Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-05-2012, n. 7016 Cosa gravata da garanzie reali o altri vincoli

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 1997 S.R. e S. M.L. esposero di essere assegnatane di un alloggio sito nell’edificio di proprietà della s.coop. CI.D.IM, in Via della (OMISSIS), dopo che le relative quote erano state acquistate, con scrittura privata del 5 giugno 1991, dai loro genitori, che gliele avevano intestate, da P.M.T. e V.A.; che, in occasione di un’assemblea, avevano appreso la presenza nell’immobile di difformità edilizie nel piano interrato; che, con lettera del 15 marzo 1995, le cedenti avevano comunicato di avere provveduto a loro cura e spese al condono edilizio per il cambio di destinazione d’uso ed a pagare la loro quota dell’imposta di registro; che successivamente la società cooperativa aveva tuttavia rimborsato, su loro richiesta, quanto pagato dalle cedenti, pari alla somma di L. 9.948.618, e preteso il pagamento della stessa somma da parte delle istanti. Tanto premesso, convennero in giudizio P.M.T. e V.A. nonchè la società CI.D.IM in liquidazione chiedendone la condanna in solido al rimborso di quanto pagato, oltre rivalutazione ed interessi, ed al risarcimento dei danni.

Costituitesi in giudizio, P. e V. si opposero alla domanda, e, sostenendo che la lettera del 15 marzo 1995 da loro inviata alle controparti costituiva soltanto una proposta di transazione della lite, in cui l’assunzione del debito relativo alla somma pretesa era stato da loro condizionato al pagamento del saldo prezzo relativo alla cessione delle quote, patto questo non accettato dalla controparte e comunque non adempiuto, chiesero in via riconvenzionale che la transazione fosse dichiarata inefficace per mancata accettazione o, in subordine, che fosse dichiarata risolta per inadempimento delle attrici.

Esaurita l’istruttoria con la produzione di documenti e le prove orali, il Tribunale di Roma respinse la domanda principale svolte nei confronti delle parti convenute e, in accoglimento di quella subordinata, condannò le sole P. e V. al risarcimento dei danni, che liquidò nella somma di Euro 5.138,03, disattendendo anche la domanda riconvenzionale proposta da queste ultime.

Interposto gravame, con sentenza n. 2283 del 29 maggio 2008 la Corte di appello di Roma confermò la pronuncia di primo grado, affermando che le convenute erano tenute a garantire le acquirenti dell’esborso sopportato, tenuto conto che al momento della cessione delle loro quote l’abuso edilizio risultava già consumato e che, inoltre, le cedenti, con la lettera del 15 marzo 1995, si erano espressamente impegnate a ristorare la controparte degli oneri relativi, aggiungendo che a tale dichiarazione non risultava condizionata ad alcuna controprestazione, rappresentando il riferimento in essa contenuto al pagamento dell’ultima rata del prezzo una mera sollecitazione a provvedere al suo adempimento.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 13 maggio 2009, ricorrono P.M.T. e V.A., affidandosi a due motivi, illustrati da successiva memoria.

Resistono con controricorso S.R. e S.M. L..

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione, lamentando che la sentenza impugnata abbia accolto la domanda delle controparti sulla base del rilievo che non risultava che, al momento della cessione delle quote, la parte interrata "costituisse ancora uno scantinato e non pure un locale già trasformato in sala hobby", omettendo di considerare che nessun cenno a tale trasformazione è dato rinvenire nel contratto di cessione delle quote del 1991, ove anzi i cessionari dichiaravano di avere visitato l’alloggio e le parti comuni esterne e di averle trovate di loro gradimento. Sotto altro profilo, si deduce che il contratto intercorso tra le parti aveva ad oggetto la mera cessione delle quote e non il trasferimento di un preciso appartamento, sicchè doveva escludersi un obbligo di garanzia delle cedenti relativamente alla conformità edilizia del bene che solo successivamente, nel 1995, venne assegnato alla controparte Il motivo appare in parte infondato ed in parte inammissibile.

La censura che contesta, sotto il profilo del vizio di motivazione, l’accertamento della Corte di merito in ordine all’anteriorità dell’abuso edilizio rispetto al contratto di cessione intervenuto tra le parti risulta infondata, avendo il giudice a quo adeguatamente fondato la sua affermazione di preesistenza dell’abuso sul rilievo in fatto, non contestato, che la domanda di condono edilizio era stata presentata nel 1986, mentre l’atto di trasferimento risaliva al 1991.

Il riferimento fatto dal ricorso alla clausola di gradimento del bene inserita nell’atto di cessione deve invece considerarsi inammissibile, in quanto deduzione nuova, non consentita dinanzi al giudice di legittimità, implicando essa una valutazione in fatto. Di tale eccezione non vi è infatti menzione nella sentenza impugnata e il ricorso non deduce di averla già proposta nel corso del giudizio di merito. Si osserva, comunque, che essa non investe un fatto decisivo per il giudizio, sotto il profilo del dedotto vizio di motivazione, in quanto, anche laddove non debba essere considerata clausola di mero stile, essa non dimostra che l’abuso in atto fosse conosciuto o conoscibile da parte dei cessionari.

L’ulteriore doglianza, incentrata sul particolare oggetto del contratto intercorso tra le parti, rappresentato dalla cessione di quote della società cooperativa, è invece inammissibile per genericità, non risultando accompagnata da alcuna argomentazione diretta ad illustrare la specifica rilevanza di tale dato ai fini della risoluzione della presente controversia. La censura, comunque, sembra denunziare non un vizio di motivazione, ma semmai una violazione di legge, per quanto attiene alla sussistenza dell’obbligo di garanzia discendente dalla vendita, che però non è dedotta in maniera specifica.

Il secondo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione, assumendo che la Corte di appello ha erroneamente interpretato, travisandola, la lettera del 15 marzo 1995, la quale conteneva una mera proposta di transazione, avendo le cedenti manifestato la loro disponibilità ad assumersi gli oneri legati alla pratica di condono soltanto a condizione che la controparte provvedesse al sollecito pagamento della parte residua del prezzo. La Corte non ha poi considerato, a tal fine, la successiva lettera del 12 luglio 1995, che invitava ancora una volta i cessionari all’adempimento, e la stessa richiesta inviata alla Cooperativa di restituzione di quanto pagato, da cui si evinceva chiaramente che l’assunzione dell’obbligo delle cessionarie era condizionato al pagamento del prezzo residuo.

Il motivo è inammissibile.

Dalla lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte romana ha giustificato l’accoglimento della domanda delle attrici in ragione della sussistenza a carico delle cedenti dell’obbligo di garanzia per la conformità edilizia dell’immobile le cui quote era state cedute, mentre ha richiamato la lettera del 15 marzo 1995 soltanto a sostegno e conferma di tale obbligazione, attribuendole sostanzialmente gli effetti di un atto ricognitivo del debito. Ne deriva che il rigetto del primo motivo, lasciando ferma la prima argomentazione, fondata appunto sull’esistenza di un obbligo di garanzia, rende privo di interesse l’ulteriore mezzo che contesta l’interpretazione della suddetta missiva, atteso che la soluzione accolta dal giudicante trova comunque già adeguato sostegno sulla prima affermazione, che costituisce un’autonoma ratto decidendo. Costituisce orientamento assolutamente pacifico di questa Corte, che nella specie deve trovare ulteriore conferma, che ove una sentenza o un capo di essa si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure. E’ sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (Cass. 18 maggio 2005, n. 10420; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2274; Cass. 26 maggio 2004, n. 10134).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza delle ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 1.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *