decisione datoriale di non voler ricevere la prestazione lavorativa, ma ciò non aveva impedito la permanenza giuridica del rapporto di lavoro ed aveva ingenerato una situazione di mora della stessa parte datoriale, la quale era stata così costretta a dover sopportare il rischio dell’estinzione dell’obbligo di eseguire l’obbligazione.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Università degli Studi di Napoli "Federico II" che affida l’impugnazione ad un solo articolato motivo di censura.

Resiste con controricorso l’intimata lavoratrice la quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Attraverso l’unico motivo di censura la ricorrente Università si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 2094 e 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè dell’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In pratica, la ricorrente evidenzia che l’accertamento giudiziale definitivo circa la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno si è avuto solo all’esito del giudizio conclusosi con la sentenza n. 6589/2004 della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, decisa il 2/12/03 e depositata il 3/4/04, per cui nella perdurante incertezza circa il carattere "part-time" o a tempo pieno del rapporto di lavoro dell’odierna intimata la problematica relativa agli intervalli non lavorati non poteva essere risolta se non nel senso dell’esonero della parte datoriale dalla loro retribuzione. Aggiunge la ricorrente che una tale situazione, unitamente alla persistente volontà della dipendente di vedersi applicate, senza soluzione di continuità, le particolari clausole contrattuali, aveva generato nell’amministrazione universitaria la convinzione che il rapporto, pur dopo la sua conversione a tempo indeterminato, fosse di tipo "part-time verticale", cioè di prestazione lavorativa concentrata in soli 5 mesi e mezzo dell’anno, per cui l’adozione dei provvedimenti di sospensione dell’attività lavorativa in relazione a determinati periodi degli anni accademici 2000-2001 e 2001-2002 non era dipesa dall’ingiustificato rifiuto, da parte della stessa amministrazione, di ricevere la prestazione lavorativa della dipendente, con l’ulteriore conseguenza che non sussistevano i presupposti atti a farla ritenere costituita in mora.

Da parte sua l’intimata ha obiettato quanto segue: anzitutto, la conversione dei vari rapporti a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato era avvenuta già per effetto della sentenza n. 11579/97 del Pretore di Napoli; con la sentenza n. 1816/2001, confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 6589/2004, la Corte d’appello di Napoli, investita della disamina della questione inerente la sospensione del rapporto dal luglio del 1999, aveva accertato che il rapporto convertito era da considerare a tempo pieno per dodici mesi l’anno; che non rispondeva al vero che essa dipendente aveva inteso applicare al rapporto la presunta clausola di "part-time", in quanto si era semplicemente rifiutata di sottoscrivere un nuovo contratto con inquadramento nel profilo di Collaboratore ed Esperto linguistico ed aveva chiesto di rimanere in servizio per dodici mesi all’anno, come era già avvenuto prima delle illegittime sospensioni dal servizio; che l’amministrazione aveva finito per ammettere l’illegittimità delle sospensioni di cui trattasi, pur ribadendo che non le si poteva addebitare nulla per tale suo operato in quanto all’epoca della loro adozione presumeva l’esistenza di un rapporto di lavoro "part-time"; che l’asserita violazione dell’art. 2909 c.c. non trovava alcun riscontro nella narrativa del ricorso; che, a prescindere dalle incertezze manifestate dalla controparte in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione, la questione da risolvere era quella della legittimità o meno delle sospensioni dal servizio attuate nel corso degli anni accademici dal 2000 al 2002 e del consequenziale rifiuto della controparte di ricevere le prestazioni lavorative; che, in ogni caso, la legittima convinzione della datrice di lavoro di operare nel giusto, in considerazione della temporanea incertezza interpretativa concernente le modalità di svolgimento del rapporto, non poteva costituire una valida ragione per sospendere unilateralmente lo stesso. Il ricorso è infondato.

Invero, occorre partire dalla considerazione che in merito alla questione della sospensione dell’attività lavorativa disposta dall’Università in relazione al periodo 16/7/1999 – 31/1/2000 si è già pronunziata questa Corte con la decisione n. 6589/2004, richiamata da entrambe le parti, con la quale ha ribadito quanto già affermato con sentenza della stessa Sezione lavoro del 13 giugno 1998, n. 5932, secondo cui il lavoratore che, ottenuta una pronunzia di conversione in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di una pluralità di rapporti di lavoro a termine, contrastanti con le previsioni della L. 18 aprile 1962, n. 230, non venga riammesso in servizio, ha diritto al ristoro del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di riassunzione del datore di lavoro.

Con quest’ultima decisione si è anche precisato che non è possibile far riferimento al carattere sinallagmatico del rapporto al fine di limitare il suddetto risarcimento e di attribuire al lavoratore, anche per il periodo successivo alla pronunzia di conversione, un trattamento retribuivo commisurato alle scansioni temporali cicliche originariamente concordate tra le prestazioni dei singoli servizi (e quindi, in concreto, la sola retribuzione per i periodi nei quali, conformemente alle modalità originarie, vi sarebbe stata effettiva prestazione), posto che la sinallagmaticità delle prestazioni è utilmente invocabile solo in relazione al periodo anteriore alla conversione, o a legittime pattuizioni relative alla misura ed alla quantità della prestazione lavorativa, pattuizioni la cui esistenza non può, peraltro, venir dedotta dal solo succedersi nel tempo di una pluralità di contratti a termine in violazione della cit. L. n. 230 del 1962, pena la sostanziale vanificazione dei precetti da questa stabiliti.

