Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-06-2011) 28-10-2011, n. 39147

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. A.M., A.S., B.G., C.R., C.G., D.V.R., D.E., M.A., M.G., Me.

G., m.g., M.M., Mi.Gu., N.C., P.A., Pe.Al., S. F. e S.S., impugnano la sentenza deliberata il 9 dicembre 2009 dalla Corte di Appello di Napoli, nella parte in cui – definendo in grado di appello il procedimento promosso nei confronti loro e di altri tredici imputati non ricorrenti, avente ad oggetto le eterogenee "attività criminali" riferibili al clan camorristico dei casalesi, "con specifico riguardo alla compagine che operava nel territorio di Santa Maria La Fossa – Grazzanise fra la fine degli anni 80 ed il 2000" – ne ha affermato la penale responsabilità in relazione ai delitti di seguito meglio precisati, talora confermando quella di condanna, emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il 14 ottobre 2006, talora, invece, riformandola, in accoglimento delle impugnazioni proposte dal Pubblico Ministero.

1.1 "Il materiale probatorio" posto a base delle pronunce di condanna – per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità e riservata in sede di trattazione del singoli ricorsi una più completa illustrazione al riguardo – risulta costituito, secondo quanto affermato dagli stessi giudici d’appello (pagina 83 della sentenza):

a) "dal rilevante apporto" fornito dai collaboranti di giustizia e segnatamente da C.R. e da F.G., integrato dalle dichiarazioni rese in corso di dibattimento dal coimputati e collaboratori D.S.D., Fr.Do., D’.Sa., D.T.A., Pa.Gi., S.C., S.M.;

b) dalle dichiarazioni dei "numerosi testi" escussi;

c) dalla "trascrizione di conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate";

d) da "pronunce giudiziarie" ed altro "materiale documentale". 2.1 L’impugnazione proposta nell’interesse di A.M..

2.1.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto A.M. colpevole:

a) di concorso in tentata truffa aggravata finalizzata al conseguimento di erogazioni pubbliche da parte dell’Aima-Eima-Agea (capo 34 della rubrica), delitto contestato come commesso nella provincia di Caserta e su tutto il territorio nazionale, fino al 2000, confermando sul punto la decisione di primo grado, appellata dall’Imputato;

b) di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso (capo 1 della rubrica), delitto contestato come commesso nella provincia di Caserta fino al 2000, accogliendo l’appello proposto dal Procuratore Generale della Repubblica di Napoli avverso la pronuncia di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, emessa dal giudice di primo grado.

2.1.2 Con riferimento alla prima delle suddette imputazioni – che nella sua formulazione originaria e complessiva fa riferimento a 293 "domande di compensazione al reddito per i produttori di grano e cereali" – la Corte territoriale, dopo aver precisato che l’ A.M. doveva rispondere con riferimento alle domande di compensazione di cui al punto n. 285 della rubrica – da lui stesso presentate negli anni 1994, 1995 e 1996 – ha rigetto le argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, così motivando:

a) la condotta contestata all’imputato (falsa indicazione della riferibilita all’istante della particella di terreno specificamente indicata nella domanda), deve ritenersi già di per sè sufficiente ad integrare la contestata truffa, e ciò a prescindere dalla veridicità o meno del dato relativo all’effettuazione o meno sui predetti terreni delle coltivazioni indicate nelle domande, il cui effettivo accertamento, pertanto, deve considerarsi dato del tutto irrilevante, deponendo per la sussistenza del reato: a) in generale, le dichiarazioni del F. e quelle convergenti del C.;

il ritrovamento presso il coimputato Mi., infedele dipendente del locale catasto, di numerose pratiche (quantomeno 19), di visure catastali e di varia documentazione, anche in bianco; il ruolo non marginale effettivamente svolto dal predetto Mi.; b) con riferimento allo specifico episodio contestato all’ A.M., l’intraneità al clan dell’imputato, che rendeva verosimile che costui si fosse reso disponibile a concorrere nel reato di cui trattasi, il quale costituiva una delle principali forme di autofinanziamento del sodalizio, dovendo considerarsi ininfluente il mancato riconoscimento dell’ A.M. da parte del F.;

circostanza che costituisce semmai, ad avviso dei giudici di appello, un ulteriore elemento indicativo della "sincerità" delle dichiarazioni del suddetto collaboratore;

– che la presenza dell’aggravante speciale, pur qualificandosi la condotta contestata all’imputato come tentativo, escludeva la prescrizione del reato, sia in base alla normativa vigente all’epoca dei fatti, sia in base a quella novellata.

2.1.3 Quanto all’imputazione associativa, la Corte territoriale, dopo aver illustrato il contenuto delle dichiarazioni accusatole rese dai collaboratori F., Fr., C. e D.S. – da cui emergeva: che l’azienda agricola gestita dall’imputato e dal fratello, sita in Santa Maria la Fossa, era stata utilizzata come "sede" di numerose riunioni dei diversi gruppi criminali riconducibili al clan, avendola frequentata personaggi che rivestivano ruoli apicali nell’associazione, quali S. F. di L., B.D., Z.M., D. S.D.; che l’imputato, nell’occasione, avrebbe svolto personalmente il ruolo di "palo", di colui, cioè, che avrebbe dovuto preavvertire i presenti in caso di arrivo di estranei o delle forze dell’ordine; che l’ A.M., nell’anno 1997, aveva temporaneamente detenuto delle armi appartenute al Fr., così evitando che le stesse venissero sequestrate; che sempre l’imputato aveva dato ospitalità agli affiliati, che ivi custodivano armi; che alcune volte, all’interno della masseria, erano state ricoverate anche delle autovetture rubate; che l’ A.M. aveva contribuito ad estrarre, con un trattore, l’auto del Fr. finita in un fossato, nel giorno della scomparsa di Ca.An. e di tale Do. – dichiarazioni ritenute già dal primo giudice significativamente convergenti nel loro nucleo essenziale, sono pervenuti alla conclusione che le stesse consentivano "di affermare che l’ A.M., per un considerevole lasso di tempo, ha partecipato all’associazione camorristica, mediante una rilevante condotta di sostegno ad attività non certo secondarie del gruppo, quali devono ritenersi gli incontri anche quotidiani dei consociati, individuati tra i più importanti esponenti del clan, incontri indispensabili per la programmazione criminosa, e l’occultamento di armi e veicoli, assicurando ai compartecipanti ospitalità incondizionata, vigilanza sulla sicurezza delle riunioni, funzionale collaborazione alla conservazione dell’apparato organizzativo (armi e vetture)".

In particolare i giudici di appello hanno evidenziato come la pronuncia assolutoria emessa dal giudice di primo grado risultava fondarsi su di una premessa in alcun modo desumibile dalle dichiarazioni dei collaboratori, quella, cioè, secondo cui la decisione di mettere a disposizione del clan la masseria di Santa Maria la Fossa doveva attribuirsi, senz’altro, ad una determinazione del padre del prevenuto, senza considerare, tuttavia, che del medesimo i collaboratori non avevano fatto mai menzione, neppure indicandone il nome, e che anche in considerazione dell’età dell’imputato all’epoca dei fatti di cui è processo (25-30 anni), era incongruo operare una distinzione con riferimento all’accertata disponibilità della masseria come punto di incontro, tra un primo periodo riferibile esclusivamente al padre ed un secondo all’odierno ricorrente, avendo tutti i dichiaranti indicato, invece, concordemente, l’imputato come il proprietario-gestore dell’azienda agricola e non già come un "passivo spettatore" ovvero un "figliolo" sottomesso ai desirata paterni, in qualche misura costretto dalla volontà del proprio genitore a sopportare che all’interno dell’azienda agricola si svolgessero riunioni di pregiudicati e venissero occultate delle armi; condotte queste di rilevante e significativo "supporto logistico" del sodalizio criminale, che, al contrario, erano direttamente riferibili all’imputato, in base al narrato dei collaboratori, che aveva trovato, del resto, un riscontro "significativo", contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale, sia nell’avvenuto sequestro, all’interno della masseria, al momento dell’arresto dell’ A.M., di uno "spropositato numero di cartucce" (più di 600), sia nell’accettata sua frequentazione, nel 1998, con il F., all’epoca agli arresti domiciliari, e con il coimputato Mi.Gu..

2.1.4 – Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse dell’ A. M., se ne chiede l’annullamento, sviluppando quattro motivi d’impugnazione.

2.1.4.1 Con il primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio della motivazione, con riferimento alla ritenuta partecipazione del ricorrente al sodalizio criminoso, di cui al capo A (rectius capo 1) della rubrica.

Ricordato il peculiare onere motivazionale che incombeva sui giudici di appello a ragione della totale riforma della statuizione adottata dal primo giudice – per altro conforme al giudicato cautelare che aveva escluso l’esistenza di gravi indizi a carico del ricorrente – nel ricorso, a confutazione di un percorso motivazionale ritenuto sommario, superficiale ed illogico, si evidenzia:

a) in diritto, che per affermare la partecipazione del ricorrente all’associazione, è necessario l’accertamento di "indicatori fattuali" sintomatici (l’affiliazione rituale, la commissione di delitti-scopo, ecc.) che consentano di desumere, senza alcun automatismo probatorio, la costante permanenza del vincolo, la duratura "messa a disposizione" della persona imputata per ogni attività delittuosa;

b) che tali indicatori fattuali risultano insussistenti nel caso in esame, posto che nessuno dei molteplici collaboratori escussi, ha attribuito all’ A.M. il ruolo di affiliato ovvero ha ricordato che allo stesso sia stata mai elargita una qualche retribuzione in cambio dei presunti servigi;

c) che la rilevanza attribuita dai giudici di appello all’accertata disponibilità della masseria A. da parte di alcuni esponenti del clan dei casalesi, unico elemento di convergenza nelle dichiarazioni dei plurimi collaboratori sentiti nel presente giudizio, era frutto di una valutazione sommaria delle risultanze processuali, che non aveva tenuto conto, in particolare, di quanto riferito dal collaboratore D.S., personaggio di assoluto rilievo nell’ambito del sodalizio, secondo cui la disponibilità della masseria da parte di S.F. di L., doveva farsi risalire ad una deliberazione volitiva riferibile ad A.N., padre di A.M., l’odierno ricorrente, e di A.V.;

d) che costituiva argomento illogico ritenere che tale "scelta" sarebbe stata comunque condivisa dal figlio A.M., dopo la morte del padre, nella misura in cui attribuiva al ricorrente una possibilità di opporsi a personaggi malavitosi dello spessore di S.F.;

e) che i giudici di appello, in violazione dei principi di cui all’art. 192 c.p.p., dopo aver risolto in modo sbrigativo il problema della credibilità soggettiva dei collaboratori escussi attraverso la dichiarata condivisione del giudizio positivo svolto sul punto dal tribunale, avevano omesso di verificarne l’intrinseca consistenza, alla luce dei criteri della coerenza, costanza e spontaneità;

f) che una siffatta verifica, in particolare, non era stata svolta adeguatamente con riferimento alle dichiarazioni di F. G., rispetto alle quali si segnala, esemplificativamente, che lo stesso aveva fatto risalire la sua conoscenza con l’ A. M. negli anni 90-92, allorquando si sarebbe recato nella sua masseria con S.F. di L., circostanza tale da rendere dubbia ed incerta quanto meno la collocazione temporale della condotta attribuita all’imputato, risultando per altro singolare, ove si voglia far effettivamente risalire sin dai primi anni 90 la intraneità al sodalizio dell’ A.M., che il collaboratore abbia saputo riferire un unico episodio, penalmente rilevante, in cui l’imputato era stato protagonista, ovvero il recupero, dopo l’arresto del F. avvenuto nell’anno 1997, di alcune armi dallo stesso nascoste in un fienile; narrazione rispetto alla quale, oltretutto, i giudici di appello non hanno neppure apprezzato il carattere di dichiarazione de relato, avendo il collaboratore appreso di tale comportamento solo dopo la sua scarcerazione, dal coimputato M.;

g) che del tutto incongruamente i giudici di appello avevano ritenuto le dichiarazioni del collaboratore Fr. un valido riscontro esterno alle dichiarazioni accusatorie del F., ove si consideri, per un verso, che era mancata qualsiasi valutazione in merito all’attendibilità del suddetto collaboratore, il quale, in sede di dibattimento, aveva affermato che il ricorrente si chiamava A.A. ed era fratello di A.S. e non lo aveva correttamente riconosciuto fotograficamente, correggendosi solo a seguito di contestazione del PM; dall’altro, che i due collaboratori non appartenevano allo stesso sottogruppo criminale;

h) che neppure alle dichiarazioni del C.R., per la loro natura meramente assertiva, poteva attribuirsi rilevanza sul piano probatorio;

i) che la totale assenza di una valutazione delle dichiarazioni del D.S., che non aveva attribuito all’ A.M. alcun ruolo malavitoso, era tale da integrare un vizio di motivazione;

l) l’assoluto difetto di specificità e concretezza dell’accusa, che non poteva ritenersi in alcun modo "compensato" dalle risultanze di un sequestro operato nel 2000 ovvero da controlli di polizia giudiziaria che testimoniano, al più, di rapporti di conoscenza, per altro mai negati dall’imputato.

2.1.4.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e vizio della motivazione, con riferimento alla condanna del ricorrente per il reato di cui al capo 34) della rubrica.

In particolare nel ricorso si evidenzia:

a) l’assenza di qualsiasi verifica sull’effettivo carattere mendace della domanda di compensazione, tale giudizio fondandosi esclusivamente sulle dichiarazioni del F. – il quale aveva riferito di aver appreso dal ricorrente che in una delle due istanze di compensazione "erano stati inseriti terreni appartenenti a terzi estranei" – che erano prive, però, di riscontri individualizzanti, tale non potendosi ritenere il ritrovamento della pratica nell’abitazione del Mi., circostanza di per sè non sintomatica del carattere truffaldino della richiesta, tenuto conto della veste dell’imputato di coltivatore diretto e di proprietario di terreni coltivati a granoturco;

d) che il versamento di una parte dei proventi illeciti nelle casse del clan rappresenta una circostanza riferita soltanto dal collaboratore di giustizia;

c) che le dichiarazioni del C. erano meramente ripetitive di quanto appreso da Ca.An. e di contenuto generico;

f) che la funzione agevolatrice dell’associazione della specifica attività delinquenziale di cui trattasi era stata affermata, con riferimento all’ A.M., in base ad argomentazioni di tipo logico (la vicinanza dell’imputato al clan rendeva verosimile che lo stesso si fosse prestato a sottoscrivere delle domande di rimborso "fasulle") ma di carattere niente affatto univoco, ben potendo ipotizzarsi, sul piano logico, che alcuni associati potessero perseguire finalità di arricchimento personale, attraverso la realizzazione di frodi ai danni dell’AIMA;

g) che le dichiarazioni accusatorie del F., erano tutt’altro che attendibili e verificate, ove si consideri il mancato riconoscimento in sede di confronto del coimputato D.L., che pure era stato indicato come l’ideatore dell’intero meccanismo truffaldino, e la mancata conferma, all’esito del giudizio di primo grado, dell’ipotesi investigativa circa l’esistenza di un’autonoma organizzazione criminale, specificamente dedita in modo continuativo, alla consumazione di "truffe comunitarie". 2.1.4.3 Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge, sempre in relazione alla condanna dell’ A.M. per il reato di cui al capo 34) rectius 34 della rubrica, sotto il profilo del mancato accoglimento della eccezione di prescrizione, non avendo i giudici di merito, nel rigettarla a ragione della contestazione dell’aggravante speciale, adeguatamente valutato che, trattandosi di tentativo, occorreva far riferimento al momento in cui la condotta contestata all’imputato si era esaurita, da identificarsi, nel caso in esame, con la presentazione della domanda di compensazione relativa agli anni 1992-95. 2.1.4.4 Con il quarto ed ultimo motivo d’impugnazione, si denuncia, infine, la mancanza totale della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che la Corte territoriale, anche in considerazione della riforma di quella di primo grado, avrebbe dovuto senz’altro concedere anche di ufficio, a ragione del ruolo "assolutamente marginale" ricoperto dal ricorrente; la giovane età; la modesta gravità dell’unico precedente penale.

2.1.4.5 Successivamente alla presentazione del ricorso, depositato il 22 aprile 2010, con memoria depositata il 19 maggio 2011, il difensore dell’imputato ha richiesto l’emissione di sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 649 c.p.p., in quanto l’ A., con sentenza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 23 novembre 2010, divenuta irrevocabile l’8 aprile 2011, era stato assolto dal delitto di cui all’art. 416 bis c.p., contestatogli per la presunta partecipazione al sodalizio criminale "clan dei casalesi" con condotta protrattasi sino alla data del suo arresto, avvenuto il 23 luglio 2009. 2.1.5 L’impugnazione proposta nell’interesse di A.M. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.1.5.1 Quanto alla richiesta di proscioglimento dell’ A.M. dal reato associativo per violazione del divieto di ne bis in idem, prospettata da ultimo con memoria del 19 maggio 2011, va rilevato, che la stessa, se pur proponibile nel presente giudizio di legittimità ratione temporis, sostenendosi nella memoria che la sentenza di riferimento sarebbe passata in giudicato dopo l’emissione della sentenza impugnata e la presentazione del ricorso per cassazione (in termini, Sez. 1^, Sentenza n. 31123 del 14/05/2004, dep. 15/07/2004, Rv. 229283, imp. Cascella), così come formulata, non può però trovare accoglimento.

