Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-05-2012, n. 7439 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Lecce, con sentenza del 10 settembre 2009, ha determinato l’indennità dovuta dal Comune di Porto Cesareo ad P.A.C.I. per l’espropriazione con decreto 13 novembre 2003, di un terreno di sua proprietà ubicato nel territorio comunale (in catasto al fg. 22, part. 4468 e 4562) nella misura di Euro 119.200, osservando: a) che il fondo rientrava in zona destinata dal vigente P.R.G. ad attrezzature turistiche e balneari:a nulla rilevando sia la successiva variante deliberata dal comune che aveva tipizzato la zona come finalizzata alla valorizzazione e tutela di beni naturali ed ambientali, poichè si traduceva in un vincolo preordinato all’espropriazione, irrilevante per la stima dell’indennità; sia i vincoli paesaggistici comportanti l’inedificabilità soltanto relativa, superabile con le opportune autorizzazioni; b) la loro presenza tuttavia riduceva del 60% il valore venale dell’immobile stimato dal c.t.u. in Euro 56 mq., inducendo a determinarlo in ragione di Euro 22, 54 mq..

Per la cassazione della sentenza, il comune ha proposto ricorso per un motivo; cui resiste la P. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il ricorso l’amministrazione comunale, deducendo violazione del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32 e 37 sulle espr. per p.u. nonchè D.P.R. n. 397 del 1997, art. 5 censura la sentenza impugnata per avere attribuito al fondo natura edificatoria malgrado l’inclusione in zona destinata a salvaguardia ambientale e senza considerare i vincoli ambientali e paesaggistici che gravavano sulla zona suddetta per la presenza di habitat classificati prioritari dalla direttiva habitat 43/92/CEE ed il conseguente PUTT/P della Puglia che li aveva recepiti; e che esclude in radice qualsiasi intervento comportante l’assetto del territorio, nonchè la realizzazione di qualsivoglia opera di natura edilizia. Rileva altresì di avere dedotto l’inedificabilità della zona già nel giudizio di merito anche al lume delle previsioni dell’art. 45 N.T.A. dal quale la Corte territoriale aveva tratto l’edificabilità del fondo posto che le strutture balneari eseguite avevano già esaurito tutti gli interventi edilizi consentiti dallo strumento urbanistico rendendo l’area satura;il cui valore perciò doveva essere stimato con il criterio dei VAM stabilito dalla L. n. 865 del 1971.

Il ricorso è infondato, pur se va corretta ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ. la motivazione con cui la sentenza impugnata ha provveduto alla stima dell’indennità di espropriazione.

La stessa Corte territoriale ha ricordato la distinzione del tutto consolidata nella giurisprudenza, tra vincoli conformativi della proprietà di cui si deve tener conto nella valutazione delle aree espropriande per la stima dell’indennità di espropriazione e vincoli preordinati all’esproprio, invece irrilevanti ai fini della stima del bene ( L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 3 poi confluito negli art. 32 e 37 del T.U. avanti cit.): enunciando il principio che in caso di variante il suo carattere conformativo (che soltanto consente di tener conto della nuova classificazione) non discende dalla sua collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma dipende soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e struttura, che presentano i vincoli in essa contenuti;ed è dunque configurabile ove gli stessi mirino ad una (nuova) zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti in funzione della destinazione della intera zona in cui questi ricadono ed in ragione delle sue caratteristiche intrinseche; o del rapporto (per lo più spaziale) con un’opera pubblica. Laddove, se la variante non abbia una tal natura generale, ma imponga un vincolo particolare incidente su beni determinati in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di una specifica opera pubblica, con indicazione empiricamente, per ciò detta lenticolare, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, il vincolo che la stessa contiene deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione;e da esso deve, dunque, prescindersi nella qualificazione dell’area pur quando la variante ne abbia mutato la classificazione urbanistica, con la conseguenza che esclusivamente in tal caso per la determinazione dell’indennizzo deve farsi riferimento alla previgente destinazione del P.R.G. (Cass. 3910/2011; 20505/2010; 17995/2009; 26160/2006).