Tanto premesso, è opportuno ricordare che nei rapporti di durata e nelle obbligazioni periodiche che eventualmente ne costituiscano il contenuto (come ad esempio in ordine al rapporto di lavoro subordinato ed alle conseguenti obbligazioni retributive) il giudice pronuncia accertamento su una fattispecie attuale ma con conseguenze destinate ad esplicarsi anche in futuro. Pertanto l’autorità del giudicato impedisce il riesame e la deduzione di questioni, tendenti alla decisione nuova di questioni già risolte con provvedimento definitivo, ed esplica la sua efficacia anche nel tempo successivo alla sua emanazione. Essa viene meno soltanto di fronte a qualsiasi sopravvenienza, di fatto o di diritto, che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento (Cass. sez. lav. n. 15931 del 16/8/2004; v. anche Cass., 6 marzo 2001, n. 3230; Cass., 26 maggio 1999, n. 5131, Cass. S.U., 7 luglio 1999, n. 383; Cass. sez. lav. 10 aprile 2002, n. 5108).

Orbene, atteso che nella fattispecie i presupposti di fatto e di diritto sono gli stessi della vicenda già affrontata da questa Corte con la citata decisione n. 6589/04, fatta eccezione per il solo dato temporale rappresentato dagli anni accademici 2000 – 2001 e 2001 – 2002 nel corso dei quali furono adottati i contestati provvedimenti di sospensione della prestazione lavorativa, senza che per questo fosse mutato il contenuto materiale del rapporto o ne fosse modificato il regolamento rispetto alla situazione oggetto del precedente giudicato, non vi è ragione per discostarsi da quanto in esso statuito con riguardo all’accertamento dell’assenza di prova di un rapporto "part-time" e dell’esistenza di un pregiudizio economico subito dalla lavoratrice in conseguenza dei rifiuto di riassunzione da parte della datrice di lavoro.

Infatti, con sentenza n. 15931/04 questa Corte ha già avuto occasione di precisare che "con riferimento ai lettori di lingua straniera in Italia che abbiano ottenuto con sentenza passata in giudicato il riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in corso con l’Università, ancorchè il giudicato non copra, relativamente ai rapporti giuridici di durata e alle obbligazioni periodiche, gli elementi variabili nel tempo quali la quantità di lavoro prestato e la "giusta retribuzione", deve essere cassata la sentenza che, senza adeguata motivazione, a parità dei presupposti di fatto e di diritto, riconosca un trattamento retributivo collegato a un parametro diverso (ricercatore non confermato) rispetto a quello più favorevole (professore associato a tempo definito) adottato dalla sentenza passata in giudicato".

Essendo questo l’ambito nel quale vanno inquadrati i fatti di causa ne discende che il tentativo odierno della ricorrente di giustificare i suddetti provvedimenti di sospensione, dei quali col presente ricorso è comunque ammessa l’illegittimità, sulla base dell’erroneo convincimento, antecedente alla formazione del precedente giudicato, del perpetuarsi del regime di "part-time" verticale del rapporto in esame, è destinato ad infrangersi contro la ineludibile responsabilità contrattuale derivante dalla unilaterale determinazione dell’amministrazione universitaria di rifiutare la prestazione lavorativa della B., pur a fronte di una sentenza pretorile del 1997 che aveva accertato la conversione dei rapporti a termine in rapporto a tempo indeterminato e pure in mancanza di qualsiasi pattuizione che potesse giustificare in contrario l’esistenza di un rapporto di lavoro parziale.

Nè può tralasciarsi di evidenziare, a quest’ultimo riguardo, che anche nella più volte citata sentenza n. 6589/04 si è ribadito quanto già affermato da questa Corte (Cass., sez. lav., 23 febbraio 2000, n. 2033) secondo cui il rapporto di lavoro subordinato, in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto, si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa.

Sono, quindi, condivisibili le argomentazioni logico-giuridiche che il giudice d’appello ha adoperato nel pervenire al convincimento in base al quale, una volta realizzatasi, per effetto di sentenza passata in giudicato, la trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato ed una volta accertata definitivamente la sua natura di rapporto a tempo pieno, non poteva ritenersi che fosse possibile il perpetuarsi, in mancanza di accordo contrario, del precedente sistema di lavoro svoltosi nella formula del "part-time verticale" nei periodi intercorrenti da febbraio a luglio dell’anno accademico, per cui la sospensione della prestazione lavorativa nei restanti periodi di ogni anno accademico, in quanto illegittimamente adottata dall’Università, non poteva che far sorgere in capo alla stessa la responsabilità da inadempimento per l’ingiustificato rifiuto a riceverla da parte della propria dipendente.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico, nella misura liquidata come da dispositivo, con attribuzione all’avv. Gaetano Lepore dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario, Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge con attribuzione all’avv. Lepore dichiaratosi antistatario.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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