Al riguardo occorre considerare, infatti, per un verso, che la difesa del ricorrente ha allegato alla memoria una copia della sentenza del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Napoli che ha assolto l’ As. dal delitto di cui all’art. 416 bis c.p., la quale reca in calce un’attestazione circa l’avvenuto passaggio in giudicato di essa, che non consente di attribuirla con certezza, così come redatta, al cancelliere del giudice che ha emesso la decisione; per altro verso, che la sussistenza, nel caso in esame, di un’identità dei fatti contestati all’ As. nei due giudizi – che di per sè costituisce, pur sempre, una questione di fatto riservata alla valutazione del giudice di merito – non emerge con la dovuta evidenza dalla lettura della sentenza prodotta, la quale si riferisce ad una condotta delittuosa contestata come commessa in Grazzanise, con condotta perdurante, anche perchè, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare, "in tema di reati associativi, al fine di controllare il rispetto del principio del "ne bis in idem", occorre verificare, in concreto, i segmenti di condotta presi in esame dalle singole sentenze passate in giudicato, nel senso che tale principio risulta violato solo ove vi sia sovrapposizione tra le condotte oggetto di giudicato" (così, Sez. 1^, Sentenza n. 12700 del 5/03/2008, dep. 25/03/2008, Rv. 239375, imp. Cosenza).

In conclusione, non emergendo con assoluta evidenza un effettivo rapporto quanto meno di continenza tra i fatti contestati nei diversi procedimenti, la richiesta di proscioglimento non può trovare accoglimento in questa sede, ferma restando una sua eventuale rlproposizione in sede esecutiva (in tal senso, Sez. 1^, Sentenza n. 16170 del 09/02/2001, dep. 20/04/2001, Rv. 218639, imp. Bagnato).

2.1.5.2 Quanto poi alle ulteriori deduzioni difensive dirette a censurare, nelle loro poliformi articolazioni, la condanna del ricorrente per il reato associativo con riferimento alla valutazione delle risultanze processuali, il Collegio deve rilevare, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, che i giudici di appello – come si ricava anche dalla pur sintetica illustrazione del contenuto della sentenza impugnata compiuta al paragrafo 2.1 – hanno dato conto dei motivi di impugnazione del Procuratore Generale che censuravano le soluzioni adottate dal giudice di primo grado ed hanno compiutamente argomentato sulle ragioni per cui tali censure dovevano ritenersi fondate.

In particolare, fermo restando che il principale anche se non esclusivo elemento di prova a carico del ricorrente era costituito dalle dichiarazioni accusatorie ed etero accusatorie del F. G. e di altri collaboratori di giustizia, non coglie nel segno il rilievo difensivo secondo cui i giudici di appello avrebbero violato le regole in tema di valutazione delle chiamate in correità, procedendo ad una disamina superficiale ed acritica delle dichiarazioni rese dal predetto collaboratore di giustizia e degli altri propalanti ( Fr., C. e D.S.).

Ed invero i giudici di merito, in presenza di plurime e convergenti dichiarazioni che accusavano l’ As. di aver sostenuto "per un considerevole arco di tempo" le attività del gruppo criminale dei casalesi, permettendo che nella masseria di Santa Maria La Fossa da lui co-gestita, avvenissero gli incontri anche quotidiani dei consociati, occultando armi e veicoli, assicurando ai compartecipi ospitalità incondizionata, vigilanza sulla sicurezza delle riunioni, funzionale collaborazione alla conservazione dell’apparato organizzativo (armi e vetture), hanno proceduto a verificare, in primo luogo, se la chiamata in correità proveniente dal F. fosse intrinsecamente attendibile, con riferimento alla sua genuinità, alla veridicità, alla spontaneità, alla costanza ed alla logica interna del racconto, e quindi ad accertare se la stessa fosse confortata da riscontri estrinseci ed obiettivi, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungevano il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità, complessivamente considerati e valutati, risultavano compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi; con ciò uniformandosi, in definitiva, a principi di diritto ormai consolidati enunciati da questa Corte in tema di valutazione della prova (si veda ex multis, Cass., sez. 6^ sentenza n. 661 del 7/12/1995 – 19/1/1996, ric. Agresta ed altro).

In linea con gli indicati principi, la Corte territoriale, in particolare, ha evidenziato, con motivazione adeguata e del tutto logica, che le dichiarazioni del F. e del Fr., in particolare, erano assolutamente convergenti nell’attribuire l’attività di custodia delle armi "all’imputato e non genericamente al luogo", come sostenuto dal Tribunale, e che le stesse, sul punto, avevano trovato adeguato riscontro, nel "rinvenimento di uno spropositato numero di cartucce nascoste nella masseria".

Avendo i giudici di appello fornito adeguata e logica spiegazione in merito alle ragioni per cui le dichiarazioni accusatorie del F., la cui frequentazione con l’imputato trovava conferma anche nell’esito di controlli effettuati dalle forze dell’ordine, dovevano ritenersi attendibili e positivamente riscontrate, si rivela quindi infondato l’assunto difensivo secondo cui gli stessi sarebbero pervenuti ad una pronuncia di condanna in assenza di una prova certa della responsabilità dell’imputato ed in difetto di precise indicazioni circa l’apporto, stabile e protratto nel tempo, in concreto fornito dall’imputato al sodalizio criminale.

2.1.5.3 Infondate devono ritenersi, altresì, le deduzioni difensive sviluppate nel secondo motivo d’impugnazione, dirette a denunziare la illegittimità della condanna del ricorrente per il delitto contestato al capo 34) della rubrica, risolvendosi le stesse, per un verso, in una sostanziale riproposizione di argomentazioni difensive già disattese dai giudici di merito con motivazioni plausibili ed aderenti alle risultanze processuali, per l’altro, in deduzioni in fatto non verificabili.

In particolare solo in sede di ricorso risulta contestata, genericamente, la circostanza, ritenuta invece pacifica dai giudici di merito, che nella domanda di compensazione presentata dall’imputato relativamente al raccolto per l’anno 1996 – significativamente rinvenuta presso l’abitazione del coimputato Mi.Gu., impiegato del catasto nonchè figura essenziale nell’ambito dell’attività truffaldina svolta dal clan camorristico al danni dell’Aima – Eima – Agea – era contenuta l’indicazione di un fondo di cui l’ A.M. non era in realtà proprietario.

Nè hanno pregio le deduzioni svolte in ricorso volte a contestare le finalità agevolatorie dell’associazione della specifica condotta delittuosa di cui trattasi, deponendo in tal senso, oltre il dato del ritrovamento della pratica presso il Mi., le dichiarazioni in tal senso del F. e del C., laddove la deduzione difensiva relativa all’assenza di prove in merito a versamenti eseguiti dall’imputato in favore del clan, non considerano adeguatamente che all’imputato si contesta il concorso in una truffa tentata e non già consumata.

2.1.5.4 Quanto poi alla riproposizione in questa sede dell’eccezione di prescrizione, le censure prospettate in ricorso sul punto si rivelano del tutto generiche, avendo i giudici di appello correttamente precisato che la condotta contestata all’imputato era cessata nel 1996 e che la sussistenza dell’aggravante speciale ( D.L. n. 152 del 1991, art. 7) – che comporta com’è noto il raddoppio dei termini di prescrizione – esclude l’estinzione del reato.

2.1.5.5 Manifestamente infondata risulta, infine, anche l’ultima censura prospettata in ricorso relativamente all’assenza nella sentenza impugnata di una qualsiasi motivazione in merito al mancato riconoscimento all’ A.M. delle attenuanti generiche, con riferimento alla sua condanna per il reato associativo.

Al riguardo, premesso che nel giudizio di primo grado l’ A. M. era stato condannato per il solo tentativo di truffa e che la difesa dell’imputato, nei motivi di appello, ne aveva sollecitato il proscioglimento senza prospettare, in via subordinata, ulteriori censure relative alla mancata concessione delle attenuanti generiche, va infatti ribadito il principio, più volte affermato da questa Corte e che non vi è motivo di disattendere nel presente giudizio, secondo cui l’art. 597 c.p.p., comma 5, pur conferendo al giudice di appello, il potere di riconoscere anche di ufficio l’esistenza di circostanze attenuanti, non obbliga detto giudice di specificare nella motivazione le ragioni del mancato esercizio di tale potere, quando – come verificatosi nel caso in esame – le circostanze in questione non abbiano formato oggetto di apposita richiesta; pertanto tale mancato esercizio non può costituire motivo di ricorso in cassazione (in termini ex multis, Sez. 6^, Sentenza n. 7960 del 26/01/2004, dep. 24/02/2004, Rv. 228468, imp. Calluso).

2.2 L’impugnazione proposta nell’interesse di A.S..

2.2.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata ha ritenuto A.S. colpevole:

a) di concorso in estorsione aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 in danno di Fo.Gi. (capo 8 della rubrica), fatto contestato come commesso nell’anno 1995, tra Caiazzo e Casapesenna e zone limitrofe, confermando sul punto la decisione di primo grado, appellata dall’imputato;

b) di trasferimento fraudolento di valori – le quote di partecipazione ad un impresa operante nella provincia di Caserta, nel settore della commercializzazione all’ingrosso di carne – (capo 2 della rubrica), fatto contestato come commesso dal 1994/1995 al 2000, nella provincia di Caserta; e di concorso in estorsione aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 in danno di Ma.Lu. (capo 3 della rubrica), fatto contestato come commesso dal 1997 al 2000, nella provincia di Caserta, accogliendo sul punto l’appello proposto dai Procuratore Generale della Repubblica di Napoli avverso la pronuncia di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, emessa dal giudice di primo grado.

2.2.2 Con riferimento alla prima imputazione, la Corte territoriale, dopo aver precisato che il concorso nel reato dell’ A. S., emergeva dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori C. e Fr., da ritenersi pienamente attendibili per il loro contenuto anche auto-accusatorio con riferimento ad un episodio delittuoso rimasto sino ad allora ignoto – ha rigetto le argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, così motivando:

a) le dichiarazioni del C. e del Fr., quest’ultimo interessatosi della vicenda su richiesta dell’imprenditore estorto, come lui nativo di Casapesenna, e non già in funzione di un recupero crediti, devono ritenersi convergenti anche con riferimento alle "competenze territoriali", nel senso che la persona offesa, titolare di una impresa di trasporto terra, era stato raggiunto da richiesta estorsiva per iniziativa di D.V.A., appartenente al gruppo guidato da S.F. di L., in quanto lo stesso, all’epoca del fatto, stava eseguendo dei lavori in un cantiere sito in Caiazzo, comune ricompreso nella zona d’influenza del gruppo delinquenziale a cui i fratelli D.V. appartenevano, come già accertato giudizialmente; dovendo ritenersi, pertanto, del tutto coerente con tale ricostruzione la circostanza che il Fr., si sia rivolto proprio al gruppo operante in Santa Maria La Fossa – Grazzanise, per trattare una "riduzione" dell’entità della tangente richiesta al suo compaesano;

b) le dichiarazioni del C. e del Fr., hanno trovato conferma nell’attività investigativa svolta a seguito delle propalazioni dei collaboratori, che aveva consentito di accertare:

che la persona offesa, Fo.Gi., era effettivamente titolare di un’impresa di trasporti (la Italtrasporti); l’ubicazione della cava sita in Caiazzo, dalla quale i mezzi dell’estorto prelevavano l’argilla necessaria per l’esecuzione dei lavori;

c) le convergenti dichiarazioni dei collaboratori comprovano, con certezza, il sicuro coinvolgimento dell’ A.S. nell’episodio, avendo costui partecipato ad ambedue le fasi in cui si articolò l’attività delittuosa: la prima, relativa alla formulazione della richiesta estorsiva, con la quale si evocava la "necessità di mettersi a posto con gli amici di Grazzanise o di Casale"; la seconda, relativa ad una riunione avuta dal Fr. con il M. e l’odierno ricorrente, per discutere sull’entità della tangente e le modalità di pagamento della stessa (rateale);

d) l’attenuante ex art. 114 c.p. non può dirsi sussistente, avendo l’imputato partecipato attivamente anche alla fase determinante e più odiosa della condotta tipica a lui contestata;

e) le attenuanti generiche non possono venire concesse, non emergendo dal contesto della vicenda e dai precedenti penali dell’appellante, elementi tali da rendere necessario un intervento mitigatore della pena.

2.2.3 Quanto poi alle imputazioni di cui ai capi 2 e 3 – tra loro strettamente connesse, in quanto relative la prima, all’inserimento del gruppo camorristico nel settore della vendita all’ingrosso delle carni, realizzatosi attraverso fittizie attribuzioni a terzi (I commercianti Mu., Gi. e D.B.) della titolarità di quote di un’impresa attiva nel settore; la seconda, alla sostanziale estromissione dal mercato dell’imprenditore Ma. di Giugliano, che svolgeva tale proficua attività anche nella zona della provincia di Caserta – la Corte territoriale, dopo aver illustrato concisamente gli elementi di prova a carico dell’imputato – rappresentati: (a) dal contenuto delle dichiarazioni rese dai collaboratori F. e C.; (b) dalle dichiarazioni di alcuni commercianti che si rifornivano abitualmente dal Ma.; (c) dall’attribuzione in locazione, da parte della curatela del Fallimento, dei locali in uso all’impresa attraverso la quale aveva operato uno dei prestanome del clan (il Gi.) – riteneva gli stessi sufficienti a fondare un’affermazione di responsabilità penale, nel senso che le incertezze, pure manifestate dai collaboratori in merito alla effettiva partecipazione dell’ A.S. alla prima riunione dedicata al progetto di acquisizione di tale attività imprenditoriale, dovevano ritenersi superate a seguito delle ripetute e convergenti dichiarazioni dei due collaboratori, assolutamente sintoniche nell’affermare che l’ A.S. era sicuramente uno dei partecipi del clan che aveva finanziato, prò quota, l’attività imprenditoriale di cui trattasi e che costui, come da lui stesso riferito ai collaboratori, riceveva in proporzione al suo apporto una parte degli utili ricavati dalla impresa;

dichiarazioni queste, le quali, oltre a riscontrarsi reciprocamente, avevano trovato significative conferme, con riferimento a molte delle circostanze riferite nelle dichiarazioni dei commercianti coinvolti;

del curatore fallimentare; dei testi escussi dalla polizia giudiziaria, sia, infine, nella sentenza di condanna di alcuni del concorrenti nel reato ( D.V.C., F.G.;

Gi.An. e Mu.An.).

2.2.4 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse dell’ A. S., se ne chiede l’annullamento, sviluppando cinque motivi d’impugnazione.

2.2.4.1 Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, relativamente alla condanna per concorso in attribuzione fittizia ai soci di fatto Mu., Gi. e D. B. di quote di partecipazione ad una impresa operante nel settore della carne, nonchè per concorso in estorsione aggravata in danno di Ma.Lu..

La sentenza impugnata, secondo il ricorrente, ha infatti violato le regole dettate dall’art. 192 c.p.p. in tema di valutazione delle chiamate in correità, relativamente sia all’attendibilità intrinseca dei collaboratori che all’esistenza dei riscontri, avendo valorizzato, in particolare, le dichiarazioni del F., assolutamente incerte e confuse, omettendo, oltretutto, un esame integrale ed accurato delle stesse e delle dichiarazioni di altro collaboratore, il C., che ne costituivano l’asserito elemento di riscontro, totalmente prive del carattere di spontaneità, quanto all’accusa formulata nei confronti del ricorrente.

2.2.4.2 Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge e vizio della motivazione, relativamente alla condanna del ricorrente per concorso nell’estorsione in danno di Fo.Gi. (capo 8 della rubrica).

In particolare nel ricorso si evidenziano numerose insufficienze motivazionali con riferimento alla valutazione delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia Fr. e C. relative a tale episodio delittuoso, tutt’altro che precise e tra loro convergenti, così come diffusamente illustrato nei motivi di appello, rimasti sostanzialmente privi di risposta sul punto.

2.2.4.3 Con il terzo motivo, si denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 114 c.p. di legge, sempre in relazione alla condanna per il reato di cui al capo 8) della rubrica, non riferendo i collaboratori alcuna attività intimidatoria direttamente riferibile al ricorrente.

2.2.4.4 Con il quarto motivo d’impugnazione, si denuncia, altresì, violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1991, art. 7 e mancanza totale di motivazione sul punto, anche alla luce dell’indimostrata appartenenza del ricorrente, all’epoca dei fatti, a sodalizi criminali di tipo mafioso.

2.2.4.5 Con il quinto motivo d’impugnazione si denunzia, infine, violazione di legge in relazione al rigetto della richiesta di concessione delle attenuanti generiche, prevalenti o quanto meno equivalenti alle aggravanti contestate con riferimento al capo 8) ed ai capi 2) e 3) della rubrica.

