Cass. civ. Sez. VI, Sent., 04-05-2012, n. 6840 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso alla Corte d’appello di Perugia la s.p.a. Tor di Valle proponeva domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001 per violazione dell’arto della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio civile per pagamento di corrispettivi di appalto, da essa instaurato nei confronti del Ministero dei Lavori Pubblici dinanzi al Tribunale di Roma nel dicembre 1999, definito con sentenza depositata nel febbraio 2008.

Con il decreto indicato in epigrafe la Corte d’appello, ritenuta ragionevole nella specie una durata di quattro anni, ha riconosciuto un indennizzo per pregiudizio non patrimoniale di Euro 7.500 per la residua durata irragionevole di quattro anni e due mesi, rigettando invece la domanda di indennizzo del pregiudizio patrimoniale. Avverso tale decreto la s.p.a. Tor di Valle ha proposto ricorso a questa Corte, cui resiste il Ministero della Giustizia con controricorso.

2. Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

3. Con il primo motivo si censura, sotto i profili della violazione di legge ( art. 175 c.p.c. e art. 81 disp. att. c.p.c., art. 6 C.E.D.U.) nonchè delvizio di motivazione, la determinazione del periodo eccedente il termine ragionevole, ponendo le seguenti questioni: a) la durata complessiva del procedimento imputabile allo Stato deve calcolarsi non già – come effettuato nel decreto in esame – a partire dalla notifica nel dicembre 1999 dell’atto introduttivo del giudizio dinanzi al Tribunale di Roma bensì dalla notifica nel giugno 1988 di altra citazione dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, che con sentenza del giugno 1998 aveva statuito, in relazione ad alcune domande, la carenza di legittimazione del convenuto I.A.C.P., a seguito della quale era stato convenuto il Ministero LL.PP. dinanzi al Tribunale di Roma; b) la determinazione in quattro anni della durata ragionevole del giudizio di primo grado è ingiustificata e confligge con i poteri di direzione del processo attribuiti al giudice nonchè con l’intervallo di quindici giorni che deve intercorrere tra le udienze di rinvio ex art. 81 disp. att. c.p.c.. Entrambe le questioni sono prive di fondamento, atteso che:

a) fra il giudizio instaurato dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria nei confronti dello I.A.C.P. e quello instaurato nei confronti del Ministero LL.PP. dinanzi al Tribunale di Roma non vi è alcun rapporto di identità o continuità, essendo procedimenti autonomi e distinti con diversità di parti convenute, il primo dei quali è stato definito nel 1998, per quanto qui rileva, con sentenza di declaratoria della carenza di legittimazione passiva della parte convenuta: nessuna rilevanza dunque può assumere l’eventuale coincidenza della pretesa sostanziale azionata in tali distìnti giudizi, le cui irragionevoli durate, peraltro, avrebbero dovuto formare oggetto di distinte domande di equa riparazione (nei rispettivi termini di decadenza L. n. 89 del 2001, ex art. 4), laddove nella specie la Corte territoriale ha riscontrato, senza ricevere censura alcuna sul punto, la proposizione della sola domanda riferita al giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Roma, e su questa ha provveduto; b) la determinazione della durata ragionevole del giudizio presupposto, onde verificare la sussistenza e l’entità della violazione del diritto azionato, costituisce oggetto di una valutazione che il giudice di merito deve compiere caso per caso (indipendentemente dalla violazione del termine ordinario posto dall’art. 81 disp. att. c.p.c., che di per sè non rileva a tali fini: cfr. ex multis Cass. n. 24356/06) tenendo presenti gli elementi indicati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 anche alla luce dei criteri di determinazione applicati dalla Corte Europea e da questa Corte: criteri ai quali la Corte d’appello ha fatto riferimento, mostrando nel contempo di essere consapevole che dal parametro tendenziale di tre anni per il primo grado è consentito discostarsi, purchè in misura ragionevole e dando conto delle ragioni che lo giustifichino sotto il profilo della complessità del procedimento;

e, in effetti, non merita censura l’aver ritenuto ragionevole (in base ad un apprezzamento di fatto non sindacabile nel merito in questa sede di legittimità) uno scostamento di un anno circa in più rispetto allo standard di tre anni complessivi seguito normalmente in relazione a cause non complesse, in ragione della natura degli accertamenti sui quali era incentrato il giudizio, che – come avvenuto nella specie – comportano di regola l’espletamento di articolate consulenze tecniche d’ufficio con supplementi a chiarimento.

