Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-07-2011) 02-11-2011, n. 39360

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 10 ottobre 2008, ha confermato la sentenza del Tribunale di Siracusa del 25 maggio 2002 che aveva condannato G.G., Sindaco del Comune di Augusta, alla pena di mesi otto di reclusione per il delitto di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, in relazione alla nota 7 aprile 1994 con la quale M.C. era stato, obbligato a svolgere le funzioni di architetto presso il settore urbanistico del Comune di Augusta "per esigenze di servizio", circostanza palesemente non rispondente al vero.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, e dopo essere stato rimesso in termini da questa Corte, lamentando:

a) l’inosservanza della legge penale, di quella processuale e la illogicità della motivazione con particolare riferimento alla intervenuta condanna per un reato contestato per la prima volta nel corso dell’udienza dibattimentale 12 marzo 2001 presso il Tribunale di primo grado;

b) la violazione di legge in relazione alla qualificazione del fatto ascritto come falso ideologico ex art. 479 c.p.;

c) l’illegittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3;

d) la prescrizione del reato.

Motivi della decisione

1. Deve preliminarmente essere affrontata la prospettata questione di costituzionalità, con espresso richiamo alla ordinanza 27 maggio 2010 n. 22357 con la quale la Seconda Sezione penale di questa Corte l’ha sollevata.

Ritiene il Collegio di non condividere le argomentazioni sviluppate al riguardo in tale ordinanza.

Rileva la Corte che la retroattività della lex mitior, pur avendo rango diverso dal principio d’irretroattività della norma incriminatrice, di cui all’art. 25 Cost., comma 2 abbia indubbiamente un fondamento costituzionale.

La modifica mitigatrice della legge penale per effetto di una mutata valutazione, rimessa alla scelta del legislatore, del disvalore del fatto tipico non può non riverberarsi, di norma e in ossequio al principio di uguaglianza, a vantaggio di chi ha posto in essere la condotta in un momento anteriore.

Ciò non toglie, però, che possano ricorrere ragioni che giustifichino limitazioni e deroghe al principio della retroattività della legge penale favorevole, ove sussista contemporaneamente la necessità di salvaguardare interessi contrapposti di analogo rilievo.

Non va sottaciuto che, come ha avuto modo già di sottolineare il Giudice delle leggi (v. sentenze n. 393/06 e n. 72/08), il fondamento della prescrizione risiede nell’interesse generale di non perseguire più i reati rispetto ai quali sia trascorso un periodo di tempo che, secondo la valutazione del legislatore, ha comportato l’attenuazione dell’allarme sociale e reso più difficile l’acquisizione del materiale probatorio e, conseguentemente, l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato.

In sostanza la prescrizione mira a soddisfare l’efficienza del processo e la salvaguardia dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale.

Da ciò consegue che è ammissibile la deroga al regime della retroattività delle norme che riducono i termini di prescrizione del reato se essa è coerente con la funzione assegnata dall’ordinamento all’istituto della prescrizione.

L’esclusione, ai sensi della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, dell’applicazione retroattiva della prescrizione più breve per i processi pendenti in appello o avanti alla Corte di Cassazione discende dal fatto oggettivo e inequivocabile della stadio avanzato in cui tali processi si trovano.

L’intervenuta pronuncia della sentenza di condanna di primo grado è, infatti, significativamente correlata all’istituto della prescrizione, considerato che, di norma, il materiale probatorio è stato già acquisito nel corso del relativo dibattimento (in appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è ammessa soltanto in casi eccezionali) e, quindi, la ricordata esigenza cui è correlato il fondamento della prescrizione appare essere stata già soddisfatta.

La ragionevolezza della scelta del legislatore del 2005 si muove, tra l’altro, nella prospettiva di non vanificare le attività processuali già compiute e cristallizzate, al momento dell’entrata in vigore delle nuove norme, secondo "cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi vigenti all’atto del loro compimento" e di tutelare così "interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo, come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale".