2.2.5. L’impugnazione proposta nell’interesse di A. S. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata, con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.2.5.1. Ed invero, quanto ai primi due motivi d’impugnazione prospettati in ricorso, il Collegio deve rilevare che gli stessi volti a denunziare nelle loro poliformi articolazioni, la illegittimità della condanna del ricorrente relativamente agli episodi delittuosi a lui contestati, si risolvono, invero, in censure in fatto, sia pure dedotte come violazione di legge.

Orbene al riguardo risulta preliminare ed assorbente il rilievo che non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio – solo sommariamente illustrato in questa sede al paragrafo 2.2.1 – sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. n. 41476 del 25/10/2005, Misiano; Sez.Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv. 203428).

Avendo i giudici di appello con motivazione adeguata e plausibile precisato le ragioni per cui le dichiarazioni dei collaboratori che accusavano l’ A.S. dovevano ritenersi attendibili e convergenti nel loro nucleo essenziale, non può allora fondatamente ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

A maggior ragione non può ravvisarsi una violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 2, perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie.

Senza contare, per altro, che nella innovativa disciplina dell’art. 606 c.p.p., la mancanza di motivazione non può essere dedotta in Cassazione come inosservanza di una norma processuale stabilita a pena di nullità (Sez. Un., sentenza n. 41476 del 25/10/2005, imp. Misiano; Sez. Un., sentenza n, 5 del 24.4.1991, imp. Bruno, rv.

186998).

2.2.5.2 Infondate devono ritenersi, infine, anche le censure mosse alla sentenza impugnata relativamente al mancato riconoscimento all’imputato dell’attenuante della "minima partecipazione" e delle attenuanti generiche con riferimento all’estorsione in danno di Fo.Gi., avendo i giudici di appello disatteso tali richieste con motivazione adeguata, e per ciò non censurabile in sede di legittimità, avendo valorizzato, quanto alla diminuente ex art. 114 c.p., il coinvolgimento diretto dell’imputato in più fasi dell’episodio delittuoso, tra cui anche quella, ritenuta determinante e più odiosa, della formulazione delle minacce; e quanto all’attenuante ex art. 62 bis c.p., la non emersione dal contesto della vicenda e dai precedenti a carico del ricorrente, di elementi che giustificassero un intervento mitigatore della pena.

2.3 L’impugnazione proposta nell’interesse di B.G..

2.3.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto B.G. colpevole:

a) di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso (capo 1 della rubrica), contestato come commesso nella provincia di Caserta fino al 2000, confermando sul punto la decisione di primo grado, appellata dall’imputato.

Dopo aver sommariamente illustrato il contenuto delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori F., p., Pa.

G., d.b. e Fr. – dalle quali emergeva che il B. era un affiliato all’organizzazione operante nella zona di Santa Maria la Fossa e quindi inserito nel gruppo di S. F. di L., alle cui riunioni partecipava; che lo stesso riceveva per la sua attività in favore del clan una retribuzione mensile; che lo stesso operava principalmente nel campo delle estorsioni; che lo stesso, come riferito dal Pa.Gi., suo lontano parente, era stato in qualche misura coinvolto anche nell’attività delittuosa connessa al conferimento all’AIMA di frutta prodotta in eccesso, relativamente alla zona di Frignano, nella quale era ubicato un distributore di benzina gestito dal fratello – la Corte territoriale ha rigetto le argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, così motivando:

a) le dichiarazioni dei collaboratori relative al B., risultano sufficientemente specifiche, con riferimento sia all’individuazione del prevenuto, sia al tipo di attività delittuosa (prevalentemente estorsioni) svolta dallo stesso;

b) la credibilità dei propalanti, è stata "continuamente saggiata positivamente" nel presente procedimento ed è stata valutata positivamente anche in altri processi, non emergendo e non risultando allegate finalità calunniose;

c) la mancata individuazione degli specifici episodi estorsivi attribuibili all’imputato non può costituire una significativa smentita delle dichiarazioni rese dal collaboratori sul punto, così come non può costituire idonea confutazione delle dichiarazioni del Pa.Gi. circa un coinvolgimento del ricorrente nell’attività dello "scamazzo" – colorita espressione dialettale utilizzata dai collaboratori per indicare il centro di raccolta AIMA di prodotti ortrofutticoli in eccesso destinati alla distruzione – di Frignano, la circostanza, dedotta dalla difesa, che lo stesso non sarebbe stato coinvolto nei procedimenti relativi a tale specifica attività illecita, sia perchè tale deduzione non può ritenersi adeguatamente provata attraverso la sola allegazione del certificato penale, sia anche perchè dalla documentazione in atti emerge, in ogni caso, la adesione dell’imputato ad una cooperativa che aveva conferito i propri prodotti in eccesso proprio al centro di Frignano;

d) le dichiarazioni accusatorie relative ad un coinvolgimento dell’imputato in attività estorsive del clan ed al suo collegamento con il territorio di Frignano hanno trovato comunque indiretta conferma nella condanna subita dal B. per due diversi episodi estorsivi commessi in Frignano nel 1997 e nel 1998;

e) l’apporto fornito all’imputato all’attività dell’associazione non può considerarsi minimo, fermo restando, per altro, che l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. in adesione ad un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità deve ritenersi inapplicabile ai reati associativi;

f) le attenuanti generiche non possono venire concesse, in quanto, tenuto conto delle modalità della condotta e dei precedenti dell’imputato, non sono ravvisabili elementi di segno positivo in virtù dei quali concedere le invocate attenuanti generiche, risultando la pena inflitta "pienamente adeguata all’estremo allarme della condotta ed alla personalità del prevenuto". 2.3.2 – Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di B.G., se ne chiede l’annullamento, sviluppando due motivi d’impugnazione.

2.3.2.1 Con il primo motivo si denuncia difetto di motivazione e violazione di legge, relativamente all’art. 192 c.p.p., avendo i giudici del merito valorizzato delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia, ritenute quanto mai vaghe e non vagliate criticamente, specie con riferimento all’esistenza di effettivi riscontri individualizzanti.

2.3.2.2 Con il secondo si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione al diniego delle generiche ed al trattamento sanzionatorio.

2.3.3 L’impugnazione proposta nell’interesse di B.G. è basata su motivi non specifici e comunque manifestamente infondati e ne va quindi dichiarata la inammissibilità. 2.3.3.1 Quanto al primo motivo, non è superfluo rammentare che questa Corte ha da tempo chiarito, con riferimento al tema dei vizi della motivazione, che "il controllo di legittimità …non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile …. con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (in tale senso, ex multis, Sez. 5^, Sentenza n. 1004 del 31/1/2000, Rv. 215745).

Orbene, applicando tali principi al caso in esame, ed acclarato che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 930 del 29/01/1996, Rv.

203428), è agevole rilevare, avuto riguardo alle argomentazioni prospettate nel ricorso, come nessun profilo di illegittimità sia fondatamente ravvisabile nella decisione impugnata relativamente all’affermazione di penale responsabilità del B. relativamente al reato associativo.

Ed invero la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, ha fornito più che esauriente e logica spiegazione – solo sommariamente illustrata in questa sede al paragrafo 2.3.1 – delle ragioni per cui l’imputato doveva ritenersi un affiliato all’organizzazione criminale denominata "clan dei casalesi" ed in particolare dell’organizzazione operante nella zona di Santa Maria La Fossa, operando principalmente nel campo delle estorsioni.

In particolare, l’assunto difensivo secondo cui l’affermazione di responsabilità del B., sarebbe affidata a dichiarazioni di collaboratori di giustizia prive di adeguati riscontri individualizzanti e per ciò viziata da un palese travisamento degli elementi di prova, costituisce un’argomentazione del tutto generica e per altro già prospettata nel giudizio di appello e disattesa dalla Corte territoriale con un percorso argomentativo, immune da vizi logici o giuridici, rispetto al quale, nel ricorso, non si evidenzia alcun elemento dimostrativo di un effettivo travisamento delle emergenze processuali, specie ove si consideri che in tema di valutazione della prova, i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie (in termini, ex multis, Sez. 2^, Sentenza n. 13473 del 04/03/2008, dep. 31/03/2008, Rv. 239744, imp. Lucchese).

2.3.3.2 Manifestamente infondato risulta, altresì, anche il motivo di impugnazione relativo a pretese carenze motivazionali in merito all’esame delle censure sollevate nell’atto di appello con riferimento al diniego delle attenuanti generiche ed alla misura della pena inflitta al ricorrente.

Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, i giudici di appello hanno infatti proceduto ad una valutazione sul punto immune da vizi logici o giuridici, espressamente evidenziando che la obiettiva gravità del fatto contestato ed i precedenti penali ostavano all’accoglimento delle richieste dell’appellante sia in punto di concessione delle generiche che in punto di riduzione della pena inflitta dal primo giudice, ritenuta pienamente adeguata e congrua.

Tale pur concisa motivazione, deve ritenersi, infatti, del tutto conforme a principi ripetutamente affermati da questa Corte, secondo cui:

– ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (così ex multis Cass., sez. 2^, sentenza n. 2285 dell’11/10/2004 – 25/1/2005, riv. 230691 imp. Alba);

– l’obbligo della motivazione in ordine alla entità della pena irrogata deve ritenersi sufficientemente osservato, qualora il giudice dichiari di ritenere "adeguata" o "congrua" o "equa" la misura della pena applicata o ritenuta applicabile nel caso concreto, essendo la scelta di tali termini, infatti, sufficiente a far ritenere che il giudice abbia tenuto conto, intuitivamente e globalmente, di tutti gli elementi previsti dall’art. 133 c.p. (in tal senso, ex multis Cass., Sez. 6^, Sentenza n. 7251 del 24/5/1990, Rv. 184395).

2.3.4 Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000) – al versamento alla Cassa delle Ammende di una somma congruamente determinabile in Euro 1000,00. 2.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di C.R..

2.4.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto inammissibile l’appello proposto da C.R.M. avverso la sentenza di primo grado, che lo aveva ritenuto colpevole dei reati a lui contestati ai capi 3), 7), 8), 28) e 29) della rubrica, in quanto proposto tardivamente, il 13 gennaio 2008. 2.4.2 La decisione dei giudici di appello risulta fondarsi, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità, sulle seguenti considerazioni in fatto:

a) il tribunale, nel dispositivo della sentenza, letto il 1^ giugno 2007, con riferimento all’art. 544 c.p.p. che stabilisce i termini per la redazione della sentenza, aveva fissato un termine di 180 giorni per la stesura della motivazione;

b) il termine di 45 giorni per proporre impugnazione ex art. 585 c.p.p., comma 1, lett. c) – che per effetto di tale determinazione aveva iniziato a decorrere dal 28 novembre 2008 rectius 2007 – deve ritenersi scaduto il 12 gennaio 2008, il giorno prima dell’avvenuta deposito dell’atto di gravame da parte del C..

2.4.3 Nel ricorso, con l’unico articolato motivo di impugnazione proposto, si denunzia l’errata applicazione della legge penale.

La declaratoria d’inammissibilità dell’appello, si sostiene, risulta viziata da alcuni rilevanti errori, sia in fatto che in diritto, che riguardano:

a) l’individuazione del 28 novembre 2008 quale dies a quo, per il calcolo del termine per impugnare (giorni 45 dalla scadenza del termine per il deposito della motivazione), da ritenersi errata vuoi con riferimento all’indicazione dell’anno, da individuarsi semmai nel 2007; vuoi per il mancato computo della sospensione feriale dei termini processuali prevista dalla L. 7 ottobre 1968, n. 742, art. 2 ritenuta applicabile anche in relazione al termine di cui trattasi;

b) l’individuazione della data di deposito dell’atto di appello, in quanto tale atto, contrariamente a quanto affermato in sentenza, risulta depositato il 3 dicembre 2007 e non già il 13 gennaio 2008, e quindi tempestivamente.

2.4.4 L’impugnazione è fondata.

A prescindere dalla questione se anche il termine entro il quale il giudice è tenuto a redigere la motivazione della sentenza a norma dell’art. 544 c.p.p., comma 2 sia soggetto alla disciplina della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, questione rispetto alla quale nella giurisprudenza di questa Corte si registrano opinioni contrastanti (nel senso che a fronte di plurime pronunce in senso negativo, ex multis, Sez. 6^, Sentenza n. 178 del 5/11/1991, dep. il 10/01/1992, Rv. 189416, imp. Sannino, in senso difforme, si sono invece espresse, la sentenza n. 5193 del 22/3/1995, dep. il 9/05/1995, Rv. 201874, imp. Mancuso, di questa sezione, e quella della sez. 4^, 17 marzo 1992, imp. Lentini), risulta comunque preliminare e risolutivo il rilievo che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, l’atto di appello, come si evince dall’esame degli atti risulta depositato il 3 dicembre 2007, presso la cancelleria del Giudice di pace di Cassino, sicchè l’impugnazione deve ritenersi senz’altro tempestiva.

2.4.4.1 La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio nei confronti di C.R. e va disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Napoli per il giudizio di secondo grado.

2.5 L’impugnazione proposta nell’interesse di C.G..

2.5.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto C.G. colpevole:

a) di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso (capo 1 della rubrica), contestato come commesso nella provincia di Caserta fino al 2000, confermando sul punto la decisione di primo grado, appellata dall’imputato.

2.5.2 – Dopo aver illustrato sommariamente il contenuto delle decisione del tribunale, che sulla scorta delle plurime dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia, ha ritenuto provata l’appartenenza dell’imputato, al clan dei casalesi, e segnatamente al gruppo D.S. – Z. – Bi. – C.L., con funzioni di supporto nel settore imprenditoriale dell’edilizia, anche in considerazione della veste di tecnico comunale del comune di Lusciano dallo stesso ricoperta dal 1983, la Corte territoriale ha rigettato le argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, così motivando:

a) le dichiarazioni dei diversi collaboratori escussi risultano convergenti nell’attribuzione all’imputato di un ruolo peculiare all’interno dell’organizzazione camorristica, non ricoperto da alcun altro imprenditore;

b) la ricostruzione, in particolare, di tale rapporto con il clan da parte dei collaboratori risulta coerente con il legame esistente tra l’imputato e l’omonima famiglia di C.L., collegato a Ba.An. ed al geometra La., parente del D. S., indicativo di un pieno inserimento dell’attività imprenditoriale svolta dal prevenuto, "in un’orbita protettiva e di comune vantaggio economico";

c) elemento confermativo della piena attendibilità delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori, deve ritenersi, altresì, la precisa conoscenza dimostrata dagli stessi in merito all’esatta ubicazione della sede della ditta del C.G.; ai rapporti di cointeressenza esistenti tra l’imputato e l’ingegner I.M.; al legame economico stretto dallo stesso con alcune Imprese (la Ceramix, la Gallucci, la Lampo) pure espressione del clan e documentato, nonostante le negazioni dell’interessato, anche da precise risultanze documentali (sequestri di fatture); alle vicende relative all’aggiudicazione di alcuni appalti (fabbricato della cooperativa Ida; costruzione della casa comunale di Teverola;

palazzetto dello sport di Aversa);

d) le dichiarazioni dei collaboratori, hanno trovato adeguato riscontro anche nelle dichiarazioni dei testi escussi, ed in particolare nelle dichiarazioni del maresciallo Fi., non potendo di contro attribuirsi decisiva rilevanza alla circostanza che il D.S. non sia stato in grado di indicare le modalità con le quali l’imputato condizionava l’aggiudicazione degli appalti;

e) l’episodio riferito dal D’. circa la violenta "spedizione punitiva" posta in essere dal clan nei confronti di alcuni personaggi "aversani" colpevoli di aver formulato richieste estorsive nei confronti dell’impresa dell’imputato in occasione dell’esecuzione dei lavori della cooperativa Ida, oltre a collocarsi nell’ambito di un radicale scontro tra organizzazioni malavitose, deve certamente interpretarsi anche come conferma del particolare rapporto di protezione esistente tra il clan e l’imputato, da ricondursi senz’altro "nella categoria tipica dell’imprenditore colluso piuttosto che dell’imprenditore vittima", non potendo valorizzarsi, in tal senso, il dato rappresentato dal periodico versamento di somme al clan da parte dell’imputato, da ricondursi invece, ad avviso dei giudici di merito, proprio al peculiare rapporto di interdipendenza instaurato dall’imputato con il sodalizio, a cui doveva verosimilmente attribuirsi anche il progressivo dissesto economico subito dal C.G., significativamente appalesatosi, proprio in coincidenza degli incisivi interventi repressivi posti in essere nel 1996 nei confronti del clan dei casalesi che ne avevano indebolito la forza di intimidazione.

