Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-05-2012, n. 7520 Buona fede

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La s.r.l. S.I.A.I., concessionaria di autovetture per la provincia di Taranto sino al 1992, evocò in giudizio dinanzi al tribunale di Roma la GENERAL MOTORS ITALIA, per sentirne dichiarare l’inadempimento contrattuale e la violazione dei principi di correttezza e buona fede – con conseguente risarcimento dei danni – per avere ricevuto dalla convenuta una fornitura di autoveicoli in misura non corrispondente, per difetto o per eccesso, agli ordinativi, in attuazione di un comportamento ritenuto discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre concessionarie.

Il giudice di primo grado respinse la domanda.

La corte di appello di Roma, investita del gravame proposto dall’attrice in prime cure, lo rigettò integralmente.

La sentenza è stata impugnata dalla SIAI con ricorso per cassazione articolato in 2 motivi di doglianza (oltre ad un terzo, volto a ribadire la richiesta condanna al risarcimento dei danni in conseguenza dell’auspicata cassazione della pronuncia oggi impugnata).

La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1375 c.c., art. 116 c.p.c.; difetto di motivazione.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. sotto diverso e ulteriore profilo rispetto a quello dedotto. Omessa pronuncia su di un punto decisivo della controversia (violazione dell’art. 112 c.p.c.).

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione, sono privi di pregio. Non appaiono, difatti, condivisibili le doglianze della società ricorrente che, da un canto, lamenta un insufficiente rilievo attribuito dalla corte di merito alle; prove testimoniali onde inferirne la diversa conclusione che, nella specie, l’abusività e contrarietà a buona fede del comportamento della concedente dovessero ritenersi sicuramente predicabili; dall’altro, contesta al giudice territoriale una omessa pronuncia circa il comportamento della concedente con riferimento alla mancata esibizione di documentazione comprovante il dedotto inadempimento.

Entrambi i motivi si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto – non senza aver considerato ed interpretato funditus il contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte in corso di giudizio (come si evince da quanto specificato, testualmente, al folio 2 della sentenza oggi impugnata) – che nessun concreto abuso del diritto si fosse in realtà consumato ai danni dell’odierna ricorrente, per la assorbente considerazione secondo cui la richiesta di fornitura delle autovetture doveva, nella specie, essere preventivamente accettata dalla concedente perchè potesse legittimamente discorrersi di un vero e proprio diritto all’adempimento dell’ordinativo – non senza considerare, ancora, l’incontestabile obbligo della concessionaria di aderire alla campagne promozionali – alla luce di un complessivo assetto di interessi del tutto coerente con lo schema contrattuale della concessione in vendita.

Diversamente da quanto opinato dal ricorrente, il giudice capitolino – evidenziando come le risultanze istruttorie consentissero di escludere qualsiasi intento discriminatorio da parte della G.M. in favore di altre concessionarie pugliesi, mentre l’ingerenza del concedente nella sfera decisionale ed organizzativa dei rivenditori non poteva essere confusa con l’abuso di posizione dominante (nè tantomeno con l’abuso del diritto, volta che l’esercizio del diritto medesimo, da parte del suo titolare, non si era, nella specie, dipanato secondo modalità non necessarie e irrispettose del dovere di correttezza e buona fede) – ha compiutamente ed esaustivamente valutato il contenuto delle prove storiche emergenti dall’incarto processuale, per concludere, con motivazione esauriente e scevra da vizi logico-giuridici, per la impredicabilità del lamentato inadempimento sub specie della lamentata violazione dei principi di correttezza e buona fede – onde l’ultroneità e la ridondanza della questione del mancato assolvimento di un onere di esibizione si come oggi non utilmente lamentato dalla ricorrente.

Non sembra, pertanto, seriamente contestabile che entrambi i motivi, nel loro complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvano, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto della convenzione negoziale per la quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c., e segg.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Nessun provvedimento deve essere adottato in tema di spese processuali, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *