Cons. Stato Sez. III, Sent., 07-12-2011, n. 6446 Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Sig. C. A., con ricorso notificato il 1.8.1994, chiese l’accertamento del diritto di percepire le retribuzioni, ed ogni altro elemento economico accessorio, con conseguente condanna al relativo pagamento, per il periodo, dal 16.4.1982 al 24.9.1989, nel quale illegittimamente era stato allontanato dal servizio, prima che il giudice amministrativo annullasse il relativo atto, permettendogli così di superare positivamente il periodo di prova.

Dedusse, in particolare, la circostanza che l’Amministrazione (l’ULSS 16 Venezia, poi soppressa), nel dare atto del superamento della prova, dopo la riammissione in servizio, avesse stabilito come decorrenza la data del 25.9.1999 anziché quella originaria, di inizio della prova, del 16.4.1982.

2. Con sentenza del 18.11.1998 il Tar respinse il ricorso sul duplice rilievo che, per un verso, la delibera di inquadramento del 16.12.1989 non fosse stata impugnata e che, per altro verso, la giurisprudenza sulla restitutio in integrum invocata dal ricorrente non si attagliasse al caso di specie, sul presupposto che alla data di illegittima cessazione il rapporto di lavoro non si fosse ancora costituito stabilmente, siccome sottoposto al periodo di prova.

3. Con il presente appello, notificato anche nei confronti dell’ASL n. 12 e della Regione Veneto, si censura la sentenza per entrambi i profili.

Si sostiene, da un lato, che la ricordata delibera del 16.12.1989 nulla avesse stabilito quanto al termine di decorrenza e, dall’altro, che il patto di prova dovesse considerarsi alla stregua di una condizione risolutiva apposta ad un rapporto di lavoro unitario e già pienamente efficace.

Ha resistito all’appello la gestione liquidatoria della soppressa ULSS n. 16, con articolata memoria difensiva nella quale si sottolinea la differenza tra l’illegittima interruzione del lavoro già in corso e l’illegittimo diniego di costituzione di un nuovo lavoro.

All’udienza pubblica del 28.10.2011, in vista della quale le difese hanno presentato ulteriori memorie, la causa è passata in decisione.

4. Osserva preliminarmente il Collegio come la vicenda qui in esame tragga origine dalla cessazione dal servizio, disposta nei confronti del ricorrente nel lontano 1982, a causa del mancato superamento del periodo di prova e come, a seguito dell’annullamento in giudizio di tale atto e del conseguente ripristino del periodo di prova e poi del suo superamento e definitivo inquadramento con decorrenza dal 25.9.1989, il Sig. A. abbia chiesto a distanza di alcuni anni, con azione di accertamento e di condanna, la corresponsione delle retribuzioni e del trattamento economico accessorio non percepiti a causa dell’illegittimo allontanamento dal servizio, nel periodo compreso dal 16.4.1982 al 24.9.1989.

5. Sempre preliminarmente deve ribadirsi come, per giurisprudenza consolidata, il processo instaurato nei confronti di una ULSS prima della sua soppressione prosegue tra le parti originarie, salva l’ipotesi di intervento o chiamata in giudizio della Regione nella posizione di successore a titolo particolare; di conseguenza, la relativa legittimazione attiva e passiva spetta al menzionato organo di rappresentanza della gestione, non surrogabile dalla nuova azienda ancorché in persona del Direttore generale (Cass., sez. III, n. 19133/2004; Cons. Stato, Sez. VI, n. 6995/2010; V, n. 5501/2007). Con l’ulteriore precisazione che poiché la sentenza di primo grado spiega effetto diretto anche nei confronti del successore a titolo particolare (la Regione), tale soggetto può essere destinatario dell’impugnazione proposta dall’avversario del suo dante causa (Cass., sez. II, n. 8889/2002).

6. Ciò posto, reputa il Collegio che la mancata impugnazione della delibera di inquadramento del 1989, superato il periodo di prova, non comporti alcuna acquiescenza ai fini della decorrenza della retribuzione e di ogni altro elemento del trattamento economico. Per la ragione fondamentale che – anche considerando tale delibera come un atto autoritativo in senso proprio e non come un atto paritetico – la stessa non recava alcuna determinazione espressa in merito al mancato riconoscimento degli emolumenti arretrati e quindi non necessitava di essere impugnata nel termine decadenziale.

