Cassazione civile anno 2005 n. 1824 Divorzio

MATRIMONIO E DIVORZIO RINVIO CIVILE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 10050 del 1999 questa Suprema Corte, in accoglimento del ricorso per Cassazione proposto da T. S. nei confronti del coniuge divorziato C. R. avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia in data 8 luglio – 4 ottobre 1996, che confermando quella del Tribunale di Treviso del 2 novembre 1995 – 10 febbraio 1996 aveva attribuito alla moglie, oltre la casa coniugale di proprietà comune, un assegno di divorzio di L. 2.500.000 mensili, annualmente rivalutabili, cassava la pronuncia impugnata, ravvisando l’assoluta illogicità della motivazione adottata in ordine alla liquidazione dell’assegno.
Riassunto il giudizio dalla R., con sentenza del 29 ottobre – 28 novembre 2001 la Corte di Appello di Venezia, quale giudice del rinvio, respingeva l’impugnazione, confermando la pronuncia del Tribunale, e condannava il S. al pagamento delle spese di tutti i gradi del giudizio.
Osservava in motivazione la Corte di merito che i nuovi accertamenti svolti circa i redditi delle parti avevano confermato la correttezza delle statuizioni del primo giudice: ed invero, incontestata la sussistenza dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno, e tenuto conto del contributo della donna, nel suo ruolo di casalinga, ai risparmi ed al tenore di vita della famiglia, andava considerata la posizione preminente dell’obbligato, industriale affermato e titolare di redditi che gli consentivano un elevato livello di vita e gli imponevano di assicurare alla moglie la conservazione di quello goduto in costanza di matrimonio, in relazione al richiamato apporto della medesima durante gli anni di convivenza. In particolare, dal rapporto della Guardia di Finanza di Treviso era emerso che il medesimo disponeva di ingenti capitali in danaro e quote societarie, i cui proventi erano da aggiungere al reddito dichiarato, mentre la R. non godeva di alcuna entrata patrimoniale di rilievo e non appariva in grado, in ragione dell’età, di procurarsi un autonomo reddito.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il S. deducendo sei motivi. Non vi è controricorso.
Con la memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c. il difensore del ricorrente ha depositato certificato di morte del proprio assistito, chiedendo l’interruzione del processo.

Motivi della decisione
Va preliminarmente disattesa l’istanza del difensore del ricorrente diretta alla declaratoria di interruzione del processo a seguito del decesso del proprio assistito, atteso che nel giudizio di Cassazione, caratterizzato – come è noto – dall’impulso di ufficio, non trova applicazione (salva la questione, sulla quale è stato di recente sollecitato l’intervento del giudice della legittimità delle leggi, della incidenza della morte dell’unico difensore) l’istituto dell’interruzione per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e ss. c.p.c. (v. più di recente, tra le tante, Cass. 2004 n. 16138; 2004 n. 12581; 2004 n. 8416; 2003 n. 18300; 2003 n. 17295; 2003 n. 11200;
2003 n. 5672; 2003 n. 4767).
Con il primo motivo di ricorso si deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente applicato gli artt. 393 e 394 c.p.c., in quanto ha confermato la sentenza di primo grado, che era stata sostituita da quella di secondo grado, a sua volta caducata per effetto della pronuncia di cassazione, così conformandosi ad un provvedimento giuridicamente inesistente ed omettendo di statuire per la prima volta, come avrebbe dovuto, sulle domande proposte dalle parti.
Il motivo è infondato.