2.5.2 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di C.G., se ne chiede l’annullamento, sviluppando un unico articolato motivo d’impugnazione, con il quale si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla condanna per il delitto associativo ed altresì alla mancata concessione delle attenuanti generiche, avendo i giudici di appello valorizzato le generiche dichiarazioni accusatorie formulate dai collaboratori di giustizia senza sottoporle ad un adeguato ed attento vaglio critico, non emergendo dalle stesse elementi sufficienti per ritenere il C.G., un "imprenditore colluso" piuttosto che un "imprenditore estorto", anche in considerazione del numero limitato degli appalti (due) aggiudicati a ditte riconduciteli al C.G. in un lunghissimo periodo e la natura niente affatto illecita dei rapporti intrattenuti dall’imputato con la società Ceramix e gli imprenditori ga. e la..

2.5.3 L’impugnazione proposta nell’interesse di C.G. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata, con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.5.3.1 Quanto al primo motivo d’impugnazione prospettato in ricorso, valgono infatti le stesse considerazioni svolte in sede di trattazione dell’impugnazione proposta da A.S. (2.2). Ed invero tutte le argomentazioni svolte in ricorso dirette a denunziare, nelle loro poliformi articolazioni, la illegittimità della condanna del ricorrente relativamente ai reato associativo a lui contestato, si risolvono, se attentamente valutate, in censure in fatto, sia pure dedotte come violazione di legge.

Orbene al riguardo risulta preliminare ed assorbente il rilievo che non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio – solo sommariamente illustrato in questa sede al paragrafo 2.5.1 – sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. sentenza n. 41476 del 25/10/2005, imp. Misiano; Sez. Un. sentenza n. 6402 del 2.7.1997, imp. Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. sentenza n. 930 del 29.1.1996, imp. Clarke, rv. 203428).

Avendo i giudici di merito con motivazioni sintoniche, adeguate e plausibili, diffusamente illustrato le ragioni per cui le dichiarazioni dei collaboratori che accusavano il C.G. dovevano ritenersi attendibili e convergenti nel loro nucleo essenziale, non può allora fondatamente ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

A maggior ragione non può ravvisarsi una violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 2, perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie. Senza contare, per altro, che nella innovativa disciplina dell’art. 606 c.p.p., la mancanza di motivazione non può essere dedotta in Cassazione come inosservanza di una norma processuale stabilita a pena di nullità (Sez. Un., sentenza n. 41476 del 25/10/2005, imp. Misiano; Sez. Un., sentenza n. 5 del 24.4.1991, imp. Bruno, rv. 186998).

E del resto, quanto all’ulteriore rilievo difensivo secondo cui al C.G. non risulta contestato alcun "reato fine", va qui ribadito il principio, enunciato anche di recente da questa Corte, secondo cui la prova della partecipazione all’associazione, stante l’autonomia del reato associativo rispetto ai reati "fine", può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, sicchè non rileva, a tal fine, il fatto che l’imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati "fine" dell’associazione" (in termini, ex multis, Sez. 2^, Sentenza n. 24194 del 16/03/2010, dep. 23/06/2010, Rv, 247660, imp. Bilancia), e ciò in quanto "in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi" (così Sez. 1^, Sentenza n. 1470 del 11/12/2007, dep. 11/01/2008, Rv. 238838, imp. Addante).

2.5.3.2 Manifestamente infondato, deve ritenersi, infine, anche il secondo profilo di illegittimità della sentenza impugnata denunziato in ricorso, in quanto del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche la gravità della condotta, ritenuta dai giudici di appello in alcun modo attenuata dalla mera circostanza che il C.G. fosse comunque tenuto a versare somme al clan, trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

2.6 L’impugnazione proposta nell’interesse di D.V.R..

2.6.1 La Corte territoriale, accogliendo l’appello proposto dal Procuratore Generale della Repubblica di Napoli avverso la pronuncia di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 emessa dal giudice di primo grado, con la sentenza impugnata, ha ritenuto D. V.R. colpevole di concorso nel tentato omicidio in danno di Pi.Al. e T.M., aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 e delle connesse imputazioni relative all’utilizzazione di numerose armi, comuni da sparo e da guerra (capi 37 e 38 della rubrica), contestati come commessi in Cesa, l’11 febbraio 1992, condannandolo alla complessiva pena di anni sedici di reclusione.

2.6.1.1 La Corte territoriale, per quanto ancora rileva nel presente giudizio, ha precisato, in primo luogo, che anche il tribunale, pur prosciogliendo il D.V. dalle imputazioni di cui trattasi, non ha però dubitato, intanto, della veridicità del fatto storico oggetto delle propalazioni di numerosi collaboratori, ritenendo che l’omicidio era da iscriversi senz’altro nell’ambito della contrapposizione tra i diversi gruppi dell’organizzazione criminale, determinatasi dopo la morte di D.F.A. e la scissione dal comune sodalizio, del Q., a cui si unirono tra gli altri, D. T.A. ed il Pi.Al., l’obiettivo designato del fallito attentato, evidenziando, a riprova di tale assunto, come con riferimento a tali fatti delittuosi, nel presente giudizio, sia stata emessa pronuncia di condanna nei confronti "dei collaboratori confessi" D.S., D’. e Fr., avendo il giudice di prime cure ritenute pienamente attendibili ed adeguatamente riscontrate, quanto alle ammissioni di responsabilità, le dichiarazioni autoaccusatorie rese dai predetti.

2.6.1.2 Sommariamente illustrato il contenuto delle dichiarazioni rese dai collaboratori che hanno riferito in merito a tale episodio ( Fr., D’., D.S. e Bi.) i giudici di appello hanno ritenuto pienamente fondate le censure mosse dal PG alla pronuncia assolutoria, con riferimento, soprattutto, alla eccessiva rilevanza attribuita dal giudice di prime cure al criterio "numerico", alla circostanza, cioè, che soltanto due dei collaboratori escussi, il Fr. ed il D’., avevano riferito con certezza che il D.V. aveva partecipato al fallito attentato che intendeva colpire il Pi.Al., all’epoca sottoposto all’obbligo di firma presso la caserma dei Carabinieri di Cesa, nel momento in cui costui vi si sarebbe recato per ottemperare a tale prescrizione.

Secondo i giudici di appello, infatti, le considerazioni svolte dal giudice di prime cure, sull’obiettiva difficoltà dei collaboratori di ricordare "con esattezza ed in modo coincidente" le persone che hanno partecipato all’agguato, giustificando le rilevate discrasie con le modalità stesse dell’episodio, "caratterizzato da un rapido esaurimento, pur dopo la consistente predisposizione, sì da risultare un’operazione non memorabile" (il Pi.Al., unitamente al proprio accompagnatore, T.M., fu infatti tratto in arresto, ancor prima di giungere nelle vicinanze della Caserma, nei cui pressi il gruppo di fuoco era appostato, avendo trovato un valido punto di appoggio nell’abitazione di p.f., detto ba., ubicata a breve distanza), non valevano a delineare una condivisibile regola di giudizio, uniformandosi le stesse a parametri di valutazione della prova, estranei a quelli indicati dall’art. 192 c.p.p..

Al riguardo nella sentenza impugnata (pag. 187) si evidenzia, In particolare, che le dichiarazioni accusatorie del Fr. e del D’., significativamente convergenti nel segnalare la presenza del D.V. all’interno di una delle macchine utilizzate per la fuga, non appena ricevuta notizia dell’avvenuto arresto da alcuni complici che avevano assistito all’evento, dovevano ritenersi sufficienti per pervenire ad un giudizio di colpevolezza del predetto imputato, sia perchè confermate anche dalle dichiarazioni del D.S., il quale però non ne ricordava il nome di battesimo, sia anche perchè tali dichiarazioni accusatorie risultavano convergenti nell’indicazione del ruolo strategico ricoperto dal prevenuto nell’organizzazione dell’agguato, quale desumibile anche dalla circostanza che il ba., all’epoca dei fatti detenuto nel carcere di Lecce, era legato da antica amicizia al D.V., unitamente al quale era stato arrestato nel maggio 1989, e che l’odierno imputato era, in effetti, l’unico a conoscere l’esatta ubicazione della casa, utilizzata dal gruppo di fuoco.

2.6.1.3 Quanto poi all’entità della pena inflitta, legittimamente i giudici di appello, nel precisare che la personalità negativa dell’imputato quale desumibile dai fatti a lui contestati e dagli allarmanti precedenti penali anche per omicidio, precludeva la concessione delle attenuanti generiche, valutati tutti i criteri di cui all’art. 133 c.p., parametravano la misura della pena concretamente inflitta con riferimento anche alla pluralità delle vittime designate ed alla sussistenza della contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 2.6.2 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di D.V. R., se ne chiede l’annullamento, con o senza rinvio, sviluppando due motivi d’impugnazione.

2.6.2.1 Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla condanna per i fatti contestati.

Secondo il ricorrente, nella sentenza impugnata, manca infatti qualsiasi valutazione sia in merito all’attendibilità soggettiva del chiamate in correità, sia relativamente ai pur necessari elementi di riscontro oggettivo ed individualizzante, alle dichiarazioni accusatorie dei collaborati, avendo i giudici di appello, in particolare, illogicamente svalutato le pur significative discrepanze e contraddizioni ravvisate dal primo giudice, le quali avevano correttamente condotto al proscioglimento degli altri coimputati.

2.6.2.2 Con il secondo motivo, si denunzia la nullità della sentenza impugnata per vizio di motivazione, con riferimento sia alla ritenuta sussistenza dell’aggravante speciale, non avendo i giudici di appello indicato gli elementi in base ai quali ritenere che i fatti contestati siano riconducigli con certezza all’attività di un’associazione di tipo mafioso, sia relativamente alla mancata concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante ex art. 114 c.p. tenuto conto della non estrema gravità dei fatti e del "marginale contributo fornito dall’imputato alla realizzazione degli stessi". 2.6.3 L’impugnazione proposta nell’interesse di D.V. R. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.6.3.1 Quanto al primo motivo di impugnazione, il Collegio deve rilevare, infatti, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, che i giudici di appello – come si ricava anche dalla pur sintetica illustrazione del contenuto della sentenza impugnata svolto al paragrafo 2.6.1 – hanno dato conto dei motivi di impugnazione del Procuratore Generale che censuravano le soluzioni adottate dal giudice di primo grado ed hanno compiutamente argomentato sulle ragioni per cui tali censure dovevano ritenersi fondate.

In particolare, fermo restando che il principale elemento di prova a carico del ricorrente era costituito dalle dichiarazioni accusatorie ed etero accusatorie dei collaboratori di giustizia D.S., D’. e Fr., non coglie nel segno il rilievo difensivo secondo cui i giudici di appello avrebbero violato le regole in tema di valutazione delle chiamate in correità, procedendo ad una disamina superficiale ed acritica delle dichiarazioni rese dai predetti collaboratori di giustizia e degli altri propalanti che hanno riferito sull’episodio delittuoso. Ed invero i giudici di merito, in presenza di plurime e convergenti dichiarazioni che accusavano il D.V. di aver partecipato all’operazione diretta a colpire mortalmente il Pi.Al. ed il T., hanno proceduto a verificare, in primo luogo, se la chiamata in correità proveniente da diversi collaboratori fosse intrinsecamente attendibile, con riferimento alla sua genuinità, alla veridicità, alla spontaneità, alla costanza ed alla logica interna del racconto, e quindi ad accertare se la stessa fosse confortata da riscontri estrinseci ed obiettivi, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungevano il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità, complessivamente considerati e valutati, risultavano compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi; con ciò uniformandosi, in definitiva, a principi di diritto ormai consolidati enunciati da questa Corte in tema di valutazione della prova (si veda ex multis, Cass., sez. 6^ sentenza n. 661 del 7/12/1995 – 19/1/1996, ric. Agresta ed altro).

In linea con gli indicati principi, la Corte territoriale, in particolare, ha evidenziato, con motivazione adeguata e del tutto logica, che le dichiarazioni del D.S. e del Fr., in particolare, erano assolutamente convergenti nell’attribuire all’imputato un "ruolo strategico nell’organizzazione dell’agguato" in quanto l’unico dei partecipanti all’azione a conoscere l’abitazione del " ba.", persona a lui ben nota sin dal 1989, essendo stati entrambi accusati di un tentativo di estorsione dal Commissariato della Polizia di Stato di Aversa.

La stessa circostanza che analoga convergenza nelle dichiarazioni accusatorie non si sia registrata con riferimento all’identificazione degli ulteriori soggetti sospettati di aver partecipato all’operazione, rispetto ai quali la pronuncia assolutoria è stata quindi confermata, lungi dal costituire, di per sè, motivo sufficiente per dubitare dell’attendibilità soggettiva dei predetti collaboratori e ritenere contraddittoria la decisione impugnata, non fa che confermare, piuttosto, come non sia mancata da parte dei giudici di appello un’attenta disamina critica delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, pienamente rispettosa dei criteri di valutazione della prova; anche perchè, come più volte precisato da questa Corte, "in tema di chiamata di correo, è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie relative ad una parte del racconto, soprattutto quando i fatti narrati siano per lo più lontani nel tempo e si riferiscano ad una serie di episodi talora appresi non direttamente, ma solo in conseguenza delle rivelazioni degli autori materiali dei singoli reati" (in tal senso, ex multis, Sez. 6^, Sentenza n. 6425 del 18/12/2009, dep. il 17/02/2010, Rv. 246527, imp. Caramuscio).

Avendo i giudici di appello fornito adeguata e logica spiegazione in merito alle ragioni per cui le dichiarazioni accusatorie del D. V., dovevano ritenersi attendibili e positivamente riscontrate, si rivela quindi infondato l’assunto difensivo secondo cui gli stessi sarebbero pervenuti ad una pronuncia di condanna in assenza di una prova certa della responsabilità dell’imputato.

2.6.3.2 Manifestamente infondate si rivelano, infine, anche le deduzioni svolte in ricorso per censurare la decisione impugnata nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto sussistente l’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 e non concedibile l’attenuante di cui all’art. 114 c.p. e le attenuanti generiche.

Contrariamente a quanto genericamente sostenuto in ricorso, infatti, la Corte territoriale ha fornito una più che adeguata motivazione del punto, avendo evidenziato, in base a precise risultanze processuali, non adeguatamente confutate dal ricorrente, come l’episodio delittuoso a cui aveva partecipato il D.V. doveva ritenersi connesso ad esigenze di affermazione di supremazia sul territorio dei casalesi, insidiata dalla ribellione del Q. e dei suoi accoliti; che l’operazione di cui trattasi "comportò senza alcun dubbio la partecipazione di un numero di persone superiore a quello dei soggetti raggiunti da affermazione di responsabilità", che essendo, quindi, superiore a cinque, preclude, com’è noto, il riconoscimento dell’attenuante ex art. 114 c.p.; che la personalità del prevenuto, quale desumibile dal fatti a lui imputati e dai precedenti di estremo allarme anche per omicidio, precludevano la concessione delle attenuanti generiche.

2.7 L’Impugnazione proposta nell’interesse di D.E..

2.7.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto D.E. colpevole, unitamente al cognato S.F. di L., detto ce., ed a R.A., del reato (capo 52 della rubrica) di trasferimento fraudolento di valori – le quote di partecipazione ad un impresa operante nel settore del calcestruzzo, la Capys s.r.l. – fatto contestato come commesso nella provincia di Caserta dal 1992 ad oggi.

2.7.2 Con riferimento alla suddetta imputazione la Corte territoriale, dopo aver precisato che il concorso del D. nel reato, emergeva dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ( S.C., S.M., Fr.

D. e D.S.D.) – che nel corso del procedimento avevano riferito, tra l’altro, del collegamenti tra la predetta società ed altre imprese, dichiarate fallite e pure riferibili all’associazione (Internazionale Calcestruzzi; Sogeco); dalle dichiarazioni di U.N., amministratrice della società nel 1995, nipote di I.G. e da questi coinvolta nelle vicende societarie; dalle risultanze dell’attività investigativa espletata, con particolare riferimento al trattamento di favore riservato a tale impresa dall’amministrazione comunale di Santa Maria la Fossa – ha rigetto tutte le poliformi argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, dirette a contestare la attendibilità e rilevanza delle dichiarazioni dei collaboratori e la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, specie soggettivi, con riferimento alla pretesa finalità elusiva di eventuali misure di prevenzione reali della contestata intestazione fittizia delle quote, rilevando, in particolare, per quanto ancora specificamente rileva nel presente giudizio di legittimità, che il reato non poteva ritenersi prescritto, in quanto, di una dichiarazione di fallimento della Capys nel 1994 non si rinveniva notizia in atti; mentre al contrario i testi di P.G. avevano dato atto di mutamenti nella compagine societaria, intervenuti sino al luglio 2002 e risultando contestata la permanenza del reato sino al 2000. 2.7.3 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse del D., se ne chiede l’annullamento, sviluppando un unico motivo d’impugnazione, con il quale se ne denunzia l’illegittimità per violazione di legge e vizio di motivazione.

In particolare nel ricorso si evidenzia che la pronuncia di condanna del D. risulta viziata da una non approfondita valutazione della prova ed in specie di quella testimoniale, osservando al riguardo che all’udienza del 24 giugno 2005 il teste Mu.Ca., maresciallo della Guardia di Finanza, aveva riferito che la società Capys era stata dichiarata fallita nell’anno 1994.

