Cass. civ. Sez. VI, Sent., 04-05-2012, n. 6824 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

F.V. e F.R. hanno, con ricorso alla Corte d’appello di Genova depositato nell’aprile 2009, proposto, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale sofferto a causa della non ragionevole durata del giudizio di equa riparazione regolato dalla stessa legge, introdotto nel febbraio 2002 dinnanzi alla Corte d’appello di Campobasso.

Giudizio che, dopo una prima impugnazione per cassazione, una fase di rinvio ed una nuova impugnazione per cassazione, era ivi ancora pendente al momento della domanda.

La Corte territoriale, con il decreto indicato in epigrafe, ha parzialmente accolto la domanda, riconoscendo a ciascuno dei ricorrenti un indennizzo di Euro 4.200,00 oltre interessi per tre anni e mezzo circa di durata irragionevole del giudizio di equa riparazione, determinata valutando in un anno per ciascuna fase dinnanzi alla Corte d’appello ed in un anno per ciascuna fase di cassazione i termini ragionevoli di definizione del giudizio in esame.

Per la cassazione di questo decreto F.V. e F. R. hanno proposto ricorso sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso l’intimata Amministrazione.

Motivi della decisione

1. Con entrambi i motivi i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6, p.1 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, censurando il decreto impugnato in relazione, da un lato, alla determinazione della durata ragionevole e, dall’altro, alla liquidazione dell’indennizzo con riguardo alla sola durata irragionevole anzichè alla intera durata del giudizio.

1.1. La Corte d’appello, sostengono i ricorrenti sotto il primo profilo, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge per non avere considerato adeguatamente le peculiarità del giudizio per equa riparazione che, pur ritenendo ordinatorio il termine di quattro mesi posto dalla L. n. 89, art. 3, comma 6 dovrebbe comunque esaurirsi in tempi molto brevi, attesa la sua natura astrattamente riparatoria e tenendo conto che non è prevista istruttoria e la decisione viene emessa in base agli atti. La erroneità della impostazione seguita dalla Corte territoriale deriverebbe anche da quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in alcune pronunce, dalle quali emerge che nella durata della procedura deve tenersi conto dell’intero periodo compreso tra il deposito del ricorso alla corte d’appello e l’esecuzione effettiva della pronuncia attraverso l’erogazione della somma riconosciuta a titolo di riparazione.

1.2. Sostengono inoltre i ricorrenti, sotto il secondo profilo, che la liquidazione dell’indennizzo in relazione alla sola durata irragionevole e non all’intera durata del giudizio, pur se conforme alla normativa interna ( L. n. 89 del 2001, art. 2), contrasta con la costante ed uniforme interpretazione espressa dalla Corte EDU dell’art. 6, p.1 della Convenzione EDU, il che, contrariamente a quanto implicitamente affermato dalla Corte d’appello, dovrebbe far ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità della L. n. 89, art. 2 per contrasto con l’art. 117 Cost..

2. Iniziando da questo secondo profilo, ritiene il Collegio che la censura con esso formulata sia priva di fondamento. Premesso che la Corte di merito ha seguito la modalità di calcolo dell’indennizzo prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3 va osservato che – fermo il principio generale enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 1338 del 2004) in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretarla in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte Europea – tale dovere opera entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001. D’altra parte, la compatibilità della normativa nazionale con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica Italiana va verificata con riguardo alla complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo: come la stessa Corte Europea ha riconosciuto, la limitazione, prevista dall’art. 2 della Legge Nazionale, dell’equa riparazione al solo periodo di durata irragionevole del processo di per sè non esclude tale complessiva attitudine della legge stessa (cfr in tal senso ex multis Cass. n. 16086/2009; n.l0415/2009; n. 3716/2008).

3. Sotto il primo profilo, il ricorso è invece fondato.

3.1. Ai fini della individuazione di quale sia la ragionevole durata di un giudizio di equa riparazione, che si sia svolto dinnanzi alla Corte d’appello e in sede di impugnazione dinnanzi a questa Corte, occorre procedere alla ricognizione della giurisprudenza della Corte Europea sul punto. Nella sentenza 29 marzo 2006 della Grande Camera, nella causa Cocchiarella contro Italia, si è affermato che "il periodo di quattro mesi previsto dalla Legge Pinto soddisfa il requisito di rapidità necessario perchè un rimedio sia effettivo.

L’unico ostacolo a ciò può sorgere dai ricorsi per cassazione per i quali non è previsto un termine massimo per l’emissione della decisione. Nel caso di specie, la fase giudiziaria è durata dal 3 ottobre 2001 al 6 maggio 2002, cioè sette mesi, che, pur eccedendo il termine previsto dalla legge, sono ancora ragionevoli" (par. 99).

