Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. – I.L., I.C.P., P. I., I.I.L., I.E.L. ed E. M. convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Genova, I.A., chiedendo: (a) che venisse accertata la loro qualità di eredi della defunta Il.La.; (b) che venisse dichiarata, indipendentemente da ogni intestazione formale, l’esclusiva titolarità in capo alla sola defunta di tutti i rapporti da questa intrattenuti, al momento del decesso, presso il Banco di Chiavari e della Riviera Ligure, agenzia n. (OMISSIS), espressamente elencati, con conseguente riconoscimento della caduta in successione di tutte le somme comunque riconducibili a quei rapporti, quantificabili in L. 376.562.761; e (c) che la convenuta venisse condannata a restituire ad essi attori le somme in questione limitatamente alle quote di loro spettanza, pari in totale a 5/6, oltre interessi.
Si costituì la convenuta, resistendo. Sostenne che le somme in questione le erano state donate dalla de cuius con lo strumento della cointestazione del conto corrente e del deposito titoli; ed in via riconvenzionale chiese di accertarsi che essa era titolare delle somme e dei titoli in questione.
Il Tribunale di Genova, con sentenza in data 14 febbraio 2005, dichiarò che gli attori erano gli eredi legittimi, per le quote specificate, di Il.La. e, quindi, avevano diritto ai beni ereditari oggetto di causa; dichiarò l’esclusiva titolarità in capo alla defunta di tutti i rapporti da questa intrattenuti con il Banco di Chiavari e della Riviera Ligure, ivi compreso il rapporto titoli;
condannò la convenuta a restituire agli attori le somme in questione, limitatamente alle quote di loro spettanza, debitamente maggiorate degli interessi di legge nel frattempo maturati dalla data dell’apertura della successione (18 gennaio 1998) fino a quella della restituzione.
2. – La Corte d’appello di Genova, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 30 settembre 2009, in parziale accoglimento del gravame di I.A. e ad integrazione della sentenza gravata, ha dichiarato caduta in successione la somma di Euro 194.478,44 e condannato I.A. alla restituzione agli appellati della somma corrispondente alle quote e-reditarie di loro spettanza, pari in totale a 5/6 del totale, sull’importo indicato, maggiorato degli interessi legali.
La Corte d’appello ha, a tal fine, rilevato che nessun elemento di fatto è stato provato per consentire di individuare l’animus donandi nella cointestazione e per riconoscere l’accordo di Il.La. nel successivo trasferimento delle somme depositate, operato dalla sorella A., in un conto proprio di quest’ultima, due giorni prima della morte della congiunta, e dei titoli, alle rispettive scadenze anche posteriori alla morte della de cuius.
La Corte territoriale ha accolto la sola censura dell’appellante relativa alla genericità e indeterminatezza della statuizioni della sentenza.
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte di Genova I. A. ha proposto ricorso, con atto notificato il 12 novembre 2010, sulla base di cinque motivi.
Gli intimati I.L. ed altri hanno resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
La ricorrente ha anche proposto querela di falso.
Motivi della decisione
1.1. – Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla difesa dei controricorrenti, perchè non notificato nel termine breve di sessanta giorni, decorrenti dalla notificazione, ad I.A., della copia conforme della sentenza della Corte d’appello di Genova, avvenuta in data 17-20 novembre 2009, ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., presso il relativo difensore domiciliatario, Avv. Giampaolo Naronte. Su questa questione si innesta anche la querela di falso proposta in data 2 dicembre 2011 dall’Avv. Marco Rizzoglio, munito di procura speciale in data 30 novembre 2011 rilasciatagli da I.A. ed autenticata dal notaio Guido Santoro di Chiavari (rep. n. 38.310).
L’eccezione è infondata, perchè la notifica effettuata non è idonea a far decorrere il termine breve.
Invero, come risulta dall’epigrafe della sentenza impugnata, nel giudizio di appello I.A. aveva eletto domicilio presso lo studio del difensore Avv. Giampaolo Naronte in Genova, alla via Innocenzo Frugoni, n. 15/3.
Presso il domicilio dichiarato nel giudizio a quo la notifica ha avuto esito negativo, essendosi l’Avv. Giampaolo Naronte medio tempore trasferito.
La notifica avrebbe dovuto essere effettuata presso il domicilio reale del procuratore; ma tale non era l’indirizzo di corso (OMISSIS), dove, in data 17-20 novembre 2009, è stata tentata la notifica ex art. 140 cod. proc. civ. (con atto non ritirato dal destinatario), perchè – come risulta dalla pertinente certificazione rilasciata dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Genova, depositata dalla ricorrente – l’Avv. Naronte non aveva colà il domicilio professionale (e neppure la residenza anagrafica).
E poichè l’attestazione, da parte dell’ufficiale giudiziario procedente alla notifica, che l’Avv. Naronte si fosse trasferito in corso (OMISSIS), essendo frutto di informazioni da lui acquisite o di indicazioni fornitegli da altri, non è assistita da fede privilegiata, ma costituisce mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo di prova, la querela di falso proposta incidentalmente dall’Avv. Mirco Rizzoglio, munito di procura speciale notarile conferitagli da I.A., difetta della necessaria rilevanza.
