Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-10-2011) 09-11-2011, n. 40677

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Palermo rigettava l’appello proposto dal P.M. avverso l’ordinanza del G.i.p. del medesimo Tribunale che in data 28 marzo 2011 aveva applicato a G.F. la misura cautelare degli arresti domiciliari, anzichè quella inframuraria richiesta dal P.M..

Il G. era stato sottoposto alla misura cautelare, perchè gravemente indiziato, in concorso con R.G., del delitto di tentata estorsione aggravata nei confronti dei titolari della "Supermercati Marotta s.r.l.", essendosi i predetti presentati in due occasioni presso il suddetto esercizio commerciale chiedendo di parlare con i titolari M., qualificandosi come "gli amici dell’Acquasanta", così palesando l’interesse di Cosa Nostra, per costringerli a pagare una somma imprecisata di denaro a titolo di pizzo.

Il P.M. appellante si era lamentato dell’applicazione della misura meno afflittiva, stante l’operatività della presunzione di adeguatezza prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, in relazione ai reati aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, e la circostanza che il G. era stato condannato per evasione, che rendeva manifesta l’inadeguatezza della misura adottata.

Il Tribunale, ritenendosi investito con l’appello del P.M. anche della verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza – sul rilevo che si trattava di "punto indissolubilmente legato" a quello oggetto di gravame – rilevava che la condotta posta in essere dall’indagato, consistita nella ricerca di incontri con i titolari del supermercato senza alcuna richiesta di danaro o altra utilità, appariva di per sè non idonea a sfociare nel reato estorsivo e comunque non inequivoca espressione della volontà degli indagati di assoggettare i gestori dell’esercizio commerciale ad estorsione.

Riteneva inoltre che, anche a voler ravvisare il tentativo punibile, era comunque operante il disposto dell’art. 56 c.p., comma 3, in quanto, dopo gli episodi denunciati risalenti all’ottobre-novembre 2009, erano trascorsi sedici mesi prima dell’applicazione della misura cautelare, nei quali non era stato registrato alcun comportamento di rilievo da parte degli indagati o di altri che potesse essere inteso come pressione funzionale alla realizzazione dell’estorsione. Secondo il Tribunale, la desistenza degli indagati non poteva ritenersi non volontaria per il solo fatto che la vittima aveva presentato una denuncia, posto che non era risultato che i predetti ne avessero avuto conoscenza.

Conclusivamente, il Tribunale riteneva che gli atti compiuti fino al momento della desistenza non erano inquadrabili in un reato che legittimava l’applicazione della misura cautelare coercitiva, anche se aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Di qui il rigetto dell’appello.

2. Avverso la suddetta ordinanza, ricorre per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, denunciando:

– l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. L’Ufficio ricorrente contesta le argomentazioni del Tribunale quanto alla valutazione della insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

– la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Si deduce che il Tribunale avrebbe adottato due motivazioni che si elidono a vicenda: da un lato, ha ritenuto insussistenti i requisiti della idoneità e della univocità degli atti a commettere il delitto di estorsione e quindi gli indizi di colpevolezza; dall’altro, ha qualificato la condotta nell’ipotesi prevista dall’art. 56 c.p., comma 3.

– l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. L’Ufficio ricorrente deduce l’errore di diritto, nella parte in cui l’ordinanza impugnata avrebbe ravvisato l’attenuante ad effetto speciale della desistenza volontaria in un’ipotesi di tentativo "compiuto".

– l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. Si deduce che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto la volontarietà della desistenza, per il solo fatto della mancanza di nuovi atti intimidatori.

– l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 56 e 629 cod. pen. e del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, art. 275 c.p.p., comma 3, e art. 51 c.p.p., comma 3-bis. Si denuncia che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che la fattispecie de qua non si inquadrasse in un reato legittimante l’applicazione di una misura cautelare coercitiva, posto che la desistenza volontaria non poteva essere considerata equivalente o prevalente rispetto all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, elidendone le conseguenze che il legislatore prevede in ordine alla presunzione di adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.