Una valutazione più attenta della prova avrebbe quindi dovuto condurre al proscioglimento del ricorrente, essendo il reato a lui contestato estinto per prescrizione, fermo restando che, come precisato nella parte conclusiva del ricorso, "gli elementi posti a fondamento del giudizio di responsabilità" sono da considerarsi "assolutamente insoddisfacenti", fondandosi esso su di un "ragionamento induttivo quasi aprioristico". 2.7.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di D.E. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.7.4.1 Le argomentazioni, scarne ed apodittiche, svolte in ricorso per denunziare la illegittimità della condanna del ricorrente relativamente al reato di trasferimento fraudolento di valori a lui contestato, se pure prospettate come violazione di legge ovvero vizio della motivazione, si risolvono, invero, se valutate nel loro intrinseco contenuto, in censure in fatto.

Orbene al riguardo risulta preliminare ed assorbente il rilievo che non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio – solo sommariamente illustrato in questa sede al paragrafo 2.7.2 – sulla base delle allegazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. sentenza n. 41476 del 25/10/2005, imp. Misiano; Sez. Un. sentenza n. 6402 del 2.7.1997, imp. Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. sentenza n. 930 del 29.1.1996, imp. Clarke, rv. 203428).

Avendo i giudici di merito con motivazioni sintoniche, adeguate e plausibili, diffusamente illustrato le ragioni per cui le dichiarazioni dei collaboratori che accusavano il D. dovevano ritenersi attendibili e convergenti nel loro nucleo essenziale, non può allora fondatamente ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

A maggior ragione non può ravvisarsi una violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 2, perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie, precisando, in particolare, che non era stata fornita alcuna prova documentale del fallimento della Capys asseritamente dichiarato nel 1994, e quanto all’eccezione di prescrizione, fondata su tale circostanza in fatto non adeguatamente dimostrata, che la condotta contestata al D. si era protratta nel tempo, registrandosi dei mutamenti nella compagine dei soci sino al luglio 2002, data dell’accertamento del reato.

2.8 L’impugnazione proposta nell’interesse di M.G., Me.Gi. e M.M..

2.8.1 La Corte territoriale, accogliendo l’appello proposto dal Procuratore Generale della Repubblica di Napoli avverso la pronuncia di assoluzione emessa dai giudice di primo grado, ha ritenuto M.G. colpevole, unitamente ai fratelli M.M. e Me.Gi., ed in concorso, altresì, con C. A., deceduto, P.A. e C.R., dell’estorsione perpetrata in danno di Ca.Ga. e del fratello di questi Ca.An., aggravata D.Lgs. n. 152 del 1991, ex art. 7 (capo 29 della rubrica), delitto contestato come commesso in Grazzanise, in epoca antecedente e prossima al marzo 1991 e successiva al gennaio 1990, condannandolo, esclusa la possibilità di concessione delle attenuanti generiche per la gravità dei fatti, alla pena di anni otto di reclusione ed Euro 700,00 di multa.

2.8.2 Con riferimento alla suddetta imputazione la Corte territoriale, ha concisamente illustrato, in primo luogo, il contenuto delle propalazioni del C. all’origine della stessa, secondo cui essendosi il Ca.Ga., titolare di un’impresa edile, opposto all’invito rivoltogli dal P., vicesindaco del comune di Grazzanise, a non partecipare ad una gara di appalto indetta dall’ente – la quale, secondo una prassi per altro assolutamente consolidata, doveva essere vinta, invece, dall’Impresa di cui era titolare, formalmente, il solo M.G. ma riconducibile, in realtà, anche ai suoi fratelli M.M. e Me.Gi., cugini di M.A., altro imputato di questo processo, la cui posizione è stata però stralciata, ed il Me.Gi., altresì, "compare d’anello" di C. A., esponente di rilievo del clan dei casalesi – era stato condotto al cospetto dell’omonimo malavitoso e nuovamente invitato a non partecipare alla gara, nella prospettiva di future assegnazioni di lavori, venendo, nell’occasione, anche schiaffeggiato, a ragione di una risposta poco rispettosa, avendo l’imprenditore affermato di aderire sì alla richiesta, ma solo e soltanto perchè impegnato nell’esecuzione di altri lavori.

La Corte territoriale ha precisato, in particolare, che tali dichiarazioni avevano trovato "piena conferma", quanto alla descrizione del modus operandi della così detta "banda dei lavori", nelle risultanze di una perizia grafologica da cui emergeva la riconducibilità ad una identica mano di offerte formalmente concorrenziali; quanto allo specifico episodio dell’intimidazione del Ca.Ge., nelle dichiarazioni confermative rese dalla stessa persona offesa.

Orbene tali emergenze istruttorie, unitamente al dato che la ditta dei M. si era aggiudicata la quasi totalità dei lavori appaltati dal Comune e che il P. risulta condannato, in via definitiva, per partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso unitamente al C. per una condotta posta in essere dagli anni 1986-87 e fino al 1998 nonchè per delitti di estorsione, confermavano, secondo i giudici d’appello, "l’effettiva esistenza del sistema, che non consentiva intromissioni, convergendo tutti gli elementi nel senso di descrivere un meccanismo di chiara impronta camorristica che attraverso le infiltrazioni nell’apparato comunale e la minaccia operata sul territorio è in grado di controllare un settore della pubblica amministrazione e di attribuirsi i profitti ricavabili dalla manipolazione dei meccanismi burocratici e l’intimidazione degli avversari".

Tale presupposto, in particolare, implica – ad avviso dei giudici di appello – "la necessaria condivisione di intenti e modalità operative di tutti i rappresentanti delle diverse componenti dell’indicato sistema onde pervenire al risultato programmato, non potendosi ragionevolmente ipotizzare, anche per la conclamata qualità dei personaggi coinvolti, una inconsapevolezza da parte di qualcuno o la necessità che di volta in volta venissero precisate le procedure di attuazione; considerazione questa ritenuta sicuramente valida anche per il Me.Gi., non solo perchè formalmente titolare dell’impresa e per il riferito rapporto di "comparaggio" con il C., ma anche perchè lo stesso, per sua stessa ammissione, era pienamente impegnato nella attività di gestione della stessa nonchè a ragione dell’atteggiamento ostile assunto dallo stesso e dal fratello M.M. nel confronti di D. D.P.A., cognato di C.R., a seguito della scelta collaborativa intrapresa dal congiunto.

2.8.3 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione Impugnata, nel ricorso proposto congiuntamente nell’interesse del M.G., e dei suoi fratelli Me.Gi. e M. M., se ne chiede l’annullamento, sviluppando tre motivi d’impugnazione.

2.8.3.1 Con il primo motivo, proposto esclusivamente nell’interesse di Me.Gi. ed oggetto, altresì, anche di apposita memoria difensiva, si denuncia violazione di legge con riferimento all’art. 414 c.p.p. nonchè vizio di motivazione, evidenziandosi al riguardo:

a) che Me.Gi. era stato già indagato in passato per gli stessi fatti di cui oggi è processo, con procedimenti tutti conclusi con decreto di archiviazione; b) che non vi era stata alcuna autorizzazione alla riapertura delle indagini nei suoi confronti; c) che il decreto emesso dal GIP il 22 giugno 2001, autorizzava la riapertura delle indagini, conformemente per altro alla richiesta del PM, esclusivamente nei confronti di M.G., e di altri due indagati; d) che la mancata emissione di un provvedimento autorizzativo rendeva improcedibile l’azione penale; e) che sebbene l’eccezione di improcedibilità fosse stata eccepita nel giudizio di primo grado, con memoria difensiva depositata il 30 marzo 2007, i giudici di appello avevano ignorato completamente la questione, omettendo di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale nei confronti del ricorrente o quanto meno l’inutilizzabilità di tutti gli atti svolti in assenza di un provvedimento di riapertura delle indagini eventualmente confluiti nel fascicolo del dibattimento.

2.8.3.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione della legge penale ( artt. 629 e 353 c.p.) e vizio di motivazione, con riferimento all’erronea qualificazione giuridica dei fatti per cui è causa, riconducigli, a tutto concedere, all’ipotesi della turbata libertà degli incanti.

2.8.3.3 Con il terzo motivo, si denuncia, infine, violazione di legge con riferimento all’art. 133 c.p. e vizio di motivazione, in ordine al trattamento sanzionatorio, specificandosi, sul punto, che le attenuanti generiche sono state negate in base ad un generico riferimento alla gravità dei fatti ed ai criteri di valutazione di cui all’art. 133 c.p., senza fornire alcuna ulteriore specifica motivazione e senza considerare in alcun modo l’intensità del dolo, l’epoca di commissione, risalente nel tempo (1990-91), l’avvenuta recisione da parte dell’imputato, medio tempore, di qualsiasi legame con personaggi malavitosi legati al sodalizio criminale di cui è processo.

2.8.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di M.G., Me.Gi. e M.M. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.8.4.1 Quanto al primo motivo, proposto nell’interesse del solo Me.Gi., va rilevato, preliminarmente ed in via assorbente, che il ricorso, per quanto integrato da apposita memoria difensiva, difetta in proposito del requisito dell’autosufficienza.

Ed invero, la mancata allegazione del provvedimento emesso il 22 giugno 2001 che si deduce abbia disposto l’archiviazione del procedimento penale promosso nei confronti di Me.Gi. e la circostanza che l’eccezione relativa alla mancanza di un’autorizzazione alla riapertura dell’indagine nei confronti di M.G. risulta sollevata nel presente giudizio di legittimità ma non anche in quello d’appello, impedisce di accertare se il succitato decreto si riferiva, in effetti, ad un procedimento promosso dal medesimo ufficio del Pubblico Ministero e se lo stesso riguardava lo stesso fatto di cui trattasi, dati questi pure assolutamente rilevanti, ove si consideri che in tema di riapertura delle indagini dopo l’archiviazione, l’inutilizzabilità prevista per gli atti compiuti senza previa autorizzazione non preclude l’esercizio dell’azione penale da parte di un ufficio che non aveva in precedenza richiesto l’archiviazione della notizia di reato (in termini ex multis, Sez. 1^, Ordinanza n. 4536 del 20/01/2005, dep. 08/02/2005 Rv. 231491, imp. Guadalupi).

2.8.4.2 Infondato deve ritenersi anche il secondo motivo.

Al riguardo il Collegio deve rilevare, infatti, che contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, i giudici di appello – come si ricava anche dalla pur sintetica illustrazione del contenuto della sentenza impugnata svolto al paragrafo 2.8.2 – hanno dato conto dei motivi di impugnazione del Procuratore Generale che censuravano le soluzioni adottate dal giudice di primo grado ed hanno compiutamente argomentato sulle ragioni per cui tali censure dovevano ritenersi fondate.

In particolare, incontestato il dato fattuale dell’esercizio di indebite pressioni sull’imprenditore Ca.An. affinchè lo stesso si astenesse dal partecipare ad una gare per l’assegnazione di lavori poi aggiudicata all’impresa dei fratelli M., non coglie nel segno il rilievo difensivo secondo cui i giudici di appello nell’affermare una responsabilità dei ricorrenti in tale attività illecita avrebbero violato le regole in tema di valutazione delle prove, procedendo ad una disamina superficiale ed acritica delle risultanze processuali.

Ed invero i giudici di appello, acclarata, anche in base alle dichiarazioni della persona offesa, l’effettività dell’azione Intimidatoria esercita sull’imprenditore Ca.An. ed accertata giudizialmente la sicura responsabilità per tale episodio delittuoso del collaboratore C. e del coimputato P., hanno ritenuto altresì innegabile il coinvolgimento nell’episodio delittuoso anche dei fratelli M. in base ad un percorso motivazionale assolutamente logico e plausibile, e per ciò incensurabile in sede di legittimità, che oltre ad elementi di tipo logico, ravvisati essenzialmente nella circostanza che gli stessi erano i diretti beneficiari dell’attività illecita di cui trattasi, ha valorizzato anche l’ulteriore significativo dato fattuale rappresentato dal coinvolgimento preventivo ed incondizionato dei ricorrenti nel sistema di aggiudicazione ed esecuzione degli appalti, quale desumibile oltre che dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e dalla perizia calligrafica condotta sulla paternità delle varie domande di partecipazione alla gara, anche dal mutato atteggiamento di M.M. nei confronti di D.D. A., cognato di C.R., una volta appreso il "pentimento" del congiunto.

In presenza di un siffatto articolato e logico apparato motivazionale, pienamente conforme, oltretutto, a consolidati principi di diritto, secondo cui "la prova della partecipazione all’ideazione ed alla programmazione del fatto delittuoso secondo le modalità che ne hanno caratterizzato l’esecuzione, può essere desunta in via logica dalla pluralità di elementi probatori e indiziari che, proiettandosi sull’intero arco dell’impresa criminosa, denotino il ruolo non secondario svolto dall’imputato" (in tal senso, Sez. 1^, Sentenza n. 10211 del 25/09/1992, dep. 23/10/1992, Rv.

192293, imp. Fossole), le argomentazioni difensive volte a censurare l’attendibilità e coerenza degli elementi di prova a carico degli indagati, si risolvono, in definitiva, nella richiesta di una "rivalutazione", in senso più favorevole agli imputati, delle risultanze processuali, non consentita a questa Corte di legittimità. 2.8.4.3 Infondato deve ritenersi anche il terzo motivo d’impugnazione dedotto in ricorso, dovendo rilevarsi, al riguardo, come nella giurisprudenza di questa Corte risulti ormai prevalente – in piena sintonia, d’altra parte, con la dottrina espressasi sul punto – l’orientamento, al quale questo Collegio non intende discostarsi, condividendolo pienamente, secondo cui i delitti di estorsione e quello di turbata libertà degli incanti, previsti, rispettivamente, dagli artt. 629 e 353 c.p., possono concorrere formalmente, in quanto le due norme hanno diversa obiettività giuridica, tutelando la prima il patrimonio, attraverso la repressione di atti diretti a coartare la libertà di autodeterminazione del soggetto negli atti di disposizione patrimoniale e la seconda la libera formazione delle offerte nei pubblici incanti e nelle licitazioni private (in tal senso, da ultimo, Sez. 2^, Sentenza n. 13505 del 13/03/2008, dep. il 31/03/2008, Rv. 239794, imp. Gennaro).

2.8.4.4 Infondato risulta, infine, anche l’ultimo motivo d’impugnazione relativo al trattamento sanzionatolo ed al diniego delle attenuanti generiche, in quanto del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche la gravità della condotta, trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

Tale pur concisa motivazione, deve ritenersi, infatti, del tutto conforme a principi ripetutamele affermati da questa Corte, secondo cui:

– ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (così ex multis Cass., sez. 2^, sentenza n. 2285 dell’11/10/2004 – 25/1/2005, riv.

230691,imp. Alba);

– l’obbligo della motivazione in ordine alla entità della pena irrogata deve ritenersi sufficientemente osservato, qualora il giudice dichiari – come avvenuto nel caso di specie – di ritenere "adeguata" o "congrua" o "equa" la misura della pena applicata o ritenuta applicabile nel caso concreto, essendo la scelta di tali termini, infatti, sufficiente a far ritenere che il giudice abbia tenuto conto, intuitivamente e globalmente, di tutti gli elementi previsti dall’art. 133 c.p. (in tal senso, ex multis Cass., Sez. 6^, Sentenza n. 7251 del 24/5/1990, Rv. 184395).

2.9 L’impugnazione proposta nell’interesse di Mi.Gu..

2.9.1 La Corte territoriale, con la sentenza Impugnata, ha ritenuto Mi.Gu. colpevole di concorso in tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche da parte dell’Aima-Eima- Agea (capo 34 della rubrica), contestato come commesso nella provincia di Caserta e su tutto il territorio nazionale fino al 2000, confermando sul punto la pronuncia di condanna appellata dall’imputato, rideterminando per altro la pena inflittagli, anche in considerazione della estinzione per prescrizione dell’ulteriore analogo reato (capo 33 della rubrica), per il quale, pure, era intervenuta condanna nel giudizio di primo grado.

