Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-07-2011) 03-11-2011, n. 39749

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con sentenza resa il 15.5.2006 all’esito di giudizio ordinario il Tribunale di Milano ha dichiarato M.V.M. colpevole del delitto di induzione dell’imputato di reato connesso (coimputato separatamente giudicato) A.R. ad astenersi dal rendere dichiarazioni (come in sua facoltà ex art. 210 c.p.p., comma 4) ovvero a non rendere dichiarazioni accusatorie a suo carico nel giudizio di primo grado in corso di svolgimento nei suoi confronti per concorso, con lo stesso A. ed altri soggetti, in plurimi fatti di bancarotta fraudolenta (avendo, in qualità di ragioniere commercialista di quattro società amministrate di fatto dall’ A., tenuto la documentazione e la contabilità societarie in modo da ritardare i fallimenti ovvero depositandola in ritardo, così da consentire all’ A. e ai complici di effettuare rilevanti acquisti con pagamenti differiti di numerose merci e di rivenderle in nero con distrazione dei relativi incassi, altresì predisponendo contabilmente la vendita clandestina delle merci). Reato punito dall’art. 377 bis c.p., in cui il Tribunale ha ritenuto assorbito il concorrente o – più propriamente – alternativo reato di tentata estorsione in danno del medesimo A. (in giudizio sono stati riuniti due separati procedimenti instaurati nei confronti dell’imputato) pure contestato al M.. Per l’effetto questi è stato condannato alla pena di due anni di reclusione.

Condotta induttiva criminosa integrata dalla offerta e promessa rivolta all’ A. prima dell’udienza dibattimentale del 19.12.2003, in cui questi è stato citato per essere esaminato quale imputato di reato connesso (coimputato negli stessi fatti reato), come rivelato dallo stesso A. nella successiva udienza del 23.4.2004, della somma di denaro di Euro 60.000,00 per estinguere l’ipoteca accesa da esso M. su un immobile in comproprietà della moglie dell’ A. ( Z.M.), che lo aveva a lui fittiziamente intestato per sottrarlo alla massa fallimentare della società Il Semaforo di Zambelli Milena s.a.s. Offerte e promessa di denaro o comunque di una remunerazione fatte giungere all’ A. per il tramite del suo difensore, avv. T.P., e della moglie Z.M. (alla quale, secondo le iniziali prospettazioni accusatorie, avrebbe perfino promesso la somma di 500.000 Euro in cambio del "silenzio del marito" A.).

2.- Adita dall’impugnazione del M., la Corte di Appello di Milano con sentenza emessa il 22.9.2010 ha condiviso le conclusioni valutative del Tribunale ed ha confermato la sentenza di condanna di primo grado. In particolare i giudici del gravame, ricordata la rilevanza della deposizione testimoniale di A., coimputato nei medesimi reati societari, nel dibattimento del giudizio di primo grado svoltosi nei confronti del M. (condannato dal Tribunale di Milano il 16.7.2004 alla pena di cinque anni di reclusione, appellante) e ù dunque – lo specifico "interesse" dell’imputato a non veder compromessa la propria posizione dalle prevedibili dichiarazioni accusatorie dell’ A. (a sua volta già condannato per le vicende relative ad una delle società da lui gestite alla pena di sei anni di reclusione), hanno considerato infondate le critiche svolte con l’atto di appello sulla concludenza probatoria degli elementi sui quali è stata imperniata la responsabilità del M. per il reato di cui all’art. 377 bis c.p..

Elementi confermati nella loro efficacia dimostrativa dalla Corte ambrosiana, che le due conformi sentenze di merito ritengono integrati: a) dalle confermative dichiarazioni dibattimentali del coimputato connesso "indotto" A. e della moglie Z. M., i quali – pur minimizzando l’efficacia degli interventi "invitanti" al silenzio del M. (non essendosene sentiti minacciati, donde la già avvenuta esclusione della ipotesi di tentata estorsione) – hanno attestato le profferte dell’imputato – al fine di assicurarsi un silente o non sfavorevole atteggiamento testimoniale dell’ A. – di farsi carico di estinguere le ipoteche iscritte sull’immobile a lui fiduciariamente intestato dai coniugi A. – Z. (avendo già "retrocesso" la sua fittizia quota di proprietà dell’immobile al figlio dell’ A. nel maggio 2003);