1.2. – Del pari infondato è il rilievo dei controricorrenti, secondo cui il termine lungo che la ricorrente avrebbe dovuto osservare nella specie per l’impugnazione della sentenza della Corte d’appello sarebbe quello di sei mesi dalla pubblicazione, come previsto dall’art. 327 cod. proc. civ., novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17.
Difatti, ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1, la disposizione che ha novellato l’art. 327 cod. proc. civ. si applica ai giudizi instaurati, e non alle impugnazioni proposte, a decorrere dal 4 luglio 2009 (Cass., Sez. 6^ – 3, 2 dicembre 2011, n. 25792).
Sicchè nella specie è ancora applicabile il termine lungo di un anno, risalendo l’atto di citazione, introduttivo del giudizio di primo grado, ad un data (il 7 dicembre 1998) anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009. 2. – Con il primo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) ci si duole che l’animus donandi, sia stato escluso in maniera apodittica e che sia stato addebitato alla convenuta di non avere dimostrato un elemento costitutivo della donazione indiretta (appunto, l’animus donandi) senza esaminare (neppure per respingerle) le istanze istruttorie dalla stessa formulate proprio al fine di provare l’esistenza, in capo alla de cuius, della volontà di beneficiare la sorella, ossia l’unica persona che era stata vicina a Il.La. nel corso degli anni.
Il secondo mezzo censura violazione e falsa applicazione degli artt. 769 e 809 cod. civ. Sarebbe erronea l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il rapporto di fiducia e di affetto particolarmente forte tra le due sorelle non giustificherebbe, in mancanza di altri elementi che dimostrino il contrario, l’esclusione degli altri pur stretti familiari dalla propria eredità, mentre giustificherebbe la "cointestazione per i fini propri". La Corte territoriale avrebbe di fatto negato la possibilità che il donante, per realizzare il suo intento di liberalità, possa utilizzare, non lo strumento tipico della donazione, bensì un negozio differente come, appunto, quello della cointestazione di cespiti bancari. Nè può avere valore sufficiente a smentire la ricostruzione dei fatti operata da parte ricorrente la circostanza, valorizzata invece dalla Corte di Genova, secondo cui "spesso accade che tale cointestazione avvenga per sopperire ad esigenze di carattere pratico e, quindi, patrimoniali del vero titolare, ad esempio, per fare operare in caso di proprio impedimento o, comunque, per propria comodità la persona di fiducia cui vengono cointestati i beni". La decisione della Corte d’appello sarebbe smentita da quanto ritenuto dalla Corte di cassazione con la sentenza 17 novembre 2003, n. 17338, la quale ha ritenuto che una diversa volontà della de cuius diretta, non già all’effetto traslativo in favore del familiare, ma solo a consentire ad esso la gestione del conto corrente e del deposito di cui ella era titolare, avrebbe trovato in una semplice procura lo strumento negoziale più idoneo a raggiungere tale scopo.
Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2730 cod. civ.) si lamenta che la Corte territoriale abbia attribuito rilevanza "confessoria" ad una lettera inviata alla controparte, prima dell’instaurazione della causa, da un legale che è stato poi sollevato dall’incarico e sostituito da un altro, in palese contrasto con la linea difensiva assunta dalla parte stessa in giudizio.
2.1. – I tre motivi – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono (scrutinatali nel merito, al pari dei successivi mezzi, non trovando applicazione l’art. 366-bis cod. proc. civ., abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 47 che prescriveva la formulazione del quesito; e tuttavia) infondati.
La possibilità che costituisca donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (Cass., Sez. 2^, 12 novembre 2008, n. 26983; Cass., Sez. 2^, 14 gennaio 2010, n. 468).
La Corte d’appello – con logico e motivato apprezzamento delle risultanze di causa – ha escluso che sia stata raggiunta la prova dell’intento di liberalità, mentre ha ravvisato nella cointestazione un atto compiuto per sopperire ad esigenze di carattere pratico della vera titolare delle somme e dei titoli depositati, da operare in caso di proprio impedimento, e giustificato in relazione al rapporto di fiducia e di affetto tra le due sorelle.
La Corte territoriale ha tratto una conferma di questa conclusione nello stesso comportamento di I.A., ritenendo che il non avere costei operato sul conto prima del denunciato trasferimento sul suo personale, nell’imminenza della morte della sorella, convalidasse la convinzione di considerare non propri quei beni.
Nel mentre va dunque esclusa la sussistenza della denunciata violazione di legge, deve rilevarsi, con riferimento al dedotto vizio di motivazione, che la censura della ricorrente si esaurisce inammissibilmente in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, trascurando in proposito la competenza esclusiva demandata al giudice di merito anche con riferimento alla sussistenza sia dei presupposti per il ricorso alle presunzioni sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione.