2.9.2 Con riferimento alla suddetta imputazione – che nella sua formulazione originaria e complessiva faceva riferimento a n. 293 "domande di compensazione al reddito per i produttori di grano e cereali" – la Corte territoriale, dopo aver precisato che il Mi. doveva rispondere con riferimento alle domande di compensazione di cui ai punti n. 283, 285 286 della rubrica – sottoscritte rispettivamente da P.A., A.M. e D. V.A. – ha rigetto le argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, così motivando:

– depongono per la sussistenza del reato ed il pieno coinvolgimento nello stesso dell’imputato, con funzioni rilevanti: in generale, le dichiarazioni del F. e quelle convergenti, anche se sintetiche, del C.; il ritrovamento presso il Mi., infedele dipendente del locale catasto, di numerose pratiche (quantomeno 19), di visure catastali e di varia documentazione anche in bianco; la vicinanza dell’imputato al clan camorristico, esplicatasi, tra l’altro, nell’intestazione fittizia di beni appartenenti al capo clan e nell’ospitalità offerta ad affiliati latitanti; b) con riferimento agli specifici episodi contestati, anche le competenze professionali e il grado di istruzione conseguito rispetto agli altri concorrenti nel reato, che consentivano all’imputato di individuare correttamente, senza incorrere in eventuali duplicazioni, le particelle catastali del terreni e di seguire l’iter burocratico delle pratiche; dovendo considerarsi ininfluente ai fini dell’apprezzamento dell’attendibilità delle dichiarazioni del F. – secondo cui la perpetrazione delle truffe comunitarie costituiva uno dei canali di autofinanziamento del sodalizio – il mancato riconoscimento personale del D., indicato come colui che soprintendeva a tale attività, costituendo tale circostanza, ad avviso dei giudici di appello, semmai, un elemento indicativo della "sincerità" delle dichiarazioni del suddetto collaboratore;

– la falsa indicazione della riferibilità agli istanti delle particelle di terreno indicate nelle domande, deve ritenersi già di per sè circostanza sufficiente ad integrare la contestata condotta truffaldina, a prescindere dalla veridicità o meno del dato relativo all’effettuazione delle coltivazioni indicate nelle domande, il cui accertamento, pertanto, deve considerarsi del tutto irrilevante;

– la presenza dell’aggravante speciale, pur qualificandosi la condotta contestata all’imputato come tentativo, escludeva la prescrizione del reato, sia in base alla normativa vigente all’epoca dei fatti, sia in base a quella novellata.

2.9.3 – Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse del Mi., se ne chiede l’annullamento, sviluppando due motivi d’impugnazione.

2.9.3.1 Con il primo motivo si denuncia vizio della motivazione, in relazione all’art. 192 c.p.p. e travisamento della prova, con riferimento sia al ritenuto concorso dell’imputato nel reato di cui all’art. 640 bis c.p., sia all’affermata sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 presentando l’impianto motivazionale molteplici e significative discrasie, già segnalate nell’atto di appello e rimaste sostanzialmente senza adeguata risposta.

2.9.3.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge, sempre in relazione alla condanna per il reato di cui al capo 84) rectius 34 della rubrica, sotto il profilo del mancato accoglimento della eccezione di prescrizione, non avendo i giudici di merito adeguatamente valutato che trattandosi di tentativo occorreva far riferimento al momento in cui la condotta contestata si era esaurita, da identificarsi, nel caso in esame, con la presentazione della domanda di compensazione (anni 1994-95) e non già con riferimento all’indicazione riportata in rubrica (fino all’anno 2000), ritenuta incongrua.

2.9.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di Mi.Gu. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.9.4.1 Quanto al primo motivo, valgono le considerazioni esposte con riferimento al coimputato A.M..

Infondate devono ritenersi, infatti, tutte le deduzioni difensive sviluppate nel primo motivo d’impugnazione, dirette a denunziare la illegittimità della condanna del ricorrente per il delitto contestato al capo 34) della rubrica, risolvendosi le stesse, per un verso, in una sostanziale riproposizione di argomentazioni difensive già disattese dai giudici di merito con motivazioni plausibili ed aderenti alle risultanze processuali, per l’altro, in deduzioni in fatto inverosimili o comunque non verificate.

In particolare i giudici di appello hanno compiutamente illustrato le ragioni per cui le dichiarazioni del F., anche autoaccusatorie ("ho firmato a ignoti"), dovevano ritenersi attendibili malgrado il mancato riconoscimento del D.L.;

hanno valorizzato, quali riscontri delle propalazioni del collaboratore, non soltanto le dichiarazioni del C. ma circostanze fattuali quanto mai significative, come il ritrovamento presso l’abitazione del Mi. di numerose domande di rimborso, anche in bianco e di plurime visure catastali, elementi che confermavano la centralità del ruolo ricoperto dallo stesso nell’ambito dell’attività truffaldina svolta dal clan camorristico ai danni dell’Aima – Eima – Agea; hanno rimarcato la particolare vicinanza al clan del ricorrente estrinsecatasi anche nel fattivo aiuto prestato ai latitanti. Nè hanno pregio le deduzioni svolte in ricorso volte a contestare le finalità agevolatorie dell’associazione della specifica condotta delittuosa di cui trattasi, deponendo in tal senso, oltre il dato del ritrovamento delle pratiche presso il Mi., le dichiarazioni in tal senso del F. e del C., laddove la deduzione difensiva relativa all’assenza di prove in merito a versamenti eseguiti dall’imputato in favore del clan, non considerano adeguatamente che all’imputato si contesta il concorso in una truffa tentata e non già consumata.

2.9.4.2 Quanto poi alla riproposizione in questa sede dell’eccezione di prescrizione, deve rilevarsi che le censure prospettate in ricorso sul punto si rivelano del tutto generiche, avendo i giudici di appello correttamente precisato che la condotta contestata all’imputato era cessata nel 2000 e che la sussistenza dell’aggravante speciale ( D.L. n. 152 del 1991, art. 7), laddove la deduzione secondo cui l’attività delittuosa contestata sarebbe cessata, al più tardi, negli anni 1994-95 non risulta fondata su precise e verificabili allegazioni.

2.10 L’impugnazione proposta nell’interesse di N.C..

2.10.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto N.C., di professione infermiere, colpevole sia del reato associativo (capo 1 della rubrica), contestato come commesso nella provincia di Caserta e su tutto il territorio nazionale fino al 2000; sia di concorso in violenza privata aggravata in danno di Bu.Fr. (capo 7 della rubrica), contestato come commesso in Capua sino al 23 ottobre 2000, confermando con riferimento a tali imputazioni la decisione di primo grado, appellata dall’imputato.

2.10.2 Dopo aver illustrato il contenuto delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori F. e C. – dalle quali emergeva, quanto al reato assoclativo, come il N., a ragione del rapporto d’amicizia intrattenuto dapprima con Ca.

A. e dopo l’omicidio di questi, con M.A., era ritenuto "persona vicina al clan", nel cui interesse aveva svolto compiti di assistenza logistica (staffetta, autista), aveva acquistato schede e telefonini, nonchè interventi per soffocare agitazioni sindacali in corso presso strutture sanitarie di diretto interesse del sodalizio; ospitato una riunione tra esponenti del clan e l’imprenditore lo., per l’ottenimento di un appalto;

quanto all’episodio di violenza privata, come l’imputato su richiesta di D.V.C., affiliato al clan dei casalesi, si sia adoperato affinchè il Bu.Fr., ricoverato nell’ospedale dove lavorava il N. a seguito dell’aggressione subita ad opera del D.V., autorevole esponente del clan, non sporgesse denuncia nei confronti del predetto – la Corte territoriale, a confutazione delle poliformi argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello e per quanto ancora rileva nel presente giudizio, ha così motivato:

a) le dichiarazioni accusatorie relative al N., risultano specifiche, articolate, circostanziate e ricche di riscontri individualizzanti dichiarazioni di Gr.Ro., cognata di M.A., quanto all’intervento svolto sul personale paramedico di Villa Fiorita; rinvenimento di cellulari intestati all’imputato, nell’ambito di un’operazione diretta a rintracciare il latitante M.A., in contatto con l’imputato per il tramite di un sodale (Nobis); sentenza di applicazione di pena detentiva, con riferimento all’episodio lo.; reticenti dichiarazioni del Bu.Fr., comunque ammissive del fatto storico delle lesioni subite;

b) tali propalazioni, seppure intervenute, quanto al F., in un momento successivo all’inizio del rapporto di collaborazione, dovevano ritenersi attendibili in quanto non ispirate da intenti calunniosi ovvero da particolare zelo accusatorio, atteso anche il loro intrinseco tenore che non delineano la figura del N. come quella di un concorrente di rilevante spessore;

c) le stesse, tra loro convergenti, riferivano di condotte di sicura rilevanza delinquenziale, indicative di un rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il sodalizio, tale da integrare pienamente la condotta del partecipe ad associazione per delinquere, quale delineata anche dalla più recente giurisprudenza di questa Corte (Sez. 1^, Sentenza n. 1470 del 11/12/2007,dep. 11/01/2008, Rv.

238838, imp. Addante);

d) non risulta prescritto il reato contestato al capo 7, tenuto conto della data di commissione, dovendo il termine massimo essere individuato in anni quindici alla luce sia della disciplina vigente all’epoca dei fatti che per quella novellata dalla L. n. 251 del 2005 (per quest’ultima, escluso l’aumento per l’aggravante ordinaria e tenuto conto del raddoppio disposto dall’art. 157 c.p., comma 6 la prescrizione ordinaria è di anni dodici, aumentata di un quarto). e) la pena inflitta in primo grado per entrambi i reati deve ritenersi adeguata, tenuto conto delle modalità e della durata della condotta associativa e dell’aumento apportato per la continuazione, non ravvisandosi nella vicenda e nella personalità dell’imputato alcuna circostanza tale da esigere una "più incisiva particolare considerazione ai fini della quantificazione della pena". 2.10.3 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di N.C., se ne chiede l’annullamento, sviluppando sei motivi d’impugnazione.

2.10.3.1 Con il primo articolato motivo, si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione all’art. 416 bis c.p. e art. 192 c.p.p., avendo i giudici di appello violato le regole in tema di valutazione delle chiamate in correità dei collaboratori di giustizia che accusavano l’imputato, rilevatesi prive di autonomia e di significativi elementi di riscontro.

2.10.3.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione all’art. 378 c.p., con riferimento al mancato accoglimento della richiesta, formulata nei motivi di appello, di riqualificazione in termini di favoreggiamento della condotta contestata al ricorrente.

2.10.3.3 Con il terzo motivo, si denuncia, ancora, violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione all’art. 610 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7. 2.10.3.4 Con il quarto motivo, si denuncia, altresì, violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione al rigetto dell’eccezione di prescrizione del reato di violenza privata aggravata, attesa l’erroneità del calcolo in anni quindici del "nuovo" termine di prescrizione, determinato operando illegittimamente, per due volte, un aumento del termine ordinario, una prima volta, ex art. 157 c.p., comma 4 ed una seconda volta di un quarto per l’aggravante speciale L. n. 203 del 1991, ex art. 7 eventualità questa che gli artt. 160 e 161 c.p. escludono espressamente.

2.10.3.5 Con il quinto motivo si denunzia violazione di legge e difetto assoluto di motivazione, con riferimento alla richiesta, pure formulata nell’atto di appello, di applicare, in caso di conferma della condanna, la disciplina del reato continuato tra i fatti di cui è processo e quelli relativi all’estorsione in danno del lo., oggetto di altro procedimento definito con sentenza di applicazione pena su richiesta.

2.10.3.6 Con il sesto ed ultimo motivo si denunzia, infine, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 62 bis c.p., specificandosi al riguardo che le attenuanti generiche sono state negate senza fornire alcuna specifica e comprensibile motivazione.

2.10.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di N.C. è fondata nei limiti meglio precisati in prosieguo.

2.10.4.1 Quanto ai primi due motivi d’impugnazione dedotti, tra loro strettamente connessi, ne va rilevata l’infondatezza. Ed invero tutte le deduzioni difensive dirette a censurare, nelle loro poliformi articolazioni, la condanna del ricorrente per il reato associativo con particolare riferimento alla valutazione delle risultanze processuali, non colgono nel segno. Al riguardo il Collegio deve infatti rilevare, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, che i giudici di appello – come si ricava anche dalla pur sintetica illustrazione del contenuto della sentenza impugnata svolta al paragrafo 2.10.2 – hanno dato conto adeguatamente dei motivi di impugnazione avverso la condanna per il reato associativo deliberata dal giudice di primo grado ed hanno compiutamente argomentato sulle ragioni per cui tali censure dovevano ritenersi infondate.

In particolare, fermo restando che il principale anche se non esclusivo elemento di prova a carico del ricorrente era costituito dalle dichiarazioni accusatorie ed etera accusatorie del F. G. e del C., non coglie nel segno il rilievo difensivo secondo cui i giudici di appello avrebbero violato le regole in tema di valutazione delle chiamate in correità, procedendo ad una disamina superficiale ed acritica delle dichiarazioni rese dai predetti collaboratori di giustizia e degli elementi di riscontro delle stesse.

Ed invero i giudici di merito, in presenza di plurime e convergenti dichiarazioni che accusavano il N. di aver svolto compiti di assistenza logistica, con mansioni di staffetta o di autista ed ospitando tra l’altro nella propria abitazione riunioni operative tra esponenti del clan nonchè acquistando schede telefoniche e apparecchi cellulari per conto del sodalizio criminale, hanno proceduto a verificare, in primo luogo, se la chiamata in correità proveniente dal F. e dal C., avuto riguardo in particolare al momento della genesi della collaborazione, fosse intrinsecamente attendibile, con riferimento alla sua genuinità, alla veridicità, alla spontaneità, alla costanza ed alla logica interna del racconto, e quindi ad accertare se la stessa fosse confortata da riscontri estrinseci ed obiettivi, cioè da fatti storici che, se anche da soli non raggiungevano il valore di prova autonoma di responsabilità del chiamato in correità, complessivamente considerati e valutati, risultavano compatibili con la chiamata in correità e di questa rafforzativi; con ciò uniformandosi, in definitiva, a principi di diritto ormai consolidati enunciati da questa Corte in tema di valutazione della prova (si veda ex multis, Cass., sez. 6^ sentenza n. 661 del 7/12/1995 – 19/1/1996, ric. Agresta ed altro).

In linea con gli indicati principi, la Corte territoriale, in particolare, ha evidenziato, con motivazione adeguata e del tutto logica, che le dichiarazioni del F. e del C., erano assolutamente convergenti nel delineare il N. come un soggetto a "disposizione del clan" sempre pronto a svolgere gli incarichi a lui affidati e che le stesse, sul punto, avevano trovato numerosi e significativi riscontri, tra cui particolare rilevanza assumevano le dichiarazioni della Gr. quanto all’intervento svolto dall’imputato sul personale paramedico di Villa Fiorita.

Avendo i giudici di appello fornito adeguata e logica spiegazione in merito alle ragioni per cui le dichiarazioni accusatorie dei collaboratori dovevano ritenersi attendibili e positivamente riscontrate, si rivela quindi infondato l’assunto difensivo secondo cui gli stessi sarebbero pervenuti ad una pronuncia di condanna in assenza di una prova certa della responsabilità dell’imputato ed in difetto di precise indicazioni circa l’apporto, stabile e protratto nel tempo, in concreto fornito dall’Imputato al sodalizio criminale, la cui condotta sarebbe semmai riconducibile alla diversa ipotesi delittuosa del favoreggiamento personale, uniformandosi invero la decisione sul punto a consolidati e condivisibili principi di diritto enunciati da questa Corte, secondo cui il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento, in quanto nel primo, come si è accertato sia avvenuto nel caso in esame, il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, mentre nel secondo egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell’attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa (in termini, ex multis, Sez. 6^, Sentenza n. 40966 del 08/10/2008, dep. 31/10/2008, Rv. 241701, imp. Pillar).

2.10.4.2 Fondati si rivelano, invece, i motivi d’impugnazione (il terzo, il cui accoglimento ha carattere assorbente rispetto all’esame del quarto ed il quinto) concernenti, rispettivamente l’affermazione di responsabilità del ricorrente anche relativamente all’episodio di violenza privata in danno di Bu.Fr. ed al mancato riconoscimento, in caso di conferma della condanna, del vincolo della continuazione tra i fatti contestati e quelli relativi all’imposizione di un subappalto all’imprenditore lo., episodio già oggetto di sentenza irrevocabile di applicazione pena.

Ed invero, premesso che nei motivi di appello la difesa del Napoletano aveva censurato la sentenza di primo grado, con riferimento alla condanna per il reato contestato al capo 7, evidenziando, per un verso, che di un coinvolgimento del ricorrente nella vicenda aveva riferito il solo C. e, per altro verso, che le dichiarazioni accusatorie del predetto collaboratore, invero generiche nella descrizione della condotta concretamente posta in essere dall’imputato, erano prive di adeguati riscontri individualizzanti, tali non potendosi ritenere la circostanza che il ricorrente lavorava nell’ospedale dove il Bu.Fr. fu medicato, in quanto colpito al capo con il calcio di una pistola da D.V.C., questo Collegio deve rilevare come, in effetti, i giudici di appello non risultano aver fornito adeguata e logica risposta alle censure difensive, essendosi limitati ad osservare, sul punto, che "l’episodio del Bu.Fr." era "assolutamente provato nella sua storicità", da ciò inferendo, senza fornire ulteriori precisazione e per ciò del tutto incongruamente, che "la reticenza della persona offesa" costituiva "di per sè positivo elemento di conferma di un’attività di pressione esercitata sullo stesso".

Nessuna specifica argomentazione risulta inoltre addotta dai giudici di merito, relativamente alla richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti contestati al N. nel presente giudizio ed il reato allo stesso contestato in altro procedimento ed oggetto di sentenza già irrevocabile.