Nella successiva decisione della Seconda Sezione 31 marzo 2009, causa Simaldone contro Italia (par. 29), si è invece ritenuta eccessiva una durata di un giudizio "Pinto", svoltosi in un solo grado dinnanzi alla Corte d’appello e protrattosi per undici mesi. Nel caso deciso dalla Seconda Sezione il 22 ottobre 2010, causa Belperio e Ciarmoli contro Italia, dopo aver dato atto del contenuto della sentenza Cocchiarella, si è ulteriormente precisato che la durata di un giudizio "Pinto" davanti alla Corte d’appello, inclusa la fase di esecuzione, salvo circostanze eccezionali, non deve superare un anno e sei mesi. Da ultimo, nella decisione 27 settembre 2011 della Seconda Sezione, causa CE.DI.SA. Fortore s.n.c. Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia, la Corte ha ritenuto che, in linea di principio, per due gradi di giudizio, la durata di un procedimento "Pinto" non debba essere, salvo circostanze eccezionali, superiore a due anni.

3.2. Nella giurisprudenza di questa Corte, si è invece ritenuto che la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione previsto e disciplinato dalla L. n. 89 del 2001 vada determinata in mesi quattro dalla data del deposito del ricorso, coerentemente alla indicazione chiaramente desumibile dall’art. 3, comma 6, della medesima Legge (Cass. n. 8287 del 2010). Il Collegio ritiene che a tale orientamento non possa essere data continuità e che – rimandandosi alle singole fattispecie la valutazione della durata ragionevole di una procedura ex lege n. 89 del 2001 che si svolga solo dinnanzi alla Corte d’appello- ove, come nel caso di specie, la procedura si sia svolta anche dinnanzi alla Corte di cassazione, la durata complessiva del giudizio non possa comunque eccedere il termine ragionevole di due anni, tenuto conto, da un lato, delle indicazioni desumibili dagli ultimi approdi (sopra riassunti) della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in coerenza con il termine (pur avente natura meramente sollecitatoria) di quattro mesi previsto dalla L. n. 89 del 2001, dall’altro della durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un procedimento di equa riparazione, non è suscettibile di estensione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno.

3.3. Esaminando quindi il caso di specie, risulta che il giudizio è iniziato con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Campobasso nel febbraio 2002 e che nell’aprile 2009, al momento della presentazione della domanda di riparazione qui in discussione, era ancora pendente: la durata complessiva da considerare è dunque di circa sette anni e due mesi.

Detratto il termine ragionevole, stimato in due anni, e tenuto conto che le varie impugnazioni sono state proposte non oltre il termine legislativamente previsto per il ricorso per cassazione (v. Cass. n. 8287 del 2010), la durata non ragionevole risulta essere stata di circa cinque anni e due mesi, anzichè di tre anni e sei mesi.

L’accoglimento del ricorso segue di necessità. 4. Il decreto impugnato è quindi cassato, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può decidersi nel merito ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ.. Ai fini della liquidazione dell’indennizzo, va fatta applicazione della giurisprudenza di questa Corte (ex multis: n. 21840/09; n. 1893/10; n. 19054/10), a mente della quale l’importo dell’indennizzo può essere di Euro 750 per anno per i primi tre anni di durata eccedente quella ritenuta ragionevole, in considerazione del limitato patema d’animo che consegue all’iniziale modesto superamento, mentre solo per l’ulteriore periodo deve essere richiamato il parametro di Euro 1.000 per ciascun anno di ritardo. Pertanto, il Ministero della giustizia deve essere condannato al pagamento in favore di ciascuno dei ricorrenti di Euro 4.416,60 a titolo di equo indennizzo per il periodo di cinque anni e due mesi di irragionevole durata. Su tale somma sono dovuti gli interessi legali dalla data della domanda, in conformità ai parametri ormai consolidati ai quali questa Corte si attiene nell’operare siffatte liquidazioni.

5. Quanto alle spese del giudizio, ritiene il Collegio, da un lato, che l’aumento qui disposto della somma liquidata dalla Corte territoriale non incida – attesa la sua entità estremamente contenuta – sulla liquidazione delle spese effettuata nel decreto impugnato; dall’altro, che, per la stessa ragione e per la parziale infondatezza del ricorso, si giustifichi la compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di Euro 4,416,60 oltre interessi legali dalla data della domanda al saldo; condanna inoltre il Ministero al pagamento delle spese del giudizio dinanzi alla Corte d’appello, nell’importo già liquidato nel decreto impugnato di complessivi Euro 900,00 oltre spese generali ed accessori di legge;

compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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