Ma siffatta distinzione non e stata correttamente applicata alla fattispecie posto che la decisione impugnata, da un lato, non ha saputo individuare se e quali opere dovessero essere eseguite e da quale ente nella istituita zona F "per la salvaguardia e valorizzazione dei beni naturali ed ambientali"; e conseguentemente non ne ha localizzato alcuna, e non ha potuto indicare infine nè il provvedimento contenente la localizzazione, nè l’epoca della sua adozione. E soprattutto non ha colto il collegamento tra la nuova destinazione impressa all’intera zona ed il vincolo ambientale- paesistico imposto dal P.U.T.T./P della Puglia (interamente riportato e trascritto dal comune) che ha vietato qualsiasi modificazione dell’assetto del territorio, nonchè la realizzazione di opere edilizie di alcun genere: perciò disattendendo il principio enunciato da questa Corte che il vincolo di inedificabilità di tipo paesistico, che rivela una qualità insita nel bene, sì che la proprietà su di esso è da intendere limitata fin dall’origine, è da considerare vincolo conformativo, non soggetto a decadenza (Corte cost. nn. 55 e 56 del 1968), che incide sul suo valore in sede di determinazione dell’indennizzo per un’eventuale espropriazione, tanto da rendere irrilevante, sempre ai fini della valutazione, il regime imposto su di esso dalla disciplina urbanistica: comunque tenuta, ad uniformarsi alla pianificazione paesistica (Corte cost. n. 327/1990).

Ha quindi concluso del tutto tautologicamente, quanto erroneamente che la ricordata variante del 2003 aveva imposto un vincolo preordinato all’espropriazione, peraltro confondendo la relativa nozione con la destinazione di una zona ad usi meramente pubblicistici (verde pubblico, attrezzature pubbliche, salvaguardia di beni naturali, ecc.) che perciò necessariamente richiedono la (futura) acquisizione volontaria o coatta delle relative aree dai precedenti proprietari.

Sennonchè la relativa statuizione si è limitata a disattendere i principi avanti esposti ed a pervenire al risultato, pur esso illogico e contraddittorio, che il terreno dovesse essere classificato ora come relativamente inedificabile (pag. 10), ora come area edificabile (pag. 10, ultima parte): senza trarre da tale erronea conclusione alcuna conseguenza pregiudizievole per il comune, posto che non ha recepito la valutazione prospettata dal c.t.u. in base al medesimo presupposto dell’edificabilità del fondo, in Euro 56 mq.; ma questa ha ridotto nella misura di circa 2/3 proprio per la presenza dei suddetti vincoli conformativi "inevitabilmente incidenti sul valore del bene", conclusivamente valutato al pari dei terreni gravati da analogo vincolo in ragione di Euro 22,54 mq.".

Sicchè non bastava al comune contestarne l’erronea destinazione dichiarata dalla sentenza impugnata, ma occorreva soprattutto che l’amministrazione ricorrente documentasse l’illogicità di detta valutazione con riguardo ai terreni non edificatori, peraltro a seguito dell’esame dei prezzi di mercato della zona nell’anno 2003, relativi a terreni di identica consistenza e posizione geografica (ritenuta di particolare amenità dal c.t.u.). Laddove detta valutazione è stata contestata dal comune esclusivamente per il fatto che avrebbe dovuto trovare applicazione il criterio di calcolo tabellare dei VAM previsto dalla L. n. 865 del 1971, art. 16 per i terreni agricoli: invece dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla nota recente decisione 181/2011 della Corte Costituzionale.

Le spese del giudizio gravano sul soccombente comune e si liquidano in favore della controparte come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il comune ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore della P. in complessivi Euro 2.700,00 di cui Euro 2.500, 00 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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