2.10.4.3 In presenza di tali rilevanti lacune motivazionali, s’impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al capo 7 ed alla continuazione, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

2.11 L’Impugnazione proposta nell’interesse di P.A..

2.11.1 La Corte territoriale, accogliendo l’appello proposto dal Procuratore Generale della Repubblica di Napoli avverso la pronuncia di assoluzione emessa dal giudice di primo grado, ha ritenuto P. A. colpevole, unitamente ai fratelli M.M., M.G. e Me.Gi., ed in concorso, altresì, con Ca.An., deceduto, e C.R., dell’estorsione perpetrata in danno di Ca.Ga. e del fratello di questi Ca.An., aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 (capo 29 della rubrica), reato contestato come commesso in Grazzanise, in epoca antecedente e prossima al marzo 1991 e successiva al gennaio 1990, condannandolo, esclusa la possibilità di concessione delle attenuanti generiche per la gravità dei fatti, alla pena di anni otto di reclusione ed Euro 700,00 di multa.

2.11.2 Con riferimento alla suddetta imputazione la Corte territoriale, ha concisamente illustrato, in primo luogo, il contenuto delle propalazioni del C. all’origine della stessa, secondo cui essendosi il Ca.Ga., titolare di un’impresa edile, opposto all’invito rivoltogli dal P., vicesindaco del comune di Grazzanise, a non partecipare ad una gara di appalto indetta dall’ente – la quale, secondo una prassi per altro assolutamente consolidata, doveva essere vinta, invece, dall’impresa di cui era titolare, formalmente, il solo M.G. ma riconducibile, in realtà, anche ai suoi fratelli M.M. e Me.Gi., cugini di M.A. ed il M. G., altresì "compare d’anello" di Ca.An., esponente di rilievo del clan dei casalesi – era stato condotto al cospetto dell’omonimo malavitoso, informato dal P. del suo rifiuto, e nuovamente invitato a non partecipare alla gara, nella prospettiva di future assegnazioni di lavori, venendo, nell’occasione, anche schiaffeggiato, a ragione di una risposta poco rispettosa fornita nell’occasione, avendo la persona offesa affermato di aderire sì alla richiesta, ma solo e soltanto perchè impegnato nell’esecuzione di altri lavori.

Ha precisato in particolare la Corte territoriale, che tali dichiarazioni avevano trovato "piena conferma", sia relativamente alla descrizione del funzionamento della così detta "banda dei lavori", nelle risultanze di una perizia grafologica da cui emergeva la riconducibllità ad una identica mano di offerte formalmente concorrenziali; sia con riferimento allo specifico episodio dell’intimidazione del Ca.Ge., nelle dichiarazioni confermative rese dalla stessa persona offesa.

Orbene tali emergenze istruttorie – unitamente al dato che la ditta dei M. si era aggiudicata la quasi totalità dei lavori appaltati dal Comune e che il P. risulta condannato, in via definitiva, per partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso unitamente al C. per una condotta posta in essere dagli anni 1986-87 e fino al 1998, nonchè per delitti di estorsione – confermavano, secondo i giudici d’appello, "l’effettiva esistenza del sistema, che non consentiva intromissioni, convergendo tutti gli elementi nel senso di descrivere un meccanismo di chiara impronta camorristica che attraverso le infiltrazioni nell’apparato comunale e la minaccia operata sul territorio è in grado di controllare un settore della pubblica amministrazione e di attribuirsi i profitti ricavabili dalla manipolazione dei meccanismi burocratici e l’Intimidazione degli avversari".

Tale presupposto, in particolare, implica – ad avviso dei giudici di appello – "la necessaria condivisione di intenti e modalità operative di tutti i rappresentanti delle diverse componenti dell’indicato sistema onde pervenire al risultato programmato, non potendosi ragionevolmente ipotizzare, anche per la conclamata qualità dei personaggi coinvolti, una inconsapevolezza da parte di qualcuno o la necessità che di volta in volta venissero precisate le procedure di attuazione; considerazione questa ritenuta, specie per il P., sicuramente valida, atteso il livello del suo coinvolgimento ed il ruolo operativo quale desumibile anche dai tre episodi "di appostamento con inseguimento" posti in essere dall’imputato nei confronti di D.D.P.A., cognato di C.R., a seguito della scelta collaborativa intrapresa dal congiunto.

2.11.3 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di P.A., se ne chiede l’annullamento, sviluppando cinque motivi d’impugnazione.

2.11.3.1 Con il primo articolato motivo, si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all’art. 192 c.p.p., artt. 110 e 629 c.p., relativamente alla ritenuta responsabilità concorsuale del ricorrente, attesa l’unicità della fonte d’accusa;

la solo apparente logicità del costrutto accusatorio e comunque l’assenza di effettivi riscontri individualizzanti.

2.11.3.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione della legge penale con riferimento agli artt. 353 e 629 c.p. e art. 628 c.p., comma 3, con riferimento all’erronea qualificazione giuridica dei fatti per cui è causa, riconducigli, a tutto concedere, all’ipotesi della turbata libertà degli incanti, reato per altro da ritenersi estinto per prescrizione.

2.11.3.3 Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 629 c.p., comma 2 contestando il ricorrente la sussistenza dell’aggravante del fatto commesso da più persone riunite, che non risulta contestata in fatto, posto che l’azione violenta si sarebbe svolta alla sola presenza del Ca.An., con la conseguenza che, una volta esclusa l’aggravante, il reato deve ritenersi estinto per prescrizione.

2.11.3.4 Con il quarto motivo, si denuncia, ancora, violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 133 c.p., evidenziandosi al riguardo l’assenza di un’adeguata motivazione, puramente di stile, relativamente al trattamento sanzionatorio, specie tenuto conto dell’entità della pena inflitta (nove anni di reclusione) prossima al massimo edittale.

2.11.3.5 Con il quinto ed ultimo motivo, si denunzia, infine, violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 62 bis c.p. specificandosi, sul punto, che le attenuanti generiche sono state negate in base ad un semplice richiamo dei negativi precedenti penali, senza alcun riferimento agli ulteriori elementi richiamati sia dall’art. 62 bis che dall’art. 133 c.p..

2.11.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di P.A. è fondata e merita accoglimento.

Ed invero premesso che il P., nel presente giudizio, deve rispondere esclusivamente di concorso nell’estorsione aggravata commessa in Grazzanise, in epoca antecedente e prossima al marzo 1991, in danno di Ca.Ga. e del fratello Ca.

A., titolari di un’impresa edile – episodio delittuoso accertato a seguito delle dichiarazioni del solo C. R. "e mai, in precedenza, portato all’attenzione degli investigatori" come si legge nella sentenza impugnata – il Collegio deve rilevare, con considerazione che risulta preliminare ed assorbente rispetto alla disamina degli ulteriori motivi di gravame, che la Corte territoriale, nel confermare la sentenza di condanna dell’imputato emessa in primo grado, non ha fornito adeguata risposta alla censura difensiva relativa all’Insussistenza di adeguati elementi di riscontro individualizzanti alle dichiarazioni accusatorie provenienti dal solo C.R. ed in particolare relativamente al dato fattuale riferito dal collaboratore, secondo cui sarebbe stato proprio il P. la persona che aveva formulato nei confronti dell’imprenditore Ca., l’invito a non partecipare ad una gara d’appalto indetta dal Comune di Grazzanise, non avendo trovato tale dato conferma nelle dichiarazioni rese dall’estorto.

Ed invero, posto che, secondo il costrutto accusatorio il coinvolgimento del P. nello specifico episodio delittuoso discende essenzialmente, In effetti, proprio dalla diretta formulazione da parte dell’imputato della suddetta richiesta di non partecipazione alla gara, non emergendo dalle propalazioni del C. che il ricorrente abbia presenziato all’incontro tra il capo clan Ca.An. e l’imprenditore, il mero riferimento compiuto dai giudici di appello al "livello di coinvolgimento" del P. nel "sistema" di aggiudicazione degli appalti ed alla funzione di vicesindaco da lui svolta, ritenuta "idonea" a consentirgli di acquisire la notizia circa la volontà di partecipazione alla gara dell’imprenditore Ca., in assenza di dichiarazioni dell’imprenditore sul punto, non appare invero integrare un’adeguata e congrua risposta alle deduzioni difensive circa l’assenza di adeguati ed univoci elementi di riscontro individualizzanti, specie ove si consideri l’elevato e capillare grado di infiltrazione del clan criminale nell’ambito dell’amministrazione locale, tale da consentire un facile e non esclusivo accesso a notizie ritenute d’interesse per il sodalizio, laddove la reazione dell’imputato alle notizie circa il "pentimento" del C., dimostra, essenzialmente, il grado di intraneità al clan del prevenuto, ma non certo il suo specifico e rilevante apporto all’episodio estorsivo di cui trattasi.

2.11.5 In presenza di tale rilevante lacuna motivazionale, s’impone allora l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio sul capo ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

2.12 L’Impugnazione proposta nell’interesse di Pe.Al..

2.12.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto Pe.Al., medico dentista e già sindaco del comune di Santa Maria la Fossa dal 1994 al 1996, colpevole del reato associativo (capo 1 della rubrica), contestato come commesso nella provincia di Caserta e su tutto il territorio nazionale fino al 2000, qualificando, per altro, la condotta ascritta al predetto imputato come concorso estero in associazione per delinquere di tipo mafioso, in parziale riforma sul punto della decisione di primo grado, lasciando comunque invariata l’entità della pena di anni sei di reclusione inflitta dal primo giudice, ritenuta pienamente adeguata alla grave ed allarmante condotta dell’appellante.

2.12.2 Dopo aver illustrato il contenuto delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori C. e F. – dalle quali emergeva come il Pe., per ottenere l’elezione a sindaco dopo una precedente competizione risoltasi sfavorevolmente, aveva richiesto l’appoggio di S.F. di L., incontrandolo durante la sua latitanza e versando al predetto capo clan un corrispettivo di venti o trenta milioni – in maniera per altro concisa anche a ragione della dichiarata piena condivisione delle dettagliata disamina delle risultanze processuali svolta dal giudice di prime cure con riferimento anche ad alcune vicende attinenti all’amministrazione comunale ritenute sintomatiche della riferita piena disponibilità manifestata dall’imputato nel confronti degli associati al clan (quali la nomina a difensore civico di Mi.Gu.; la nomina a componente della commissione edilizia comunale dell’architetto bi.ni., cognato di S. F. di L.; la tolleranza dimostrata dall’amministrazione comunale all’occupazione di un terreno dell’ente territoriale da parte della società Capys ed i ripetuti tentativi di regolarizzazione della stessa; il mancato abbattimento di un manufatto abusivo in uso allo S.F., edificato nel pressi dell’argine del fiume Volturno) la Corte territoriale, a parziale confutazione delle poliformi argomentazioni difensive prospettate nell’atto di appello, ha così motivato:

a) le dichiarazioni relative al Pe., provengono da due collaboratori che hanno mostrato piena attendibilità in questo ed in altri processi, anche definitivi;

b) le stesse risultano precise, anche con riferimento all’individuazione del prevenuto, conosciuto per ragioni professionali, e riferiscono circostanze cadute sotto la loro diretta percezione;

c) le dichiarazioni accusatorie, sebbene non perfettamente sovrapponigli, si riscontrano comunque reciprocamente, a ragione della verificata loro concordanza sul nucleo essenziale del narrato;

d) tutte le vicende relative all’amministrazione comunale, riproposte nella sentenza impugnata solo sommariamente, per dichiarate ragioni di sintesi, erano state correttamente valutate dal tribunale "come espressione dell’intraneità dell’imputato al sodalizio";

e) la condotta posta in essere dall’imputato deve tuttavia essere qualificata come di "concorso esterno", non potendo dubitarsi che quanto processualmente accertato consente di affermare che disponibile o non che fosse in precedenza il Pe., costui si sia avvicinato in un determinato momento alla consorteria, nella piena consapevolezza della sua esistenza e della sua valenza, attraverso il contatto con uno dei più rilevanti esponenti, ed alla stessa aveva collaborato in un arco di tempo determinato e nello svolgimento della specifica funzione pubblica conseguita, senza, perciò, essere coinvolto organicamente ed in maniera stabile nell’associazione;

f) è indubbio che il contributo prestato dall’imputato è stato concreto, realizzato attraverso specifici atti amministrativi, indubbiamente rilevante e peculiare ai fini del rafforzamento del potere del sodalizio, che attraverso il controllo dell’apparato comunale, paradigmatico nell’operato delle associazioni di stampo mafioso, manifestava il proprio potere, accrescendone la capacità intimidatoria nell’evidente soffocamento di ogni forma di legale convivenza, e perseguiva i propri interessi economici, opportunamente ed efficacemente avallati dal prevenuto.

2.12.3 Sommariamente illustrato il contenuto della decisione impugnata, nel ricorso proposto nell’interesse di Pe.Al., se ne chiede l’annullamento, sviluppando quattro motivi d’impugnazione.

2.12.3.1 Con il primo articolato motivo, si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento agli artt. 110 e 416 bis c.p. e la mancata assunzione di prova decisiva.

2.12.3.2 Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione all’art. 133 c.p., con specifico riferimento alla mancata riduzione della pena inflitta in primo grado, nonostante l’accertata mancata adesione continuativa ed organica dell’imputato al clan dei casalesi.

2.12.3.3 Con il terzo motivo, si denuncia, ancora, violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione all’art. 62 bis c.p., specificandosi al riguardo che le attenuanti generiche sono state negate senza fornire alcuna specifica motivazione e senza in alcun modo considerare l’incensuratezza dell’imputato, il costante svolgimento da parte dello stesso, di una regolare attività professionale; il comportamento processuale sempre corretto.

2.12.3.4 Con il quarto motivo, si denuncia, infine, violazione di legge e difetto di motivazioni, in relazione alla mancata esclusione delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 5, che pur riguardando l’associazione in quanto tale, il ricorrente ritiene incompatibili con la condizione soggettiva dell’imputato di concorso esterno.

2.12.3.5 L’impugnazione proposta nell’interesse di Pe.Al. è basata su motivi manifestamente infondati e ne va quindi dichiarata la inammissibilità. 2.12.3.5.1 Quanto al primo articolato motivo, non è superfluo rammentare che questa Corte ha da tempo chiarito, con riferimento al tema dei vizi della motivazione, che "il controllo di legittimità …non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile …. con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (in tale senso, ex multis, Sez. 5^, Sentenza n. 1004 del 31/1/2000, Rv. 215745).

Orbene, applicando tali principi al caso in esame, ed acclarato che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 930 del 29/01/1996, Rv.

203428), è agevole rilevare – avuto riguardo alle argomentazioni difensive prospettate nel ricorso, che ripropongono senza addurre apprezzabili elementi di novità, questioni in fatto già ampiamente dibattute e risolte dal giudici di merito, con motivazioni congrue e plausibili – come nessun profilo di illegittimità sia fondatamente ravvisabile nella decisione impugnata relativamente all’affermazione di penale responsabilità del Pe. relativamente al reato associativo.

Ed invero la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, ha fornito più che esauriente e logica spiegazione – solo sommariamente illustrata in questa sede al paragrafo 2.16.2 – delle ragioni per cui l’imputato doveva ritenersi un "concorrente esterno" dell’associazione per delinquere denominata "clan dei casalesi" ed in particolare dell’organizzazione operante nella zona di Santa Maria La Fossa, che ne aveva agevolato l’elezione a sindaco di quel Comune.

In particolare l’assunto difensivo secondo cui l’affermazione di responsabilità del Pe., sarebbe affidata a dichiarazioni di collaboratori di giustizia rimaste prive di adeguati riscontri individualizzanti e per ciò viziata da un palese travisamento degli elementi di prova, costituisce un’argomentazione del tutto generica, non evidenziandosi in ricorso alcun elemento dimostrativo di un effettivo travisamento delle emergenze processuali, non specificandosi neppure, da parte del ricorrente, in particolare, la prova decisiva alla quale i giudici di appello, illegittimamente, malgrado il carattere eccezionale della rinnovazione del dibattimento, non avrebbero dato ingresso. Da parte del ricorrente non si considera adeguatamente, soprattutto, che i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere offerti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie (in termini, ex multis, Sez. 2^ Sentenza n. 13473 del 04/03/2008, dep. 31/03/2008, Rv. 239744, imp. Lucchese) o da elementi di natura logica, ovvero, come accaduto nel presente giudizio, anche da specifiche ed anomale vicende amministrative (delibere comunali, conferimenti di incarichi pubblici, ecc.), specie se le stesse risultano sottoposte ad un pregnante vaglio critico dai giudici di merito.

2.12.3.2 Manifestamente infondati devono pure ritenersi, il secondo ed il terzo motivo d’impugnazione, relativi rispettivamente al trattamento sanzionatorio ed al diniego delle attenuanti generiche, in quanto del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto "congrua" la pena inflitta al Pe. dal giudice di primo grado, malgrado la diversa qualificazione giuridica della condotta a lui ascritta ed ostativa al riconoscimento delle attenuanti generiche, attesa la non minore gravità della condotta ed il suo carattere comunque allarmante, trattandosi di parametro considerato dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p..