Quanto alla prova testimoniale che la ricorrente deduce di avere proposto nei gradi di merito del giudizio e della cui mancata ammissione essa si duole, occorre precisare che nel ricorso per cassazione si omette di precisare quando ed attraverso quale atto processuale detta richiesta di prova sarebbe stata articolata. La stessa omissione caratterizza la censura relativa alla mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, delle risposte date da alcuni degli attori alle domande formulate in sede di interrogatorio formale, non indicandosi nel ricorso quando dette risposte sarebbero state rese e da quale verbale le stesse sarebbero ricavabili.
Infine, non coglie nel segno la doglianza relativa al rilievo dato dalla Corte d’appello ad un atto stragiudiziale in data 3 aprile 1998 a firma dell’Avv. Renato Mottola, allora legale di I.A..
La Corte di appello, infatti, non ha attribuito alcuna rilevanza confessoria alla missiva firmata dall’Avv. Mottola, contenente una ricognizione dei beni che appartenevano alla defunta e comprendente nel novero degli stessi anche quelli per cui è causa; ma si è limitata a dare ad essa una valenza meramente indiretta, di "ulteriore indizio contrario alle testi dell’appellante", e ciò in considerazione della minuziosa esposizione di notizie ivi ricompresa, notizie "che solo la parte ha potuto dare al legale, di cui non ha mai denunciata la sleale esecuzione dell’incarico professionale". 3. – Il quarto motivo (omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia) lamenta che la Corte d’appello non abbia preso in reale considerazione la domanda riconvenzionale con cui A. I. aveva chiesto l’attribuzione della titolarità del 50% delle somme per cui è causa, in virtù della pacifica contestazione. La lettura della sentenza non conterrebbe indicazioni atte, sia sul piano logico che su quello giuridico, a supportare il decisioni.
Sostiene la ricorrente che la domanda subordinata della convenuta prescindeva dalla configurabilità della donazione indiretta, basandosi, piuttosto, sul disposto dell’art. 1854 cod. civ., ai cui sensi gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto.
3.1. – Il motivo è privo di fondamento.
La statuizione della Corte d’appello – la quale, nel rigettare le domande proposte in via riconvenzionale dalla I., ha negato che la cointestazione integri una donazione indiretta, "e ciò sia in riferimento al tutto che alla metà" – riposa, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, su una adeguata motivazione.
Essa va tratta dalla stessa argomentazione impiegata dalla Corte di Genova per confermare la pronuncia di primo grado in punto di accoglimento della domanda di I.L. e degli altri attori.
In sostanza, non avendo con la cointestazione Il.La. disposto un’attribuzione patrimoniale a titolo di liberalità in favore della sorella A. neppure in ordine alla metà delle somme di denaro e dei titoli, l’art. 1854 cod. civ. non aveva nella specie – nel ragionamento seguito dalla Corte d’appello – modo di operare, stante l’accertamento dell’esclusiva titolarità in capo alla sola defunta, indipendentemente da ogni intestazione formale, di tutti i rapporti da questa intrattenuti con la banca.
4. – Con il quinto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 cod. civ.) la ricorrente si duole di essere stata condannata anche al pagamento degli interessi legali sulle somme spettanti agli attori, nonostante dette somme non fossero nella effettiva disponibilità di essa convenuta, essendo state integralmente sottoposte a sequestro conservativo ante causam su iniziativa degli stessi attori.
4.1. – La censura – tra l’altro proposta senza neppure indicare se sulle somme depositate, e sottoposte a sequestro conservativo, la banca abbia praticato un interesse inferiore alla misura legale (cfr.
Cass., Sez. 3^, 20 dicembre 1965, n. 2466) – è infondata.
In tema obbligazioni pecuniarie, in caso di mora del debitore, gli interessi legali a norma dell’art. 1224 c.c., comma 1, sono dovuti, in favore del creditore, anche quando egli abbia ottenuto un sequestro conservativo ante causam dei beni del debitore e questo sia stato eseguito, fino a concorrenza della somma indicata nel provvedimento autorizzativo, sul conto corrente dove sono depositate le somme necessarie per l’estinzione dell’obbligazione: e ciò sia perchè, permanendo l’inadempimento del debitore, il tempo necessario per lo svolgimento del processo di merito non può andare a danno del creditore che ha ottenuto la cautela; sia perchè tale strumento cautelare, essendo diretto a conservare le ragioni del creditore sul patrimonio del debitore e ad assicurare il soddisfacimento del suo credito nella futura esecuzione forzata nelle forme dell’espropriazione, non vale, di per sè, nè ad immettere il creditore nella disponibilità giuridica della somma di danaro che a lui è dovuta nè a soddisfare direttamente il suo diritto di credito, ma tende, più semplicemente, ad impedire la sottrazione materiale o la disponibilità giuridica o la distruzione materiale dei beni del debitore con l’imposizione di un vincolo giuridico sui beni stessi tale da rendere inopponibili al creditore sequestrante tutti gli atti dispositivi e di alienazione compiuti dal debitore.
5. – Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del giudizio di cassazione sostenute dai controricorrenti, liquidate in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
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