2. Quanto alla valutazione della gravità indiziaria, deve osservarsi che il Tribunale è incorso in un errore di diritto, ritenendosi investito dai motivi di appello del P.M. anche della questione della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Va ribadito al riguardo che il principio della devoluzione, proprio del giudizio di appello nel processo di cognizione, è estensibile anche all’appello nel procedimento de libertate, con la conseguente applicazione delle regole dell’appello sul merito, tra le quali quella del tantum devolutum quantum appellatum con tutte le sue implicazioni, compresa quella per cui "la cognizione del giudice dell’appello incidentale sulla libertà è limitata ai punti della decisione impugnata attinti dai motivi di gravame (e a quelli con essi strettamente connessi o da essi dipendenti)" (Sez. U, n. 8 del 25/06/1997, Gibilras, Rv. 208313; Sez. U, n, 18339 del 31/03/2004, Donelli, Rv. 227357).

Tale affermazione appare infatti coerente con la volontà del legislatore, quale s’evince con chiarezza dalla Relazione al progetto preliminare per il nuovo codice di rito (p. 78), là dove, nel tracciare i profili procedurali dell’appello cautelare, si sottolinea come "per il resto deve ritenersi implicito il rinvio alla disciplina dell’appello, in quanto non risulti diversamente disposto, ivi compresa la previsione dell’effetto limitatamente devolutivo, tipico del mezzo di impugnazione in oggetto".

La regola del tantum devolutum quantum appellatum comporta quindi che è precluso in sede di appello cautelare l’esame dei "punti" della decisione di primo grado diversi da quelli oggetto di specifica censura, a differenza del riesame che ha invece carattere totalmente devolutivo.

Mette conto di rilevare che situazione diversa si realizza nel caso di appello del pubblico ministero avverso l’ordinanza del G.i.p. di rigetto della richiesta cautelare, In tal caso, i poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’appello de libertate, pur nel rispetto del perimetro disegnato dall’originaria domanda cautelare, si estendono, senza subire alcuna preclusione, all’intero thema decidendum, che è costituito dalla verifica dell’esistenza di tutti i presupposti richiesti per l’adozione di un’ordinanza applicativa della misura cautelare, poichè il tribunale della libertà funge, in tal caso, non solo come organo di revisione critica del provvedimento reiettivo alla stregua dei motivi di gravame del P.M., ma anche come giudice al quale è affidato il potere-dovere di riesaminare ex novo la vicenda cautelare nella sua interezza, onde verificare la puntuale sussistenza delle condizioni e dei presupposti di cui agli artt. 273, 274, 275, 278, 280 e 287 cod. proc. pen. e, all’esito di siffatto scrutinio, di adottare, eventualmente, il provvedimento genetico della misura che, secondo lo schema di motivazione previsto dall’art. 292, risponda ai criteri di concretezza e attualità degli indizi e delle esigenze cautelari, nonchè a quelli di adeguatezza e proporzionalità della misura (Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, Rv. 227357).

E tale ultimo principio erroneamente ha richiamato il Tribunale per giustificare la piena devoluzione alla sua cognizione di entrambi i presupposti legittimanti l’adozione della misura cautelare.

Orbene, deve constatarsi che, nel caso in esame, il pubblico ministero aveva censurato la decisione del G.i.p. che aveva applicato la misura cautelare solo nella parte in cui aveva ritenuto adeguata la misura degli arresti domiciliari, E questo e solo questo era quindi il tema devoluto al giudice dell’impugnazione.

Pertanto il Tribunale non doveva affrontare la questione della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, non devoluta alla sua cognizione e non strettamente connessa al thema decidendum.

Ne deriva quindi l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio, per nuova deliberazione, al Tribunale di Palermo, che dovrà tenere conto di tutti i rilievi di cui innanzi, nella valutazione dell’impugnazione del P.M..

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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