b) dalle dichiarazioni testimoniali dell’avv. T.P., difensore dell’ A. (detenuto all’epoca della sua citazione in giudizio ex art. 210 c.p.p.), sul "messaggio" ricevuto dal M. e destinato all’ A. di essere pronto ad onorare i propri impegni debitori verso di lui, purchè nel corso della deposizione dibattimentale "non infierisse nei suoi confronti"; c) dalle vistose reazioni gestuali di dissenso manifestate nell’udienza del 19.12.2003 dal M. (nel processo a suo carico per bancarotta), allorchè l’ A. accetta di rendere l’esame assistito quale imputato di reato connesso, tanto da essere prontamente richiamato e ammonito dal presidente del collegio (come si evince dal verbale di udienza); d) dall’implausibilità della tesi difensiva del M., che cerca di "rovesciare la situazione", sostenendo essere stata la moglie di A. a minacciare che, ove non avesse estinto le ipoteche gravanti sul cespite già intestatogli, il marito avrebbe reso "una deposizione tale da inguaiarlo" (così la sentenza di primo grado).

3.- Avverso la decisione di appello il difensore dell’imputato M.V. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione di seguito riassunti per gli effetti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. 1. Error in procedendo della sentenza di appello per omessa applicazione della regola valutativa prevista dall’art. 192 c.p.p., comma 3.

Nel processo svolgentesi nei confronti del M. per fatti di bancarotta fraudolenta A.R., già coimputato, è stato chiamato a deporre come imputato di reato connesso, "ciò che configura la sua deposizione come chiamata di correo ai sensi e per gli effetti dell’art. 192 c.p.p., comma 3". La Corte di Appello ha omesso di porsi il problema della doverosa verifica, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, della credibilità e della intrinseca consistenza delle dichiarazioni dell’ A.. Non è possibile procedere alla sequenziale valutazione delle dichiarazioni accusatorie e al controllo dei riscontri esterni, se prima non siano chiariti i dubbi sulla attendibilità intrinseca della chiamata di correo. La sentenza impugnata non fornisce alcuna valutazione in merito sulla intrinseca credibilità dei testimoni A. e Z.M..

2. Insufficienza, contraddittorietà e illogicità della motivazione sul valore anche minatorio dei gesti di "disappunto" assunti dal M. a fronte delle dichiarazioni giudiziali dell’ A..

L’interpretazione del comportamento dell’imputato effettuata dalla sentenza di appello e dalla precedente sentenza di primo grado è erronea e apodittica, perchè enfatizza senza ragione dei semplici segni di disapprovazione dei contenuti delle dichiarazioni di A. "non interpretabili come un tacito invito a non parlare". La Corte territoriale non si è confrontata con i rilievi al riguardo espressi con l’appello.

3. Manifesta illogicità della motivazione in riferimento al valore riconoscibile alla sentenza di condanna non definitiva riportata dal ricorrente nel giudizio in cui è stato imputato di fatti di bancarotta fraudolenta.

I giudici di appello hanno erroneamente ritenuto destituito di fondamento il rilievo espresso con l’appello in punto di impropria valutazione, in palese inosservanza dell’art. 238 bis c.p.p., della sentenza di condanna in primo grado per bancarotta del M., utilizzata come dato rappresentativo del movente o della causa scatenante del suo comportamento sussunto nella attuale contestata fattispecie di cui all’art. 377 bis c.p.p.. La sentenza di appello si limita a definire non rilevante la circostanza della non definitività della condanna per bancarotta riportata dal M. senza ulteriori specificazioni.

4. Difetto e/o contraddittorietà della motivazione con riguardo al mutamento delle dichiarazioni accusatorie ex art. 377 bis c.p. rese dall’ A. dopo l’emersa circostanza (grazie alla produzione difensiva del relativo atto notarile) dell’avvenuta cessione, fin dal 16.5.2003, della quota di proprietà dell’immobile della Z. a lui intestato in via fiduciaria effettuata dal M. in favore di A.T., figlio di A.R.. Non può non rilevarsi che, alla luce di tale evenienza, l’ A. ha finito per escludere di aver mai subito effettive minacce dal M. al fine di fargli rendere false dichiarazioni in suo vantaggio nel processo per bancarotta.

5. Con atto depositato in cancelleria il 31.3.2011 il difensore del M. ha presentato "motivi nuovi e aggiunti" di ricorso, con i quali sono ripresi ed approfonditi, con il supporto di massime di decisioni di questa S.C., i precedenti quattro motivi di impugnazione, in particolare segnalandosi come (in additiva estensione del quarto motivo di ricorso) le dichiarazioni dibattimentali dell’ A. e della Z. valgano a deprivare di penale rilevanza il contegno dell’imputato, di cui nessuno dei due ha avvertito, neppure in forma implicita, alcuna specifica valenza intimidatoria o altrimenti induttiva di una "testimonianza" mendace dell’ A..

4.- Il ricorso di M.V. va rigettato per l’infondatezza delle delineate censure, che per più versi lambiscono i confini della inammissibilità per impropria e non consentita rivalutazione in punto di fatto delle fonti probatorie ovvero per carenza di specificità (il ricorso originario e i motivi aggiunti sono in più passaggi intercalati dalla estesa trasposizione di brani dell’atto di appello contro la prima sentenza e di molteplici massime giurisprudenziali di legittimità non sempre pertinenti al thema decidendum).

1. La censura concernente l’omessa applicazione dei criteri di valutazione della prova elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di chiamata di correo ex art. 192 c.p.p., comma 3, è chiaramente infondata e, nella sua non chiara decifrabilità sistemica, distonica rispetto all’effettiva regiudicanda dell’odierno processo. In questo le dichiarazioni accusatorie dell’imputato connesso A.R. non integrano alcuna chiamata in correità del M., ma piuttosto e soltanto una chiamata in reità o, più esattamente, dichiarazioni accusatorie in ordine alle offerte e promesse "allettatrici" consumate nei suoi confronti ex art. 377 bis c.p., allo scopo di farlo tacere (avvalendosi della facoltà di non rispondere riconosciutagli dall’art. 210 c.p.p.) o di rendere dichiarazioni compiacenti nei suoi confronti nel processo per bancarotta fraudolenta, questa essendo la sola sede processuale nella quale le dichiarazioni dell’ A. (coimputato o concorrente nei medesimi fatti di bancarotta fraudolenta contestati a M.) possono qualificarsi come chiamanti in correità il ricorrente ed apprezzabili – per l’effetto – ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3. Tema processuale che è, invece, estraneo all’attuale giudizio per il reato di cui all’art. 377 bis c.p.p.. Avuto riguardo alle considerazioni incidentali sviluppate dalle due conformi sentenze di merito del presente giudizio sulla significanza accusatoria delle rivelazioni dell’ A. per i reati societari e agli oggettivi riscontri che le stesse rinvengono in altre fonti probatorie (la copiosa documentazione societaria e d’altra natura sequestrata presso lo studio del M.), le accuse dell’ A. al M. ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, si esauriscono nel contesto processuale dell’originario giudizio in cui A. è stato chiamato a rendere dichiarazioni nella sua qualità di imputato connesso o collegato.

Nel giudizio per cui è oggi ricorso l’ A. è semplicemente il soggetto passivo, seppure in ragione della sua anteatta veste di imputato di reato connesso (ciò che, limitatamente a tale profilo del destinatario della condotta illecita, vale a definire il reato sanzionato dall’art. 377 bis c.p., come una specie particolare di reato "proprio"), della condotta istigatoria o allettatrice posta in essere nei suoi confronti in forma diretta (gesti e ammiccamenti rivoltigli in udienza nella fase iniziale del suo accettato esame dibattimentale) o mediata, ma non meno efficace (dirette promesse effettuate alla moglie dell’ A., messaggi espliciti rimessi al suo difensore). In tale giudizio le dichiarazioni dell’ A. rivestono peculiare natura testimoniale e come tali vanno valutate con l’ovvia inferenza della verifica della loro linearità e credibilità secondo i generali criteri di apprezzamento fissati dall’art. 190 c.p.p., e art. 192 c.p.p., comma 1, per simili prove dichiarative. Nondimeno, è solo il caso di osservare, al giudizio di piena attendibilità testimoniale dell’ A., che comunque ha confermato in dibattimento l’iniziativa promissoria strumentale assunta nei suoi riguardi dall’imputato, la Corte di Appello e in precedenza il Tribunale hanno sovrapposto la rilevata compresenza di plurimi dati di "riscontro" (esterni) costituiti dalle confermative dichiarazioni della moglie dell’ A. e del suo legale nonchè dallo stesso atteggiamento assunto nell’originario giudizio dibattimentale dal M..

