Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-10-2011) 07-11-2011, n. 40054

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con la sentenza in epigrafe la Corte di Appello di Trieste, in conferma della sentenza del Tribunale di Trieste in data 22.10.2008, ha condannato D.M.A. per il delitto di estorsione.

Avverso detta pronunzia l’imputato a mezzo di avvocato propone ricorso per cassazione.

Con un primo motivo, lamenta violazione della legge processuale penale nell’art. 414 c.p.p. perchè a fronte del decreto di archiviazione emesso dal GIP del Tribunale di Trieste sul fatto in contestazione qualificato come estorsione – decreto non impugnato e divenuto definitivo – la Corte di appello, annullando la condanna pronunciata a tal punto dal Tribunale a titolo di truffa, e qualificato il fatto come estorsione, disponeva la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero il quale, omettendo di richiedere un decreto di riapertura delle indagini, come invece previsto dalla norma in esame, si limitava a modificare l’imputazione e a richiedere la fissazione di nuova udienza preliminare, con la conseguenza di invalidare il successivo svolgimento del processo.

La seconda censura concerne l’inosservanza della legge processuale penale, e precisamente dell’art. 178 c.p.p., comma 1, con riguardo all’art. 414 c.p.p., giacchè la mancata richiesta del decreto di riapertura delle indagini comporterebbe la nullità di ogni successivo atto del Pubblico Ministero. La terza censura concerne la contraddittorietà della motivazione che dapprima richiama una giurisprudenza sulla "impossibilità" dell’inizio di una seconda azione penale intervenuta l’archiviazione e in assenza di decreto di riapertura delle indagini e poi addiviene a conclusione opposta nella decisione assunta.

La quarta censura concerne l’errata applicazione dell’art. 629 c.p., dovendosi qualificare il fatto di reato come truffa e non come estorsione per le evidenze istruttorie in atti e la migliore interpretazione che deve darsi delle stesse.

La quinta censura precisa la precedente aggiungendo che non vi sarebbe prova certa della dazione dalla parte offesa all’imputato della somma di denaro provento del reato.

L’ultima censura contesta, con riguardo alla precedente, violazione della legge processuale penale per non essere stata pronunciata sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p., comma 2. 2. – Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

Circa il primo motivo, deve rilevarsi che il fatto per cui si procede non è stato dalla Corte di appello ritenuto diverso, nella sua storicità, dal fatto accertato in primo grado. Cosicchè non ricorre l’ipotesi di fatto diverso e sopravvenuto rispetto a quello oggetto di iniziale contestazione; piuttosto, lo stesso fatto storico è stato assoggettato dalla corte territoriale a diversa qualificazione rispetto a quella ritenuta dal pubblico ministero e dal giudice di primo grado (non truffa ma estorsione). Il G.I.P. del Tribunale di Trieste sussumendo il fatto nella fattispecie della truffa, non avrebbe dovuto pronunciare una archiviazione (peraltro "parziale"), ma avrebbe dovuto limitarsi a procedere sulla scorta della diversa qualificazione ritenuta. Pertanto, il decreto di archiviazione, pur intervenuto, deve ritenersi del tutto irrilevante e inefficiente a determinare, come tale, la necessità della riapertura delle indagini.

Il secondo motivo resta assorbito da quanto esposto sul primo.

Poichè tutte le restanti censure, pur dichiaratamente imperniate sulla violazione di legge, concernono rilievi sulla motivazione della sentenza di appello in ordine alla esatta ricostruzione processuale del fatto, deve premettersi quanto segue.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talchè la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la L. n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 c.p.c., lett. e), consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo": alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito, (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803).

Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546;

Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

Tale vizio non ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di appello ha esposto un ragionamento coerente, completo e privo di discontinuità logiche sottoponendo a vaglio critico i passaggi motivazionali del tribunale e infine esprimendo motivata adesione agli stessi: giungendo, per tale via, ad una adeguata ricostruzione dei fatti e conseguentemente respingendo l’alternativa versione prospettata dalla difesa dell’imputata. In particolare, ben argomenta la corte territoriale circa la ricorrenza degli elementi di fattispecie: la minaccia alla parte offesa (di denunciarla per il possesso di materiale pedopornografico in realtà riferibile all’imputata oltre alla minaccia di determinare il licenziamento dal lavoro del figlio della parte offesa); il prelievo in banca e la consegna all’imputata della somma oggetto di reato; il tutto secondo la versione della parte offesa, intrinsecamente coerente e debitamente riscontrata per mezzo delle altre acquisizioni istruttorie.

Poichè i motivi di ricorso – anzichè evidenziare effettive illogicità o contraddizioni all’interno del testo della sentenza impugnata – si risolvono palesemente in una dettagliata ricostruzione dei fatti alternativa a quella accertata dai giudici, ricostruzione integrante un giudizio di merito – già esposto alla corte di appello in sede di impugnazione e qui semplicemente riproposto – essi non valgono a determinare una riconsiderazione dell’operato della corte territoriale, che resta insindacabile in questa sede a fronte della già rilevata coerenza della alternativa ricostruzione oggetto della sentenza impugnata.

Conseguentemente risultano manifestamente infondate le censure sulla violazione o erronea applicazione delle legge penale presupponenti tutte la ricostruzione del fatto espressa nel ricorso.

3. – Alla inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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