La ragionevolezza della scelta legislativa conduce a ritenere manifestamente infondata la sollevata questione di costituzionalità, con riferimento all’art. 117 Cost., in relazione alla norma interposta di cui all’art. 7 della CEDU (nel significato attribuitole dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo), in quanto il generale principio ricavabile da quest’ultima norma circa l’applicazione retroattiva della disposizione più favorevole all’imputato ben può essere derogato per soddisfare, all’esito proprio di un vaglio positivo di ragionevolezza, esigenze meritevoli di uguale tutela, che, nel caso in esame, finiscono con l’assumere un particolare rilievo, perchè gli effetti dell’istituto della prescrizione, in quanto correlati all’avanzato stadio del processo, risultano essersi definitivamente e legittimamente cristallizzati in base alla normativa previgente.

2. Quanto al merito effettivo il ricorso non è da accogliere.

In diritto si osserva come gli artt. 516 c.p.p. e segg., inseriti sotto la rubrica "Nuove contestazioni", disciplinino l’esercizio dell’azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza.

Il pubblico ministero interviene sull’imputazione enunciata nell’atto che instaura il giudizio, per adeguarla a quanto emerge dalle prove raccolte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta, corretta e/o ampliata.

Infatti, sarebbe di scarsa utilità regredire alla fase delle indagini preliminari, dato che la retrocessione del procedimento si ridurrebbe a una mera formalità con il solo scopo di riproporre l’accusa debitamente corretta, restando comunque irretrattabile l’azione esercitata.

Sarebbe, inoltre, scarsamente utile anche per la difesa, che, nel corso del dibattimento, può avvalersi del diritto di far ammettere le prove a discarico.

Orbene, effettuare una nuova contestazione è un potere esclusivo del pubblico ministero, inerente all’esercizio dell’azione penale, la cui obbligatorietà è prescritta dall’art. 112 Cost..

Inoltre, nell’ipotesi ricorrente nella fattispecie in esame di fatto diverso (art. 516 c.p.p.) o di reato concorrente connesso a norma dell’art. 12 c.p.p., comma 1, lett. a), (art. 517 c.p.p.), non è neppure richiesto il consenso dell’imputato nè l’autorizzazione del Giudice, (v. da ultimo, Cass. Sez. 6 15 ottobre 2010 n. 37577).

Quanto fin qui espresso vale, pertanto, a ritenere sicuramente infondata la doglianza, già avanzata nei gradi di merito dal ricorrente, circa la presunta violazione delle dianzi indicate norme di procedura che, al contrario, sono state pienamente rispettate e non hanno portato ad alcuna violazione del diritto alla difesa se è vero che il ricorrente si è ben difeso in merito alla nuova contestazione già dal primo grado di giudizio.

3. Anche il secondo motivo del ricorso è infondato.

In tema di falso ideologico, fattispecie di cui è espressione normativa l’art. 479 c.p. che, nel caso di specie, si è concretata nella falsa attestazione contestata al Sindaco G. circa la sussistenza, in realtà non effettiva, delle esigenze di servizio che portarono all’emanazione di una nota di affidamento delle mansioni di architetto presso il settore urbanistico in capo a M.C. si osserva quanto segue.

Secondo la difesa la estraneità di un atto di valutazione, quale può essere la decisione del Sindaco dianzi evidenziata con riferimento alle esigenze di servizio, dal paradigma normativo di cui all’indicato art. 479 c.p. discende dalle sue stesse caratteristiche, sprovvista com’è di contenuti riproduttivi e di funzioni di documentazione.

Mentre, infatti, la rappresentazione è attività "neutra", la valutazione, quando sia veramente tale, implica sempre una interpretazione dei dati della realtà: essa non tende a riprodurre l’accaduto, perchè, di regola, è preordinata, mediante l’accostamento di un fatto a determinati parametri, a svelare dati o valori, ricavati dalla complessità, consistenza e posizione del fatto medesimo.

Tale interpretazione risulta, però, ormai superata dalla più recente giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. Sez. 5 24 gennaio 2007 n. 15773 in tema di valutazioni mediche e Sez. 6 13 febbraio 2008 n. 23978 proprio in tema di valutazioni di organi comunali).

Si osserva, infatti, come la formazione di un giudizio di valore richieda lo svolgimento di una serie di attività collegate, sicchè è opportuno che l’interprete verifichi la riconducibilità di queste ultime alla fattispecie del falso ideologico.