2. Il secondo motivo di impugnazione, attinente alla considerazione in chiave accusatoria del contegno tenuto dal M. nel momento in cui A. decide di rendere dichiarazioni nel processo per i fatti di bancarotta (plateale dissenso e proteste verbali mosse al coimputato – testimone assistito e "ammiccamenti" più o meno espliciti), non è deducibile in questa sede di legittimità, poichè investe una problematica tipicamente fattuale di interpretazione di un comportamento materiale, certamente non ripercorribile nel presente giudizio. Alcun pregio è al riguardo riconoscibile al rilievo secondo cui la sentenza impugnata non offrirebbe adeguate risposte alle osservazioni critiche svolte sul punto con l’atto di appello contro la sentenza di primo grado, quando si constati che le stesse si incentrano sul preteso carattere di neutralità del contegno gestuale dell’imputato. Interpretazione o spiegazione che le due conformi sentenze di merito non condividono, motivatamente e con piena logica individuando in tale contegno l’espressione del disappunto del M. per l’atteggiamento dichiarativo di A. (che non si avvale della facoltà di non rispondere) e – al tempo stesso – la traccia della serietà dell’offerta o promessa "induttiva" (art. 377 bis c.p.) rivolta dall’imputato allo stesso A. secondo le sue stesse aspettative (tanto da non riuscire a trattenere la sua sorpresa e contrarietà per l’atteggiamento del correo).

3. Infondato va ritenuto il motivo di censura relativo all’asserita utilizzazione probatoria della sentenza di condanna pronunciata nei confronti del M. per concorso in bancarotta fraudolenta, sebbene non definitiva, in violazione dei limiti applicativi dell’art. 238 bis c.p.p.. Nè risulta giustificato il rilievo sulla mancata risposta della Corte di Appello all’omologo motivo di gravame, semplicisticamente giudicato irrilevante.

La sentenza di appello, in vero, non riprende in motivazione il passaggio della decisione di primo grado sul movente della condotta criminosa del M. ai sensi dell’art. 377 bis c.p., desunto dal peso delle dichiarazioni accusatorie (chiamata in correità) rese dal coimputato A. in quel processo e fatta palese appunto dalla sentenza di condanna emessa dal Tribunale il 16.7.2004, sebbene non si sia trattato di una valorizzazione dell’atto decisorio come "prova" del fatto reato ex art. 377 bis c.p., nei termini disciplinati dall’art. 238 bis c.p.p., ma di un semplice e legittimo riferimento documentale alla vicenda che rappresenta l’antefatto storico in cui si è sviluppata la collegata illecita condotta istigatrice o subornatrice dell’imputato.

I giudici di appello hanno osservato, in tal modo fornendo adeguata risposta al corrispondente motivo di gravame, che i comportamenti tenuti dal M. nel processo per bancarotta e divenuti rilevanti ai fini della prova del reato ex art. 377 bis c.p., sono desumibili non dalla sentenza di condanna non definitiva, ma semplicemente e soltanto dal verbale di udienza del processo per bancarotta e dalla relativa trascrizione fonica (udienze: del 19.12.2003, del 19.2.2004 di mero rinvio, del 23.4.2004). Di tal che, a tutto voler concedere, la "sentenza" di condanna per bancarotta è stata "utilizzata" come mero documento (pubblico) dimostrativo di fatti storici oggettivi (contegno processuale dell’imputato e accuse rivoltegli ex art. 377 bis c.p., dall’ A.) in esso (rectius nei verbali dibattimentali) descritti. Con modalità, quindi, perfettamente legittime ai sensi dell’art. 238 c.p.p., comma 1, e non già dell’art. 238 bis c.p.p., erroneamente evocato dal ricorrente (cfr.: Cass. Sez. 3^, 1.12.2009 n. 49595, rv. 245746; Cass. Sez. 5^, 22.1.2010 n. 11905, rv. 246550).

4. Infondato, ai limiti della indeducibilità (per le sue spiccate valenze meramente fattuali), è il quarto e ultimo motivo di doglianza, ripreso più diffusamente nei motivi "nuovi e aggiunti" di ricorso, afferente alle discrasie e antinomie che avrebbero contraddistinto le dichiarazioni dibattimentali dell’ A. e della moglie Z.. In realtà la sentenza impugnata, richiamando al riguardo la più estesa e condivisa motivazione della sentenza del Tribunale, non disconosce lo scarso credito che le promesse di estinzione delle ipoteche e perfino di una mirabolante offerta di denaro alla Z. (che l’ A. definisce impietosamente fantasiosa, che il M. "non ha neanche gli occhi per piangere") hanno a suo tempo riscosso presso l’ A. e la consorte, ma evidenzia la linearità narrativa del loro comune assunto (riscontrata, si è detto, dall’avv. T. e dallo stesso contegno processuale del M.) nel tratteggiare le univoche e ripetute iniziative dello stesso M. per strumentalizzare le dichiarazioni dibattimentali (nel processo per bancarotta) di A.R. in proprio vantaggio. Iniziative che, con logicità e coerenza giuridica, sono senz’altro ritenute integrare la consumazione della contestata fattispecie di cui all’art. 377 bis c.p..

