Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-04-2011) 04-11-2011, n. 39767

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 18.6.2010, la corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza 19.6.07 del tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Mesagne, con la quale P.A. è stato condannato, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, alla pena di 9 mesi di reclusione, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perchè ritenuto colpevole dei reati, uniti dal vincolo della continuazione, di violenza privata – così modificata l’originaria imputazione di sequestro di persona – per aver costretto la minore C.L. ad allontanarsi dalla propria abitazione, conducendola in un casolare, e del reato di violazione di domicilio, per essersi introdotto nell’abitazione della giovane contro la volontà della stessa, con l’aggravante della violenza sulle cose per aver sfondato la porta di ingresso. Il difensore ha presentato ricorso sostenendo i seguenti rilievi critici sulla violazione di legge in riferimento agli artt. 610 e 614 c.p., art. 192 c.p.p.: contrariamente a quanto sostenuto dalla corte di merito, la sentenza di condanna non può fondarsi sulle dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, se non siano avvalorate da riscontri esterni; altrimenti si impone l’assoluzione almeno ai sensi del cpv dell’art. 530 c.p.p.. Nel caso in esame, unica testimone oculare è la persona offesa, minorenne all’epoca dei fatti, che risulta aver denunziato i fatti solo per compiacere i propri genitori e per evitare la loro disistima. Inoltre, le sue dichiarazioni sono ricche di contraddizioni e di incertezze.

Quanto al reato di violazione di domicilio, la sentenza da rilievo determinante all’impronta di piede sulla porta, senza tener conto della potenziale sua riferibilità ad eventi di altro tipo, nonchè delle dichiarazioni secondo cui il vetro era già rotto da alcuni giorni. Quanto al reato di violenza privata, la giovane ha precisato di aver seguito volontariamente il P., in quanto era intenzione di entrambi di allontanarsi dall’abitazione per il chiarimento sulla crisi del loro rapporto. Il timore da lei manifestato era solo determinato dall’eventualità del ritorno del padre e della sua ira per il vetro rotto. Non sussistono quindi gli elementi oggettivi e soggettivi del reato suddetto, ma al massimo quelli della sottrazione consensuale di minore.

Il ricorso non merita accoglimento.

Innanzitutto va rilevata l’infondatezza della censura formulata dal ricorrente sul ruolo predominante ed esclusivo riconosciuto alle dichiarazioni della persona offesa nella ricostruzione dei fatti.

La testimonianza della persona offesa, al pari di tutte le testimonianze, deve essere sottoposta al generale controllo sulle capacità percettive e mnemoniche del dichiarante, nonchè sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall’assenza di risultanze processuali incompatibili, caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità. Questo controllo è stato effettuato in maniera esaustiva dalla sentenza del giudice di appello, che ha rilevato anche la specifica forza persuasiva della testimonianza della C., manifestamente animata dall’intenzione di ridimensionare i fatti, in vista della finalità di attenuare le negative conseguenze nei confronti di persona con la quale era intercorso un rapporto sentimentale, da lei non rinnegato e non disconosciuto.

Ciononostante, emergono dalla sua narrazione inequivocabili conferme alla tesi accusatoria, dalle quali i giudici di merito – grazie all’integrazione derivate da altre emergenze processuali – hanno tratto logiche e insindacabili conclusioni di responsabilità.

Infatti è emerso che:

a) la giovane donna ha affermato che P. aveva preannunciato per telefono la propria decisione di incontrarla nella sua abitazione, accompagnando questa manifestazione di volontà con minacce di morte;

b) la C. ha espresso chiaramente la volontà di non farlo accedere nella propria abitazione, in assenza del padre;

c) l’ingresso del giovane nell’abitazione pertanto è avvenuta dopo espresso divieto e quindi in violazione della chiara volontà dell’interessata;

d) la duplice violenza di rilevanza penale, esercitata dall’imputato (sul divieto di ingresso e sulla chiusura della porta dell’abitazione, espressione di questo divieto), e emersa, oltre che dalle parole della persona offesa;

dai segni del vetro frantumato (immediatamente prima dei fatti, integro);

dal segno di impronta di scarpa sulla porta (fatto, quest’ultimo eccezionale, non presuntivamente riconducibile a un generico, recente pregresso avvenimento);

dalle dichiarazioni di altri testi. La resistenza della C. alla volontà prevaricatrice del P. ha trovato, infatti, conferma nelle dichiarazioni della madre (impegnata in ospedale nell’assistenza dell’altra figlia) che, su richiesta di aiuto, effettuata per telefono dalla figlia L., impaurita dalle minacce dell’ex fidanzato, chiedeva, a sua volta, aiuto alla cognata C.G.. Questa, recatasi presso quell’abitazione insieme a un vigile urbano, constatava la rottura del vetro;

l’immediata percezione dei segni di questa effrazione è stata compiuta anche dall’agente di polizia giudiziaria, intervenuto su immediata richiesta dei familiari;

e) la minaccia di morte, il violento ingresso nell’abitazione, la presa per il braccio della giovane hanno chiaramente realizzato la situazione di violenza morale e fisica da cui è logicamente derivata – al di là delle pacificatrici affermazioni della persona offesa – la illecita limitazione della sua libertà di movimento e di scelta del luogo in cui colloquiare con l’imputato.

La credibilità di queste compatte e univoche dichiarazioni testimoniali è stata ulteriori evidenziata dalla Corte di merito, laddove ha rilevato l’assenza di un atteggiamento ritorsivo e vendicativo nella persona offesa e nei suoi più stretti familiari, ma anzi la presenza di un atteggiamento benevolo, desumibile dalla remissione di querela, da parte dei genitori della persona offesa, all’esito della deposizione dell’imputato.

Questa ricostruzione dei fatti è le logiche conclusioni che ne ha tratto il giudice di appello, in ordine alla responsabilità dell’imputata non sono meritevoli di alcuna censura in sede di legittimità.

Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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