7. Si deve quindi prescindere da tale delibera e qualificare quella del ricorrente come un’azione di accertamento e di condanna al pagamento di un credito, a titolo di responsabilità contrattuale, proposta in sede di giurisdizione esclusiva (pubblico impiego ante riforma) nel pieno rispetto del termine di prescrizione decennale.

7.1. In questa prospettiva, costituisce jus receptum l’affermazione che, laddove venga annullato in sede giurisdizionale l’atto con il quale l’Amministrazione abbia illegittimamente interrotto o risolto il rapporto di impiego, al dipendente vincitore spetta l’integrale restitutio in integrum nel rapporto medesimo, ai fini sia giuridici che economici, e quindi anche la corresponsione delle competenze retributive relative al periodo di illegittima interruzione del rapporto (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Ad. Pl., n. 10/1991; Cons. Stato, sez. VI, n. 16/2010; id., n. 5822/2008).

7.2. Se questo è l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, invocato appunto dall’appellante, la tesi dell’Amministrazione è nel senso di escludere che il caso di specie possa rientrare nella fattispecie generale, sul rilievo che, all’epoca dei fatti, il Sig. A. non avrebbe ancora goduto di un rapporto di lavoro stabile e consolidato, essendo ancora nel periodo di prova. Di conseguenza sarebbe più pertinente il richiamo al diverso indirizzo giurisprudenziale che esclude la restitutio in integrum nei casi in cui il giudicato abbia riconosciuto illegittimo il diniego di costituzione del rapporto di lavoro, facendo salvo il risarcimento del danno (v., per la distinzione, Cons. St. Ad. Plen. 10/1991 e, più di recente, Cons. St. VI, n. 2735/2008).

7.3. Così riassunte le contrapposte tesi di parte, osserva il Collegio come la natura giuridica del patto di prova sia controversa nella stessa dottrina giuslavoristica.

7.3.1. Secondo l’opinione prevalente, si tratterebbe di una clausola apposta al contratto di lavoro, con valore di elemento accidentale da qualificarsi, a seconda delle diverse ricostruzioni possibili, come condizione risolutiva o sospensiva ovvero come termine incerto. In ogni caso non si ravviserebbero due distinti rapporti, uno provvisorio ed uno definitivo, successivi nel tempo, quanto invece un rapporto unico, sebbene caratterizzato da una disciplina particolare nella prima fase, consistente essenzialmente nella diversa regolamentazione del recesso, a seconda che sia esercitato in costanza del periodo di prova oppure successivamente al suo superamento.

Fin qui il patto di prova nel lavoro privato, a norma dell’art. 2096 c.c.

7.3.2. Quanto al pubblico impiego, come ricordato di recente dalla Suprema Corte (v. Infra), già prima delle riforme degli anni "90, la l. n. 93 del 1983, art. 20, stabiliva che il lavoratore nominato e assunto in servizio non acquisiva immediatamente la stabilità, subordinando l’iscrizione a ruolo al superamento, con esito positivo di un periodo di prova.

Tale legge si limitava ad affermare la necessità che la durata della prova fosse congrua ed identica per le medesime qualifiche, rinviando la disciplina dell’istituto alla legislazione di settore o di formazione secondaria.

Ferma la varietà della disciplina nei vari settori, elementi comuni a tutto il settore del pubblico impiego erano – sempre secondo la ricostruzione della Cassazione -: a) la durata dell’esperimento che doveva essere calcolata con riferimento esclusivo al servizio effettivamente prestato; b) nel caso in cui l’esperimento si fosse concluso negativamente, la prova poteva e, in alcuni settori doveva essere prorogata; c) il giudizio conclusivo doveva essere motivato, anche se talvolta con motivazione generica per non compromettere la posizione futura del lavoratore; d) la prova si intendeva superata se al termine non veniva comunicato l’esito negativo o la proroga; e) l’impiegato in prova aveva gli stessi doveri e diritti dell’impiegato di ruolo ed il suo trattamento economico era pari a quello iniziale della qualifica corrispondente.

In conclusione, il sistema delineato dalla legge si distingueva dall’art. 2096 c.c., solo per l’automaticità della prova, oltre che per la funzione più ampia, anche di formazione, attribuita al periodo di verifica. (Cass. sez. lav. n. 17970/2010).