E’ indubbiamente esatto il rilievo del ricorrente secondo il quale la sentenza del primo giudice non rivive per effetto della cassazione con rinvio della sentenza di appello: ed invero il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito (giudizio di rinvio in senso proprio) non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito e non è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo grado, ma integra una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta per ragioni di rito alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (ovviamente nei limiti posti dalla pronuncia rescindente), ed è funzionale alla emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti. In tal senso è orientata la giurisprudenza di questa Suprema Corte, che ravvisa un implicito, ma evidente elemento di conferma di tale impostazione nella difformità di disciplina degli l’effetti dell’estinzione del processo in sede di appello ed in sede di rinvio, e specificamente nel rilievo che, mentre ai sensi dell’art. 338 c.p.c. l’estinzione del procedimento di appello fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto, secondo il disposto dell’art. 393 c.p.c. l’estinzione del giudizio di rinvio per mancata riassunzione nel termine o per il verificarsi di una causa di estinzione non determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, ma la sua inefficacia, salvi gli effetti della sentenza della Corte di Cassazione ed eventualmente l’effetto della cosa giudicata acquisito dalle pronunce emanate nel corso del giudizio (così, tra le altre, Cass. 2002 n. 13833; 2002 n. 6911; 2001 n. 3475; 2000 n. 14892; 1994 n. 5901).
E tuttavia la circostanza che la Corte del rinvio si è espressa nella formulazione del dispositivo in termini di rigetto dell’appello e di conferma della sentenza del primo giudice non vale ad integrare la prospettata nullità, atteso che detta Corte ha comunque proceduto ad un rinnovato esame del merito della controversia, anche sulla base dei nuovi accertamenti disposti, esprimendo proprie autonome valutazioni in ordine alla liquidazione dell’assegno e così ottemperando alle prescrizioni imposte dalla sentenza di cassazione con rinvio.
Con il secondo motivo, denunciando omissione della motivazione, si deduce che comunque la sentenza impugnata non ha affatto esposto le ragioni della conferma della pronuncia del Tribunale, ma si è fondata su un evidente ed errato sillogismo, su affermazioni apodittiche e viziate da grave pregiudizio, su una visione distorta delle effettive possibilità economiche del Sancire, attesa l’inadeguatezza del solo il rapporto della Guardia di Finanza a dimostrare la sua posizione reddituale.
La censura è inammissibile, in quanto nonostante il riferimento formale al vizio di motivazione si risolve in una mera contestazione, peraltro articolata in termini assai generici, delle valutazioni espresse dalla sentenza impugnata in ordine alle condizioni economiche del ricorrente ed in una sollecitazione ad un diverso apprezzamento del materiale probatorio.
Con il terzo motivo, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c. in riferimento all’art. 384 c.p.c., si deduce che la sentenza di questa Corte aveva cassato la sentenza impugnata non solo per difetto di motivazione, ma anche per violazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, e che il giudice del rinvio ha omesso di ricercare e di applicare il principio di diritto enunciato.
Il motivo è inammissibile, in quanto si fonda su una premessa insussistente. Ed invero la sentenza di questa Suprema Corte aveva annullato la pronuncia della Corte di Appello unicamente per difetto di motivazione, evidenziando la inidoneità delle argomentazioni svolte a rivelare la ratio decidendi, la loro contraddittorietà logico-giuridica, la non comprensibilità di alcuni passaggi.
Con il quarto motivo, denunciando contraddittorietà e/o difetto di motivazione e violazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, si sostiene che la sentenza impugnata, nell’affermare doversi tener conto della costanza nel tempo e della entità dei redditi del ricorrente, non ha considerato che l’andamento temporale di detti redditi si era sviluppato nel senso di un persistente scivolamento verso il basso, così da rendergli sostanzialmente impossibile la corresponsione dell’assegno nella misura stabilita. Si deduce altresì che la sentenza stessa, affermando che gli asseriti ingenti capitali in danaro ed in quote societarie dovevano essere aggiunti al reddito dichiarato, ha violato il principio secondo il quale vanno considerati soltanto i redditi in concreto percepiti, e non il valore dei cespiti che costituiscono fonte di tali redditi, ed è così incorsa negli stessi errori e nelle stesse petizioni di principio che avevano viziato la sentenza cassata. Si osserva ancora che il rapporto della Guardia di Finanza, datato 6 febbraio 2001, rifletteva una situazione reddituale relativa ad un periodo di gran lunga successivo a quello della sentenza di divorzio, cui occorreva far riferimento ai fini della determinazione dell’assegno.