Tale pur concisa motivazione, deve ritenersi, infatti, del tutto conforme a principi ripetutamente affermati da questa Corte, secondo cui:

– ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (così ex multis Cass., sez. 2^, sentenza n. 2285 dell’11/10/2004 – 25/1/2005, riv. 230691 imp. Alba);

– l’obbligo della motivazione in ordine alla entità della pena irrogata deve ritenersi sufficientemente osservato, qualora il giudice dichiari – come avvenuto nel caso di specie – di ritenere "adeguata" o "congrua" o "equa" la misura della pena applicata o ritenuta applicabile nel caso concreto, essendo la scelta di tali termini, infatti, sufficiente a far ritenere che il giudice abbia tenuto conto, intuitivamente e globalmente, di tutti gli elementi previsti dall’art. 133 c.p. (in tal senso, ex multis Cass., Sez. 6^, Sentenza n. 7251 del 24/5/1990, Rv. 184395).

2.12.3.3 Manifestamente infondato deve ritenersi, infine, anche l’ultimo motivo d’impugnazione relativo alla legittimità della contestazione al ricorrente delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 5, in quanto, a prescindere dai profili di novità della questione sollevata, rappresenta un principio univoco nella giurisprudenza di questa Corte, valido con riferimento anche alla figura del "concorrente esterno", quello secondo cui "hanno natura oggettiva le circostanze aggravanti del reato di associazione di tipo mafioso, consistenti nell’avere l’associazione la disponibilità di armi e nella destinazione del prezzo, prodotto o profitto dei delitti al finanziamento delle attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo, sicchè dette circostanze devono essere riferite all’attività dell’associazione e non alla condotta del singolo partecipe" (in termini, tra le tante, si veda Sez. 6^, Sentenza n. 42385 del 15/10/2009, dep. 04/11/2009, Rv. 244904, imp. Ganci).

2.13 L’impugnazione proposta nell’interesse di S.F..

2.13.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata ha ritenuto S.F. di L., detto ce. colpevole:

a) di trasferimento fraudolento di valori – le quote di partecipazione ad un impresa operante nella provincia di Caserta, nel settore della commercializzazione all’ingrosso di carne – (capo 2 della rubrica), fatto contestato come commesso dal 1994/1995 sino al 2000, nella provincia di Caserta;

b) di trasferimento fraudolento di valori – le quote di partecipazione ad un impresa operante nel settore del calcestruzzo, la Capys s.r.l. – (capo 52 della rubrica), fatto contestato come commesso nella provincia di Caserta dal 1992 ad oggi; confermando con riferimento a tali imputazioni, la sentenza di condanna emessa dal primo giudice;

c) di concorso, in qualità di mandante, dell’incendio della casa comunale di Santa Maria La Fossa (capo 26), fatto contestato come commesso in quel comune, il 7 maggio 1997, accogliendo l’appello proposto dal PG avverso la sentenza di proscioglimento.

2.13.2 Con riferimento alla prima delle suddette imputazioni la Corte territoriale, richiamata con riferimento alla ricostruzione in fatto della vicenda, le argomentazioni svolte in sede di trattazione degli appelli proposti da A.S. e M.A., ha disatteso le deduzioni dell’appellante, che riguardavano principalmente la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano riferito sulla vicenda, ritenute dal ricorrente solo eteroaccusatorie, precisando che gli elementi di prova a carico dell’imputato – rappresentati, soprattutto, dal contenuto delle verosimili e circostanziate dichiarazioni rese dai collaboratori F. e C., i quali avevano partecipato direttamente alle riunioni preparatorie e riferito sugli utili conseguiti – erano sufficienti a fondare un’affermazione di responsabilità penale.

Quanto poi alla seconda imputazione, anche con riferimento ad essa, la Corte territoriale operava un integrale riferimento alle argomentazioni svolte in sede di trattazione della posizione del cognato D.E..

Per quanto attiene, invece, l’imputazione relativa all’incendio della casa comunale di Santa Maria La Fossa, la Corte territoriale, sommariamente riepilogato il contenuto delle dichiarazioni accusatorie rese dal F. – secondo cui l’ordine di appiccare l’incendio era venuto direttamente da ci., all’epoca detenuto, ed a lui materialmente impartito dal figlio L. e che tale atto era stato provocato dall’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, formalmente di proprietà della moglie di Mi.

G., ma in realtà in uso allo S.F., il quale già deteneva la limitrofa masseria (OMISSIS) – ha ritenuto meritevole di accoglimento il gravame del PG, rilevando, per un verso, che le attendibili e circostanziate propalazioni del F. avevano trovato significativo riscontro individualizzante, di tipo logico, nell’accertata riferibilità allo S.F. dello chalet di cui all’ordine di demolizione e della limitrofa tenuta e della configurabilità, pertanto, di un più che valido movente; per altro verso, che le considerazioni svolte dal tribunale sulla dubbia riconducibilità al solo S.F. di un valido movente, avuto riguardo all’accertata esistenza di un contenzioso tra l’amministrazione comunale di Santa Maria La Fossa e la ditta Io. di provenienza "casalese", apparivano infondate ed inidonee a scalfire la rilevanza del riscontro logico di cui sopra, basandosi le stesse su mere ipotesi, per altro neppure in totale antitesi con la ricostruzione dei fatto, attesa l’estrazione "casalese" dell’indicata impresa appaltatrice e le rigide gerarchie di controllo della suddetta zona.

2.13.3 Sommariamente Illustrato il contenuto della decisione impugnata, nei due autonomi ricorsi proposti nell’interesse dello S.F., se ne chiede l’annullamento.

2.13.3.1 Quanto al ricorso presentato in data 23 aprile 2010 dai comuni difensori dello S.F. e del cognato D.E. e proposto congiuntamente nell’interesse di entrambi i predetti imputati, esso concerne esclusivamente l’imputazione di cui al capo 52) e del suo contenuto si è già avuto modo di riferire in sede di trattazione della posizione del predetto ricorrente.

2.13.3.2 Per quanto attiene il ricorso proposto il 22 aprile 2010 nell’esclusivo interesse dello S.F., esso prospetta tre motivi d’impugnazione.

2.13.3.2.1 Con il primo motivo si denunzia vizio di motivazione e travisamento della prova, relativamente alla condanna per il delitto di cui al D.Lgs. n. 203 del 1991, art. 12 quinquies contestando il ricorrente, per un verso, l’incongruità della motivazione addotta dai giudici di appello per confutare il rilievo difensivo secondo cui le dichiarazioni dei collaboratori relativamente a tale imputazione dovevano ritenersi solo eteroaccusatorie, come tali bisognevoli di rigorosa verifica e più che adeguato riscontro, secondo cui la mancata imputazione sarebbe la conseguenza di una scelta del PM, più che ad un’effettiva estraneità dei collaboratori; sotto altro profilo, l’illogicità della motivazione con riferimento al rigetto dell’eccezione di prescrizione, basandosi la stessa su di una valutazione sommaria delle risultanze processuali e sull’incongruo riferimento alla data del fitto dei locali della società in sede fallimentare, piuttosto che a quella della fittizia attribuzione del bene in capo ad un soggetto terzo, fatta risalire dai collaboratori, con dichiarazioni imprecise, agli anni 1992-1993-1994 ed illogicamente collocata dai giudici di appello alla fine dell’anno 1996; accertamento, questo, rilevante oltre che sul piano della prescrizione anche con riferimento all’effettiva sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

2.13.3.2.2 Con il secondo motivo, si denunzia, con riferimento alla condanna per concorso nel reato d’incendio, vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p., evidenziando l’illogicità della motivazione relativamente all’esistenza di elementi di riscontro individualizzante di tipo logico, osservando, sul punto, che se pure in via generale l’accertamento di un valido movente può rappresentare adeguato riscontro di dichiarazioni accusatorie, nel caso in esame era comunque mancata una compiuta e convincente confutazione delle approfondite argomentazioni svolte dal primo giudice, in merito all’esistenza di ben più validi moventi, rispetto alla semplice notifica di un atto di demolizione, ben lungi dall’essere stata attuata, al momento dell’incendio.

2.13.3.2.3 Con il terzo ed ultimo motivo, infine, da parte del ricorrente si contesta l’esattezza della qualificazione giuridica del fatto contestato, argomentando sul punto che nel caso in esame difettava la vastità delle proporzioni, la diffusività delle fiamme e la difficoltà di spegnimento, che rappresentano elementi imprescindibili ai fini della configurabilità del delitto previsto e punito dall’art. 423 c.p..

2.13.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di S. F. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

2.13.4.1 Quanto alle ragioni dell’infondatezza dei motivi prospettati nel ricorso proposto congiuntamente nell’interesse dello S. F. e del cognato D., le stesse sono state già esposte in sede di trattazione dell’impugnazione proposta dal predetto imputato (paragrafo 2.7).

Per quanto attiene, poi, le pur diffuse argomentazioni svolte nel ricorso per denunziare la illegittimità della condanna del ricorrente relativamente ai fatti a lui contestati per i quali è intervenuta condanna, le stesse, se pure prospettate come violazione di legge ovvero vizio della motivazione, nel riproporre questioni già esaminate e decise dai giudici di appello con adeguata e logica motivazione, si risolvono, invero, se valutate nel loro intrinseco contenuto, in censure in fatto.

Orbene, al riguardo, risulta preliminare ed assorbente ribadire il rilievo che non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio – solo sommariamente illustrato in questa sede al paragrafo 2.17.2 – sulla base delle allegazioni del ricorrente, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. sentenza n. 41476 del 25/10/2005, imp. Misiano; Sez. Un. sentenza n. 6402 del 2.7.1997, imp. Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. sentenza n. 930 del 29.1.1996, imp. Clarke, rv.

203428).

Avendo i giudici di appello diffusamente illustrato, con motivazioni adeguate e plausibili, le ragioni per cui le dichiarazioni dei collaboratori che accusavano lo S. dovevano ritenersi attendibili e convergenti nel loro nucleo essenziale, e di contenuto non soltanto eteroaccusatorio, ricollegando i predetti l’acquisizione dell’attività commerciale in tema di commercio delle carni ad un’attività estorsiva del clan alla quale avevano partecipato direttamente, non può allora fondatamente ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

A maggior ragione non può ravvisarsi una violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 2, perchè la sentenza impugnata ha motivatamente valutato le censure degli appellanti, confutandone le prospettazioni probatorie, non ricollegabili per altro a verificabili allegazioni probatorie, avendo precisato, in particolare, quanto al reato di cui al capo 2) ed alla sua eventuale estinzione per prescrizione, che la condotta operativa andava collocata non prima del 1997, atteso che la probabilità dell’emissione di misure di prevenzione non può ritenersi antecedente al 1995, epoca in cui furono emesse le prime ordinanze per il processo definito "Spartacus 1"; che il fallimento del Gi., che ne costituiva il presupposto, si colloca nel 1993 e soprattutto, che al di là di alcuni incontri solo programmatici, doveva escludersi che la condotta materiale integrante il reato di cui trattasi, avesse preso corpo, prima che Mu.An. prendesse contatto con il curatore, evento da collocarsi alla fine del 1996 e quanto al reato contestato al capo 26), la già ampiamente verificata attendibilità della chiamata in correità del F., la sussistenza di un significativo elemento di riscontro di tipo logico, rappresentato da un più che valido movente in capo allo S.F., quale l’adozione di una delibera di demolizione dello chalet, in località (OMISSIS), nella disponibilità materiale del ricorrente.

Quanto poi alla contesta qualificazione giuridica del fatto contestato come incendio, a prescindere dai profili di novità di una tale deduzione difensiva, che non risulta mai prospettata in sede di merito, va in ogni caso rilevato che la giurisprudenza di questa Corte è ormai univoca nell’affermare, che affinchè si realizzi il pericolo per la pubblica incolumità, tutelato dai delitti di incendio doloso o colposo, necessita un incendio di vaste proporzioni che abbia tendenze a diffondersi e sia difficile a spegnersi (in tal senso, Sez. 1^, Sentenza n. 6313 del 27/03/1984, dep. 07/07/1984, Rv.

165222, imp. Canziani), sicchè, posto che per stessa ammissione del ricorrente le fiamme si svilupparono per almeno tre ore, e che nella sentenza impugnata si precisa come il collaboratore D.V. abbia dichiarato che l’incendio "si propagò velocemente, causando l’esplosione delle finestre", tanto da indurre il predetto ed il F. a fuggire precipitosamente, lasciando in loco la lattina che conteneva 25 litri di liquido combustibile, nessun profilo di legittimità può fondatamente ravvisarsi con riferimento alla qualificazione del fatto contestato come incendio doloso.

2.14 L’impugnazione proposta nell’interesse di S.S..

2.14.1 La Corte territoriale, con la sentenza impugnata, ha ritenuto inammissibile l’appello proposto avverso la sentenza di primo grado da S.S., imputato rimasto contumace in quel giudizio e ritenuto colpevole del reato a lui contestato al capo 41) della rubrica, in quanto proposto tardivamente, il 18 marzo 2008. 2.14.2 La decisione dei giudici di appello, per quanto ancora rileva nel presente giudizio, ha escluso che allo S.S. possano venire estesi gli effetti della pronuncia di improcedibilità emessa, con riferimento al medesimo reato, nei confronti del coimputato Re.St., evidenziando che la causa estintiva del reato era maturata solo nel giugno 2008 e che secondo un condivisibile principio di diritto enunciato da questa Corte "la rilevanza, in forza dell’effetto estensivo dell’impugnazione, di una causa estintiva del reato legata al decorso del tempo, come la prescrizione, implica la preesistenza della stessa alla proposizione del ricorso da parte dell’imputato non appellante, restandone altrimenti preclusa l’operatività dal passaggio in giudicato della decisione nei suoi confronti". 2.14.3 Nel ricorso, con l’unico motivo di impugnazione proposto, si denunzia l’errata applicazione della legge penale ed in particolare dell’art. 537 c.p.p. in relazione all’art. 157 c.p., sostenendo il ricorrente che intendendo il principio relativo all’effetto estensivo dell’impugnazione, tutelare la par condicio degli imputati, non sussiste alcuna valida regione per escludere l’operatività dello stesso anche con riferimento ad una pronuncia dichiarativa di estinzione del reato per prescrizione emessa nei confronti di un coimputato, e ciò a prescindere dal rilievo se la prescrizione sia maturata "nella pendenza del ricorso" ovvero "antecedentemente". 2.14.4 L’impugnazione proposta nell’interesse di S.S. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alle spese processuali.

Ritiene infatti il Collegio che nessuna violazione dell’art. 587 c.p.p. sia fondatamente ravvisarle nella sentenza impugnata per avere i giudici di appello escluso nei confronti del ricorrente l’operatività in via di estensione della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione pronunciata nei confronti del coimputato Re.St., che ha proposto tempestiva impugnazione alla sentenza di condanna.

Tale decisione, invero, si ricollega al condivisibile insegnamento di questa Corte (In termini, Sez. 1^, Sentenza n. 12369 del 23/10/2000, dep. 30/11/2000, Rv. 217393, imp. Russo; Sez. 6^, Sentenza n. 23251 del 18/03/2003, dep. 27/05/2003, Rv. 226007, imp. Cammardella; Sez. 2^, Sentenza n. 26078 del 20/05/2009, dep. 22/06/2009, Rv. 244664, imp. Borrelli) secondo cui la rilevanza, in forza dell’effetto estensivo dell’impugnazione, di una causa estintiva del reato legata al decorso del tempo, come la prescrizione, implica la preesistenza della stessa alla proposizione del ricorso da parte dell’imputato non appellante o la cui impugnazione sia stata dichiarata inammissibile, restandone altrimenti preclusa l’operatività dal passaggio in giudicato della decisione nei suoi confronti.

Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, infatti, "l’estensione dell’impugnazione costituisce un rimedio che non è in grado di precludere il formarsi "ab initio" del giudicato, ma è solo uno strumento volto ad impedire contraddittorietà di giudicati, dettato dall’immanente "ratio" ispiratrice dell’istituto.

Ne consegue che l’operatività in via di estensione di una causa estintiva del reato derivante – come la prescrizione – dal decorso del tempo, presuppone che essa preesista alla proposizione del ricorso da parte dell’imputato non appellante, restando altrimenti preclusa la sua operatività dal passaggio in giudicato della decisione nei suoi confronti. Un fenomeno da assimilare ad una situazione di inammissibilità genetica e che rispetto alle cause estintive del reato non può verificarsi se non collegando al decorso del tempo l’effetto estintivo" (così Sez. 6^, Sentenza n. 2381 del 12/12/1994, dep. 09/03/1995, Rv. 201245, imp. Zedda).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di C.R. e dispone la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Napoli per il giudizio di secondo grado.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.A. e, limitatamente al capo 7 e alla continuazione, nei confronti di N.C.; rinvia per nuovo giudizio sui capi e sul punto anzidetti, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

Rigetta nel resto il ricorso di N..

Dichiara inammissibili i ricorsi di B.G., Mi.

G., Pe.Al., che condanna al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento della somma di Euro 1000,00 (mille) alla Cassa delle Ammende.

Rigetta i ricorsi di A.M., A.S., C.G., D.V.R., D.E., M. G., Me.Gi., M.M., S. F., S.S., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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