7.4. Tanto premesso in linea generale, il caso qui in esame è (se non del tutto conforme) sicuramente più prossimo all’ipotesi in cui sia cessato illegittimamente un rapporto di lavoro già in corso, per fatto imputabile alla sola amministrazione pubblica, rispetto a quella in cui sia stata negata illegittimamente la costituzione di un rapporto di lavoro del tutto nuovo.

Ne consegue il diritto del dipendente alla riduzione in pristino anche agli effetti economici.

7.5. Anche diversamente opinando nei presupposti, nella direzione già seguita dal Giudice di primo grado, la conclusione sarebbe tuttavia la stessa ove la domanda in origine proposta dall’A. potesse essere (ri)qualificata come di natura sostanzialmente risarcitoria, non mutandone né il petitum né la causa petendi.

Come noto infatti, alla data di proposizione del ricorso, nel 1994, al giudice amministrativo non era stata ancora devoluta la tutela risarcitoria, neppure in sede di giurisdizione esclusiva dove, tuttavia, già disponeva del potere di condannare l’amministrazione al pagamento di somme di denaro.

Ebbene, facendo applicazione della lettura più corretta invalsa della regola processuale della perpetuatio iurisdictionis – secondo cui l’art. 5 c.p.c. rende irrilevanti, ai fini della giurisdizione, i mutamenti legislativi successivi alla proposizione della domanda nel caso in cui il mutamento dello stato di diritto privi il giudice della giurisdizione che egli aveva quando la domanda è stata introdotta, ma non nel caso, inverso, in cui esso comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era inizialmente privo (Corte cost., ord. n. 134/2000; Cass. SS.UU. n. 6774/2003) – e valorizzando il dato per cui nel codice del processo amministrativo quella risarcitoria è ora una variante, ovvero una specie, della generale azione di condanna (art. 30), sarebbe comunque possibile qualificare l’azione a suo tempo proposta dall’A. nei termini di un’azione risarcitoria per equivalente (v. per un precedente Cons. St., VI, 2735/2008), di cui ricorrerebbero tutti gli elementi costitutivi, compresa la colpevolezza dell’amministrazione.

8. In conclusione, la pretesa vantata dal ricorrente è fondata e, accertato il suo diritto a percepire il trattamento economico illegittimamente non goduto, relativamente al periodo dal 16.4.1982 al 24.9.1989, ad esclusione degli emolumenti strettamente legati alla prestazione lavorativa effettiva, vanno condannate le amministrazioni intimate (Gestione liquidatoria e Regione, in solido) al pagamento delle relative somme – maggiorate della rivalutazione e degli interessi di legge ex art. 429 c.p.c. secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale (v., ex multis, Tar Lazio, I, n. 6469/2009) – nonché alla regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale del ricorrente.

9. E’ utile precisare come, nella ricostruzione della carriera economica per il periodo sopra indicato, l’amministrazione dovrà comunque detrarre quanto il ricorrente risulti avere percepito a qualsiasi titolo, per prestazioni o attività svolte nel periodo di tempo durante il quale il rapporto è stato interrotto; e che, ai fini della corretta liquidazione degli importi, l’amministrazione si atterrà alle linee guida sancite dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio con pronuncia 15 giugno 1998, n. 3 e dalla giurisprudenza successiva (Ad. Plen. n. 18/2011; sez. VI, n. 1489/1999; sez. IV, n. 115/1999,), in armonia con quanto affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. n. 5795/1998; n. 1712/1995; n. 5525/1995). Pertanto, gli interessi legali e la rivalutazione dovranno essere calcolati separatamente sull’importo nominale del credito retributivo, escludendo sia il computo degli interessi e della rivalutazione monetaria sulla somma dovuta quale rivalutazione sia il riconoscimento di ulteriori interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di interessi.

10. Le spese di lite, poste a carico della Gestione liquidatoria e compensate nei confronti altre parti, sono liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),

definitivamente pronunciando sull’appello, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado ai sensi e con gli effetti di cui in motivazione.

Condanna l’appellata Gestione liquidatoria al pagamento delle spese di lite in favore di C. A., liquidate nell’importo complessivo di euro 2.500,00 oltre ad IVA e CPA come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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