Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 29-09-2011) 02-11-2011, n. 39546 Trattamento penitenziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 18/11/10 il Tribunale di Sorveglianza di Roma rigettava il reclamo di S.S.A., pregiudicato per gravi reati in custodia cautelare in carcere dal 15/5/08 con l’imputazione di partecipazione ad associazione di tipo mafioso (il clan Pillera- Puntina di Catania) con ruolo direttivo, avverso il Decreto Ministeriale 18/2/10 che, ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 41 bis, sospendeva nei suoi confronti alcune delle regole ordinarie del regime penitenziario.

Il Tribunale, premesso che un precedente decreto ministeriale del 28/10/08 era stato annullato su rinvio della Cassazione per la considerazione che lo S., sulla base di un’intercettazione ambientale del 3/3/06 nel carcere di (OMISSIS) il detenuto P.S. ed i familiari, risultava avere manifestato l’intenzione di interrompere ogni rapporto con la famiglia P. e che ciò significasse dissociazione dal clan, rilevava come il decreto fosse stato rinnovato ex art. 41 bis, comma 2 sexies, op, sulla base di elementi nuovi o non valutati in precedenza: – la strategia perseguita dal clan Pillerà-Puntina, evidenziata dalla DDA di Catania, del c.d. "inabissamento", nel senso di far sparire l’immagine del gruppo dal panorama delinquenziale catanese al fine di non suscitare l’attenzione della polizia giudiziaria e sfuggire alle indagini; – le gravi minacce mosse al perito, nominato nel processo per la trascrizione delle intercettazioni dei colloqui in carcere, affinchè vi fosse il massimo utilizzo della dicitura "incomprensibile"; – lo stile direttivo estremamente riservato adottato in carcere dallo S., secondo quanto riferito in dibattimento dai collaboratori di giustizia; – il linguaggio cifrato usato in alcune conversazioni, dove gli accoliti erano indicati al femminile col nome di donne della famiglia (così lo S., citato per i suoi interessi imprenditoriali nell’edilizia, diventava zia G. o zio T.); – l’amarezza manifestata dal P. non era per una presunta dissociazione dello S. dal clan, ma per il suo mancato aiuto economico (anche se nell’ambito della citata strategia dell’inabissamento) ed essa era comunque segno per gli inquirenti di un contrasto tra i due capi sui modi di gestione del gruppo; – secondo i collaboratori lo S. dava direttive sulla spartizione degli appalti pubblici tra i vari clan catanesi (così T.M.C.) e gestiva anche un gruppo mafioso in (OMISSIS) (così Pa.Sa.); – infine il tenore di vita della famiglia Strano sproporzionato ai redditi conosciuti, la latitanza di molti affiliati, la piena operatività del clan; la riconducibilità ai capi di beni ed aziende. Di qui il rigetto del reclamo avverso il nuovo decreto.

Ricorreva per cassazione la difesa dello S..

Premesso che il precedente decreto era stato annullato dal Tribunale di sorveglianza di L’Aquila il 12/1/10 su rinvio della Corte di Cassazione, deduceva: 1) violazione di legge, il decreto ministeriale (e il suo positivo vaglio giurisdizionale) dovendo essere fondato non su supposizioni (come nella specie), bensì su elementi tali da far ritenere (in concreto) la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale; 2) vizio di motivazione per l’assenza di un fatto nuovo successivo a quella dissociazione (giusta l’intercettazione in carcere tra il P. ed i familiari del 3/3/06), dichiarata e ribadita dallo stesso S. il 27/1/09 e il 12/1/10 davanti al TdS di L’Aquila (e poi ancora il 20/7/10 in pubblica udienza davanti al Tribunale di Catania), che aveva determinato l’annullamento del primo decreto; trascurato inoltre un ulteriore dato oggettivamente favorevole allo S. e cioè la recente assoluzione per non aver commesso il fatto (sentenza del 18/6/10 del Tribunale di Catania) di F.C. e di I. G.M., imputati quali capi promotori del clan "Pillerà- Putina" (la stessa esistenza del quale, inteso come super-struttura criminale della quale dicevano i collaboratori, era messa in dubbio dalle due assoluzioni). Chiedeva l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Nel suo parere scritto il PG presso la S.C. chiedeva dichiararsi la inammissibilità del ricorso.

Il ricorso è infondato e va respinto.

La L. n. 354 del 1975, art. 41 bis, comma 2 bis, sostituito dalla L. 23 dicembre 2002, n. 279, art. 2, stabilisce che i provvedimenti applicativi del regime di detenzione differenziato "sono prorogabili nelle stesse forme per periodi successivi, ciascuno pari ad un anno, purchè non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno".

L’ambito del sindacato devoluto alla Corte di Cassazione è segnato dal novellato art. 41 bis, comma 2 sexies, a norma del quale il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, l’internato o il difensore possono proporre, entro dieci giorni della sua comunicazione, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale per violazione di legge.

La limitazione dei motivi di ricorso alla violazione di legge è da intendere nel senso che il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito per ritenere giustificata la proroga, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (Sez. Un. 28/5/03, ric. Pellegrino, rv. 224611; Sez. 1, 9/11/04, ric. Santapaola, rv. 230203).

E’, invece, da escludere che la violazione di legge possa ricomprendere il vizio di illogicità della motivazione dedotto dal ricorrente, che, sotto questo profilo, non può trovare ingresso in questa sede.

Alla luce di questi principi il Collegio osserva che il ricorso, pur denunciando formalmente anche il vizio di violazione di legge, non individua singoli aspetti del provvedimento impugnato da sottoporre a censura, ma tende in realtà a provocare una non consentita nuova valutazione del merito delle circostanze di fatto, in quanto tali insindacabili in sede di giudizio di legittimità. L’ordinanza impugnata, peraltro, ha correttamente valutato gli elementi risultanti agli atti, con motivazione congrua, adeguata e priva di erronea applicazione della legge penale e processuale.

In particolare ha dato puntuale conto degli elementi nuovi (sono quelli richiamati in premessa) che contrastavano la manifestata intenzione dello S. di interrompere ogni rapporto con la famiglia Pillarà (già ragione di annullamento di un precedente decreto di proroga) e che davano una ben diversa lettura di quel manifestato intento: se non espressione di una vera e propria strategia di "inabissamento", al più di una mera divergenza tra i capi (tale essendo rimasto lo S. per le ricordate ragioni a lui specifiche confermate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia) sui modi di gestione del clan mafioso. La virulenta operatività di questo essendo altresì attestata dagli ulteriori elementi segnalati nell’ordinanza (massimamente le minacce al perito trascrittore). Evidentemente ininfluenti le vicende processuali di altri imputati di partecipazione al gruppo sia pure con ruolo direttivo ed arbitrari i dubbi che se ne vogliono trarre sull’esistenza del gruppo medesimo.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del processo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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