4. Con il terzo, quarto e quinto motivo si censura, sotto i profili della violazione di legge ( L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 2056 cod. civ.) nonchè della omissione della motivazione, la statuizione di rigetto della domanda di indennizzo del danno patrimoniale subito dalla ricorrente per il ritardo (lucro cessante) nella percezione delle somme richieste nel giudizio presupposto. Anche tali censure sono infondate. Non merita invero censura la motivazione che – contrariamente a quanto afferma la ricorrente – risulta esposta nel provvedimento impugnato, là dove (pag. 4) la Corte d’appello ha osservato come il danno patrimoniale lamentato non può essere riconosciuto per difetto del nesso di causalità, non essendo conseguenza immediata e diretta (come richiesto dall’art. 1223 cod. civ. richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 attraverso il rinvio all’art. 2056 cod. civ.) della durata irragionevole del giudizio presupposto. Esso infatti dipende dal mancato riconoscimento del maggior danno da ritardo (ove effettivamente richiesto) nella sentenza che ha definito il giudizio presupposto, cioè nell’unica sede nella quale tale questione doveva essere posta, non potendo confondersi il danno per la irragionevole durata del procedimento con quello di cui eventualmente si è controvertito nel giudizio presupposto, il cui ristoro dipende unicamente dall’esito di tale causa (cfr. ex multis Cass. n. 6163/03; n. 3143/04; n. 5213/07; n. 16837/10).

5. Insussistente è anche la denunciata violazione di legge ( L. n. 89 del 2001, art. 2) di cui al quinto motivo, relativo alla liquidazione del danno non patrimoniale in Euro 1.800 per anno di ritardo, della quale si lamenta l’esiguità e la non conformità ai criteri (anche relativi al metodo di calcolo) seguiti dalla Corte E.D.U. La Corte di merito ha invero rispettato i criteri normalmente seguiti dalla Corte Europea, liquidando un importo che si colloca ben oltre la media e non può dunque considerarsi a tale stregua incongruo, a prescindere dalla diversità del metodo di calcolo (per il solo periodo di durata irragionevole anzichè per tutta la durata del procedimento) imposto dalla L. n. 89, art. 2 metodo che di per sè come più volte riconosciuto dalla Corte E.D.U. (cfr. tra le altre Martinetti e Cavazzuti c/Italia 20 aprile 2010) – non viola l’art. 6 della C.E.D.U., essendo consentito a ciascuno Stato aderente di istituire una tutela giudiziaria del diritto in questione coerente con il proprio ordinamento e le proprie tradizioni, sempre che sia assicurato l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto stesso.

6. Prive di fondamento sono anche le censure di violazione di legge (art. 6 C.E.D.U. e L. n. 89, art. 5 bis) di cui al settimo e ottavo motivo, relativi alle statuizioni sulle spese di lite. Va invero osservato: a) che l’agevolazione concessa dalla legge alle domande di equa riparazione mediante l’esonero dal versamento del contributo unificato non costituisce dato normativo sufficiente per affermare il principio della inammissibilità, in tali procedimenti, della compensazione delle spese in base alla norma generale dell’art. 92 c.p.c.; b) che la scelta di avvalersi di tale facoltà di compensazione – nella specie parziale – della spese della lite è riservata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale nella specie ha esposto al riguardo una motivazione non palesemente illogica o contraddittoria, facendo riferimento al notevolissimo ridimensionamento della domanda formulata dalla ricorrente; c) che la doglianza circa la ingiustificata riduzione nella liquidazione delle somme spettanti alla ricorrente in base alla tariffa si mostra generica, non risultando neppure dedotto il deposito da parte della medesima di specifica nota spese.

7. Quanto infine al nono motivo, con il quale si denuncia la "violazione e falsa applicazione dei principi indicati dalla Suprema Corte con la sentenza SS.UU. n. 19499/2008", nella parte in cui il decreto impugnato ha riconosciuto gli interessi legali – e non il maggior danno nella misura presunta di cui alla citata pronuncia delle Sezioni Unite – sulla somma liquidata a titolo di equa riparazione, tale doglianza si mostra inammissibile, per omessa individuazione delle norme di legge che si assumono violate, e comunque infondata, essendo la citata pronuncia delle Sezioni Unite riferita al maggior danno ex art. 1224 cpv. cod. civ. per ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, e tale non può definirsi l’obbligazione indennitaria prevista dalla L. n. 89 del 2001. 8. Le spese di questo giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, in Euro 865,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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