Il motivo così sintetizzato è in parte infondato, in parte inammissibile. E’ infondato nel punto in cui prospetta un errore di diritto per avere la Corte di Appello ritenuto che i capitali in danaro e le quote societarie andassero considerati unitamente al reddito percepito, atteso che ai fini della liquidazione dell’assegno di divorzio deve tenersi conto, tanto in relazione alla posizione del soggetto onerato che a quella del richiedente l’assegno, della condizione economica complessiva, e quindi sia dei redditi effettivamente goduti, sia delle disponibilità patrimoniali e di tutte le risorse capaci di produrre comunque un reddito, anche in funzione del loro eventuale realizzo in danaro. E’ parimenti infondato nella parte in cui sostiene la inutilizzabilità del rapporto della Guardia di Finanza, in quanto riflettente una situazione successiva alla sentenza di divorzio: ed invero, al fine dell’accertamento del diritto all’assegno e della relativa quantificazione il giudice è tenuto a considerare l’evoluzione della situazione economica del soggetto onerato verificatasi nel corso del giudizio e riscontrabile al momento della decisione, in un quadro comparativo che tenga conto dell’analoga situazione dell’altro coniuge. Va al riguardo osservato che la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come di quelli attinenti al regime di separazione, postulano la possibilità di adeguare l’ammontare del contributo al variare nel corso del giudizio delle loro condizioni patrimoniali e reddituali, ed anche, eventualmente, di modularne la misura secondo diverse decorrenze riflettenti il verificarsi di dette variazioni (oltre che di disporne la modifica in un successivo giudizio di revisione), con la conseguenza che non solo il giudice di appello, ovviamente nel rispetto del principio di disponibilità e di quello generale della domanda, è tenuto a considerare l’evoluzione delle condizioni delle parti verificatasi nelle more del giudizio, ma che anche il giudice del rinvio, a sua volta nel rispetto dei limiti posti dalla pronuncia rescindente, deve procedere a tale valutazione (v. sul punto Cass. 2002 n. 17852; 1991 n. 13104; 1985 n. 5600; 1985 n. 4411; 1984 n. 2261; 1983 n. 4768).
Le residue censure proposte nello stesso motivo sono inammissibili, in quanto si risolvono in una sollecitazione ad una diversa valutazione del materiale probatorio.
Con il quinto motivo, denunciando violazione dell’art. 6 comma 6 della legge n. 898 del 1970, si deduce che nella determinazione dell’assegno di divorzio non si è considerato che l’assegnazione della casa familiare alla Rampogna poteva essere pronunciata, in difetto dei presupposti di legge, soltanto ad integrazione dell’assegno stesso.
Anche tale motivo è inammissibile, in quanto diretto a denunciare per la prima volta in questa sede la rilevanza, ai fini della liquidazione dell’assegno, della assegnazione della casa familiare.
Con il sesto motivo, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 90 e ss. c.p.c., omissione e/o contraddittorietà della motivazione, si censura la sentenza impugnata per aver pronunciato la condanna del Sandre al pagamento delle spese di tutti i gradi del giudizio, nonostante l’avvenuta cassazione della sentenza di appello, senza peraltro fornire adeguata motivazione al riguardo. Il motivo è infondato. Ritenuto invero, sulla base delle regole di diritto richiamate esaminando il primo motivo, che la cassazione della sentenza di appello aveva travolto anche la pronuncia sulle spese in essa contenuta, nonchè quella del primo giudice in ordine alle spese del grado, era nei poteri del giudice del rinvio rinnovare la relativa regolamentazione con riferimento a tutti i gradi del giudizio, secondo il criterio della soccombenza, da valutare con riguardo all’esito finale della lite (v., tra le altre, Cass. 2002 n. 6911, in motiv.; 2000 n. 14892; 1985 n. 2644). Di tale principio ha fatto puntuale applicazione la Corte del rinvio, adeguatamente motivando la propria statuizione con il riferimento al principio della soccombenza.
Il ricorso deve essere in conclusione rigettato. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese di questo giudizio di Cassazione, non avendo svolto la parte intimata attività difensiva.

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