Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-09-2011) 08-11-2011, n. 40324 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.G. e Ca.Ba., nella loro qualità di soci accomandatari ed amministratori, e P.R. e Cu.Ma., nella loro qualità di socie accomandanti, sono stati condannati in entrambi i gradi di merito – sentenze emesse dal tribunale di Ragusa il 17 luglio 2001 e dalla corte di appello di Catania il 13 ottobre 2009 – alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia in relazione al fallimento della Co.Mo.Ter sas dichiarato dal tribunale di Ragusa il 6 luglio 1998 per avere distratto la somma di L. 421.961.000, come risulta dalle scritture contabili.

I giudici del merito disattendevano la tesi difensiva, secondo al quale le somme erano state prelevate a titolo di compenso, non essendovi elementi per ritenere che effettivamente si trattasse di compenso per l’attività di amministratore espletata.

Con il ricorso per cassazione i ricorrenti deducevano:

1) la violazione dell’art. 216 della legge fallimentare in relazione al D.L. 9 gennaio 2006, n. 4, art. 1, non tossendo la società i requisiti per essere dichiarata fallita alla luce della nuova normativa;

2) la violazione di legge in relazione al citato art. 216 ed il vizio di motivazione sul punto perchè i due C. erano amministratori ed effettuavano anche lavoro manuale e, quindi, pienamente legittime, oltre che congrue, erano le somme prelevate a titolo di compenso; le somme prelevate dalle due donne erano state ritirate nell’interesse e per conto dei mariti amministratori;

3) la prescrizione del reato commesso dalla P. e dalla Cu. perchè il prelievo venne effettuato negli anni 1992-1993 e dei fatti commessi dagli altri due imputati fino a tutto il 1997.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da C. G., Ca.Ba., P.R. e C. M. sono infondati.

E’, infatti, infondato il primo motivo di impugnazione e ciò a prescindere dal fatto se effettivamente i C. siano o meno nelle condizioni richieste dal nuovo testo legislativo per essere dichiarati falliti.

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione può così essere sintetizzata: se i fatti di bancarotta, e la relativa dichiarazione di fallimento, commessi prima della entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 e del successivo D.Lgs. n. 169 del 2000, che hanno modificato i requisiti perchè l’imprenditore sia assoggettabile a fallimento, continuino ad essere previsti come reato anche se in base alla nuova normativa l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato fallito perchè piccolo imprenditore.

La Suprema Corte aveva dato luogo ad un contrasto di giurisprudenza (Cass. Sez. 5 penale, n. 2083 del 18 ottobre 2007 aveva optato per una risposta negativa al quesito, non essendo suscettibile la modifica dell’art. 1 della nuova legge fallimentare di meccanica trasposizione nelle dinamiche della successione di leggi penali, mentre Cass. Sez. 5 penale 20 marzo 2007 aveva dato una risposta affermativa al quesito proposto, sostenendo che era mutato in senso più favorevole all’imputato un elemento costitutivo del reato quale è la dichiarazione di fallimento oggi non più possibile) che ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite Penali.

Con decisione del 28 febbraio 2008 n. 16601 le Sezioni Unite Penali hanno stabilito che i fatti di bancarotta commessi prima della entrata in vigore della normativa richiamata continuano ad essere previsti come reato anche se in base alla nuova normativa l’imprenditore non possa più essere dichiarato fallito. Nella citata sentenza si rilevava, tra l’altro, che il giudice penale non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza, ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 della legge fallimentare per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche legislative apportate all’art. 1 della legge fallimentare non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 cod. pen. sui procedimenti penali in corso.

Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento delle Sezioni Unite, che, peraltro, in materia di art. 2 c.p. e successioni di norme extrapenali nel tempo ha ripreso un orientamento già manifestatosi con SS. UU. 27 settembre 2007 – 16 gennaio 2008, secondo il quale deve ritenersi inapplicabile il principio previsto dall’art. 2 c.p., comma 3 qualora si tratti di modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando.