5. Sotto quest’ultimo aspetto le connotazioni nomofilattiche del giudizio di legittimità impongono di correggere una imprecisa affermazione dell’impugnata sentenza di appello, sebbene la stessa non sia oggetto di uno specifico motivo di ricorso del M., salvo ricondurne la criticità nell’alveo della generale (e generica) censura di dedotta insussistenza dell’ascritto reato di induzione all’esercizio della facultas tacendi ovvero a rendere dichiarazioni mendaci o comunque favorevoli al soggetto agente.

La sentenza di secondo grado, sovrapponendo statuizioni di legittimità che riguardano la contigua ma diversa fattispecie di intralcio alla giustizia (già subornazione) di cui all’art. 377 c.p., ipotizza – riprendendo analogo argomento della sentenza di primo grado – che la fattispecie sanzionata dall’art. 377 bis c.p., in quanto reato a tutela anticipata della genuinità delle prove dibattimentali (reato di pericolo), non consentirebbe la configurabilità del tentativo. Tale affermazione è impropria o quanto meno imprecisa, dal momento che i non numerosi precedenti giurisprudenziali di legittimità sulla fattispecie in esame propendono ad evidenziarne la struttura di reato di evento con conseguente possibilità di rendere configurabile il tentativo punibile. Se l’evento del reato è costituito dalla induzione a tacere o a mentire di un testimone qualificato (ex art. 197 c.p.p., comma 1, o art. 210 c.p.p.), le cui dichiarazioni siano "utilizzabili nel procedimento penale" (come recita l’art. 377 bis c.p.p.), il reato ex art. 377 bis c.p. – ove l’induzione non sia stata accolta – rimarrebbe confinato allo stadio del tentativo incompiuto (art. 56 c.p.: "…l’evento non si verifica"). La tematica è affrontata in termini espressi da una recente decisione di questa Corte regolatrice (Cass. Sez. 6, 25.11.2010 n. 45626, rv. 249371), che – richiamando un precedente in materia cautelare (Cass. Sez. 6, 12.7.2006 n. 32633, Lucchetta, rv. 234876) – ha analizzato i caratteri distintivi della fattispecie, sostanzialmente riconoscendone la natura di reato di evento e la punibilità anche a titolo di tentativo.

Senonchè la questione della effettiva natura della fattispecie (reato di pericolo o di evento), correlata alla sua specifica struttura normativa di fattispecie plurisoggettiva (o a concorso necessario), con la peculiare punibilità del solo "induttore" e – almeno in apparenza – non anche dell’indotto dichiarante (in ipotesi falso o falsamente silente), merita un approfondimento che esulta dalla presente analisi.

In questa sede, in relazione alla regiudicanda oggetto di ricorso, è sufficiente – da un lato – precisare che il reato di cui all’art. 377 bis c.p., ha carattere residuale ("salvo che il fatto costituisca più grave reato") e che in concreto la prova del reato consumato o del solo tentativo di reato diviene a dir poco ardua, necessariamente rinviando ad una postuma valutazione, a stretto rigore extraprocessuale (siccome attinente agli sviluppi del diverso processo presupposto in cui è resa la deposizione), della veridicità delle dichiarazioni rilasciate dal testimone qualificato illecitamente "indotto". E ciò nel solo caso in cui questi non abbia deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere anche per effetto di una illecita induzione ad esercitare tale facoltà. Da un altro lato l’art. 377 bis c.p., è fattispecie a condotte multiple e alternative, tra le quali rientrano le semplici "offerte" o "promesse" di denaro od altra utilità nei confronti del soggetto "indotto" (potenziale soggetto passivo del reato). Situazioni in cui, per quanto chiarito in precedenza, ricade senza alcun dubbio l’illecito comportamento attuato dal M., che già di per sè è produttivo di una insidiosa alterazione della dinamica processuale della formazione dibattimentale della prova idonea a consumare il reato, irrilevante mostrandosi l’evenienza per cui il silenzio o le affermazioni false del testimone qualificato abbiano effettivamente inciso sulla decisione adottata nel processo presupposto, siccome frutto dell’illecito accordo tra l’induttore e l’indotto destinatario di offerte o promesse di utilità. Ciò che in ultima analisi ripropone in parte qua, quanto alle condotte di offerta e di promessa, una intrinseca connotazione di pericolosità (e di connessa tutela penale anticipata) della fattispecie criminosa, che impedisce di discernere e selezionare il mero tentativo punibile.

Al rigetto dell’impugnazione segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 19 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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