Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 14-10-2011) 07-11-2011, n. 40049

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con sentenza n. 3205 del 17.12.2010 la Corte di Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Teramo in data 16.06.2009 ha condannato gli imputati per il delitto di truffa e altro.

Avverso la pronunzia della Corte di Appello gli imputati a mezzo di difensore propongono congiuntamente un unico ricorso per cassazione, articolando tre motivi.

Con un primo motivo i ricorrenti contestano la erronea applicazione dell’art. 16 c.p.p. per essere stata emessa la sentenza di primo grado da giudice territorialmente incompetente discutendosi, secondo la imputazione, di indebite erogazioni previdenziali periodiche ottenute con artifizi e raggiri ai danni dell’INPS, il che avrebbe comportato la qualificazione del reato di truffa come ad esecuzione prolungata piuttosto che ad esecuzione istantanea, con rilievo della competenza non del Tribunale di Teramo ma del Tribunale di Ascoli Piceno.

Con un secondo motivo lamentano la erronea applicazione degli artt. 483 e 640 c.p. per avere la Corte di Appello acriticamente accreditato e confermato la ricostruzione dei fatti di causa prospettata nella sentenza di primo grado in contraddizione con plurime risultanze istruttorie.

Con un terzo motivo i ricorrenti contestano erronea applicazione dell’art. 43 c.p. e art. 530 c.p.p., comma 2, per avere ritenuto la Corte di merito sussistente il dolo di truffa a fronte di numerose e contrarie risultanze istruttorie che, opportunamente valorizzate, avrebbero coerentemente determinato una decisione di assoluzione.

2.- Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

Per pacifica opinione il momento consumativo del delitto di truffa, anche agli effetti della competenza territoriale, è quello dell’effettivo conseguimento dell’ingiusto profitto, con correlativo danno alla persona offesa, e tale momento si verifica all’atto dell’effettiva prestazione del bene economico da parte del raggirato, con susseguente passaggio dello stesso nella sfera di disponibilità dell’agente (Cass. 30 maggio 1997, n. 3869). La L. n. 223 del 1991, art. 8, comma 4, in materia di collocamento dei lavoratori in mobilità, stabilisce che al datore di lavoro che, senza esservi tenuto ai sensi del comma 1, assuma a tempo pieno e indeterminato i lavoratori iscritti nella lista di mobilità è concesso, per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, un contributo pari al cinquanta per cento della indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il predetto contributo non può essere erogato per un numero di mesi superiore a dodici e, per i lavoratori di età superiore a cinquanta anni, per un numero superiore a ventiquattro mesi, ovvero a trentasei mesi per le aree di cui all’art. 7, comma 6.

Sostengono i ricorrenti che tale disposizione concerna una erogazione a carattere periodico, come tale determinante l’effetto della natura prolungata di un reato come quello di truffa, normalmente a consumazione istantanea. Infatti, perfezionatosi il delitto al momento della prima erogazione, lo stesso giungerebbe a consumazione soltanto al momento dell’ultima erogazione storicamente verificatasi.

Al contrario e come correttamente motivato dai giudici di merito, la norma in oggetto è riferita a singole prestazioni a titolo di sgravi contributivi percepite in ragione della assunzione per una unità di tempo non inferiore e pari ad un mese di un lavoratore in mobilità.

Al maturare di detto periodo di tempo, corrisponde il diritto alla contribuzione. Qualora a seguito di artifizi e raggiri l’ente previdenziale sia indotto a più erogazioni successive, rimane vittima di altrettante fattispecie di reato ciascuna autonomamente apprezzabile rispetto all’altra.

Così definita la natura giuridica della erogazione, come occasionale – ancorchè reiterabile – ma non periodica, ne consegue la manifesta infondatezza della eccezione di incompetenza territoriale (per insussistenza della connessione in ragione di più episodi di reato sorretti dal vincolo di continuazione) del Tribunale di Teramo a favore del Tribunale di Ascoli Piceno, quale tribunale del luogo in cui si è consumato il primo reato ad esecuzione prolungata.

Circa il secondo e il terzo motivo, vale osservare quanto segue.

Alla Corte di cassazione resta preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito, (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803). Quindi, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite.

La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; 10 luglio 2007, n. 35683; 11 gennaio 2007, n. 7380). Nel caso di specie il giudice di appello ha esposto un ragionamento argomentativo completo e privo di discontinuità logiche respingendo la ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa e ritenendo integrate le figure di reato anche sotto il profilo dell’elemento psicologico.

Il ricorso espone invece una ricostruzione dei fatti alternativa a quella accertata dai giudici, inammissibilmente sollecitando anche in questa sede un giudizio di merito.

L’inammissibilità originaria del ricorso comporta il passaggio in giudicato della sentenza di merito, con la conseguente impossibilità di dichiarare l’eventuale sopravvenuta prescrizione del reato ex art. 129 c.p.p..

3. – All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che si stima equo quantificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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