Insomma il disvalore sociale della condotta non è venuta meno con la nuova normativa, essendosi il legislatore limitato a modificare i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice penale;

cosicchè appare del tutto irragionevole ritenere che siffatte modifiche retroagiscano (vedi anche Cass. 18 maggio 2006 n. 17230).

Il secondo motivo d impugnazione è infondato e di merito.

In effetti i ricorrenti, pur non citandola, sembrano riferirsi alla più recente giurisprudenza in ordine alla somme prelevate dagli amministratori a titolo di compenso che ha escluso trattarsi di ipotesi di bancarotta per distrazione, dovendosi, invece, configurare il delitto di bancarotta preferenziale. Bisogna precisare che sul punto vi è stato, ed ancora perdura, un contrasto di giurisprudenza di legittimità perchè sono rinvenibili decisioni che hanno ritenuto sussistere in fattispecie come quella in oggetto il delitto di bancarotta per distrazione perchè, comunque, si configurerebbe un vantaggio patrimoniale dell’amministratore (vedi, tra le tante, Cass., Sez. 5, 14 ottobre – 21 dicembre 1999, n. 14380, Patrucco, rv.

215186 e Cass., Sez. 5, 4 aprile – 19 maggio 2003, Coquerant, n. 22022, rv 224535) ed altre che, invece, hanno escluso che fosse configurabile tale delitto ed hanno ritenuto, nella maggior parte dei casi, sussistere quello di bancarotta preferenziale (vedi, tra le tante, Sez. 5, 6, luglio-24 settembre 2006, n. 38149, Casagrande ed altri, rv 236034 con riferimento ad una società di capitali; Sez. 5, 18 maggio – 7 luglio 2006, n. 23730, Romanizzi ed altri, rv 235325;

Sez. 5, 10 novembre – 15 dicembre 2004, Andreotti, n. 48280, rv 230513, in relazione ad una società in accomandita semplice).

Tuttavia nel caso di specie non ricorre la problematica evocata non solo perchè non risulta che i compensi siano stati determinati ed autorizzati dagli organi sociali e perchè i prelievi sono stati effettuati quando la società versava già in stato di insolvenza (ma anche su tali punti vi è contrasto nella giurisprudenza di legittimità), ma, principalmente, perchè i giudici di merito hanno escluso, con motivazione del tutto ragionevole, che le somme prelevate potessero essere considerate compensi per l’attività prestata dagli amministratori a favore della società.

Ciò perchè i prelievi non hanno una cadenza regolare, non sono stati di eguale ammontare e sono stati effettuati anche dalle socie accomandanti, che non avevano alcun titolo per percepire compensi.

Orbene gli argomenti, succintamente posti a sostegno del rigetto della tesi difensiva, appaiono del tutto ragionevoli, non risultando superati dalle contrarie affermazioni dei ricorrenti.

Appare, ad esempio, mera affermazione quella che le due donne abbiano effettuato i prelievi per conto dei mariti amministratori; in verità non si comprende la ragione di una tale operazione e non viene offerto alcun elemento a sostegno di tale affermazione.

Alla fine quella dei giudici di merito, che hanno escluso trattarsi di compensi, è frutto di un accertamento di fatto, che per essere sorretto da una motivazione immune da manifeste illogicità, non merita censure sotto il profilo della legittimità.

Manifestamente infondato è il terzo motivo di impugnazione perchè per giurisprudenza costante il delitto di bancarotta si consuma con la declaratoria di fallimento e con il verificarsi dei singoli fatti distrattivi. Cosicchè nessun rilievo ha il fatto che le due socie abbiano prelevato danaro nel 1992-1993 perchè il termine di prescrizione decorre dalla dichiarazione di fallimento, ovvero dal 6 luglio 1998, e scade, secondo il previgente testo dell’art. 157 cod. pen., applicabile nel caso di specie, essendo stata emessa la sentenza di primo grado nel 2001, dopo quindici anni, ovvero il 6 luglio 2013.

Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato e ciascun ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente a pagare le spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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