Tali attività sono state individuate prima di tutto nella acquisizione di dati (la raccolta e selezione dei dati necessari al giudizio effettuata dall’agente incaricato di svolgere una valutazione) e nella rappresentazione dei dati medesimi, che individua il momento successivo in cui l’agente fissa i risultati acquisiti nel documento con il quale rappresenta il procedimento valutativo.

Si tratta di operazioni che, di regola, precedono l’attività valutativa in senso stretto, ove l’agente elabora i dati, verificandoli o accostandoli con altri attraverso strumenti anche a contenuto scientifico, al fine di esprimere un giudizio conclusivo.

Ciò non può non avere conseguenze in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 479 c.p., in quanto la attività di rappresentazione dei dati è chiaramente in grado di rivestire i caratteri di tipicità che individuano il delitto di falso ideologico.

In definitiva, il pubblico ufficiale che, nel documentare la attività valutativa di cui è incaricato, dichiari, per esempio, di avere assunto dati diversi da quelli realmente acquisiti ovvero affermi di avere utilizzato elementi in realtà inesistenti, compie certamente una falsa attestazione.

Ne deriva che il reato di cui all’art. 479 c.p. ben può sussistere nella ipotesi in cui l’agente, dopo avere raccolto alcuni dati a fini valutativi, rappresenti in modo difforme dal vero lo svolgimento di tale attività.

Al contrario, non sembrano poter rientrare in detta fattispecie criminosa la attività di acquisizione di dati presa in sè e per sè (a prescindere dalla rappresentazione che se ne faccia) e quella di valutazione in senso stretto.

Trattandosi di attività inerenti alla elaborazione del giudizio è evidente che, fuori dalla ipotesi in cui la loro rappresentazione diverga dal vero "fattuale", esse, non costituendo un momento certificatorio ed essendo sprovviste di contenuti asseverativi, esprimono "giudizi", che non si pongono rispetto alla realtà in termini di esistenza/inesistenza, come i fatti indicati nell’art. 479 c.p..

Correttamente, pertanto e alla luce di quanto fin qui espresso, la Corte territoriale dalla non contestata inesistenza delle esigenze di servizio ha fatto discendere una falsa attestazione contenuta nella nota emessa dal Sindaco il 7 aprile 1994, in quanto basata su di un falso presupposto rappresentativo di un fatto non conforme alla realtà. 4. Infine, con riferimento all’ultimo motivo di ricorso, neppure può affermarsi l’intervenuta prescrizione dell’ascritto reato.

Applicando i vecchi termini di prescrizione, a cagione dell’epoca di commissione del reato (7 aprile 1994) e della emanazione della sentenza di prime cure (25 marzo 2002), si determina la scadenza ordinaria alla data del 7 aprile 2009 (art. 157 c.p., n. 3 vecchio testo) cui devono, però, aggiungersi, quanto al primo grado sospensioni per 9 mesi e 13 giorni (udienze 10 novembre 1998 – 23 febbraio 1999 e 23 febbraio 1999 – 22 giugno 1999 per astensione difensori e 17 dicembre 2001 – 18 febbraio 2002 per rinvio su istanza della difesa) e quanto al secondo grado sospensioni per 19 mesi e 12 giorni (udienze 20 febbraio 2007 – 15 maggio 2007 attesa decisione Corte Costituzionale, 15 maggio 2007 – 16 ottobre 2007 rinvio malattia difensore, 16 ottobre 2007 – 22 gennaio 2008 e 22 gennaio 2008 – 5 maggio 2008 impedimento difensore, 5 maggio 2008 – 24 giugno 2008 trattative con la parte civile).

Aggiungendo, pertanto, i suddetti 2 anni 4 mesi e 25 giorni di sospensione alla data del 7 aprile 2009 si ottiene il definitivo termine prescrizionale del 1 settembre 2011, all’evidenza non ancora scaduto.

Il tutto senza neppure considerare che, nell’ipotesi di restituzione in termini ex art. 175 c.p.p., non deve tenersi conto ai fini prescrizionali del tempo intercorso tra la notifica della sentenza contumaciale e la notifica alla parte dell’avviso di deposito dell’ordinanza che concede la restituzione (v. Cass. Sez. 2 18 ottobre 2007 n. 5981).

5. Dal rigetto del ricorso deriva, inoltre, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara manifestamente infondata la proposta questione d’incostituzionalità. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del procedimento nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1.200 per onorari, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *