Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-09-2011) 10-11-2011, n. 40886

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.1. G.C., nella sua qualità di amministratore della snc G.M. Allestimenti e Montaggi fino al 31 dicembre 1991 e successivamente quale imprenditore individuale succeduto alla società predetta, dichiarato fallito il 5 marzo 1996, veniva accusato dei reati di bancarotta documentale, di numerosi episodi di bancarotta per distrazione, di bancarotta impropria per violazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., nonchè di violazioni tributarie.

1.2. Con sentenza emessa il 18 gennaio 2000 il tribunale di Terni condannava il G. alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, per tutti i reati contestati in base ai risultati di una consulenza tecnica del pubblico ministero ed alla relazione del curatore fallimentare 1.3. La Corte di appello di Perugia, con sentenza del 9 marzo 2010, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava non doversi procedere in ordine alle imputazioni fiscali perchè i fatti non erano più previsti dalla legge come reato e in relazione alle imputazioni di bancarotta impropria per violazione dell’art. 2621 c.c., riqualificato il fatto come violazione di tale ultima norma, per intervenuta prescrizione e riduceva la pena inflitta in primo grado al ricorrente.

2. Con il ricorso per cassazione G.C. deduceva:

1) la violazione dell’art. 605 c.p.p. e art. 533 c.p.p., comma 2, e artt. 132 e 133 cod. pen. ed il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena perchè, nonostante la declaratoria di non diversi procedere per due imputazioni legate al delitto di bancarotta per effetto della L. Fall., art. 219, la pena base non era stata modificata dal giudice di secondo grado, con conseguente violazione del principio del divieto di reformatio in peius.

2) La violazione di legge – L. Fall., artt. 216 e 217 – con riferimento al delitto di bancarotta documentale perchè, a parte il fatto che le scritture erano tenute da un professionista, per quanto riguarda la società le scritture vi erano, pur essendo caratterizzate da errori, mentre la mancanza delle stesse era riferita esclusivamente agli ultimi tre anni, quando l’azienda non era più operativa; era, pertanto, ravvisabile la violazione della L. Fall., art. 217;

3) La violazione di legge in relazione all’art. 157 cod. pen. nel testo novellato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, e art. 129 c.p.p., comma 1, con ulteriore riferimento agli artt. 601 e 599 cod. proc. pen., nonchè la violazione dell’art. 117 Cost. e dell’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Il ricorrente, dopo avere criticato gli approdi giurisprudenziali della Suprema Corte sul punto, richiamava a sostegno delle tesi sostenute l’ordinanza n. 22357 del 27 maggio 2010 della Sezione 2 della Corte di Cassazione, che aveva eccepito la incostituzionalità della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, nella parte in cui escludeva l’applicabilità del nuovo testo dell’art. 157 cod. proc. pen. ai processi pendenti in grado di appello. Il ricorrente, inoltre, criticava il concetto di pendenza in appello individuato dalla corte di legittimità e censurava il fatto che si dovesse applicare per intero una delle due normative e ciò con riferimento alla circostanza che al G. era stata contestata la recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 4. Il ricorrente chiedeva che sul punto fossero nuovamente investite le Sezioni Unite Penali, tenuto conto della novità costituita dalla citata ordinanza della Sezione 2^ della Corte. Chiedeva, infine, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dei reati contestati.

Motivi della decisione

1.1. I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da G. C. non sono fondati.

Secondo una impostazione corretta deve essere esaminato in primo luogo il secondo motivo di impugnazione che concerne i presunti vizi logici e giuridici della motivazione della sentenza impugnata in ordine al ritenuto delitto di bancarotta fraudolenta documentale;

successivamente saranno esaminati il primo motivo di ricorso concernente la misura della pena inflitta ed, infine, il terzo motivo di gravame relativo alla dedotta estinzione per prescrizione dei reati contestati.

Va subito detto che il ricorrente non ha impugnato la condanna per le numerose distrazioni contestate, essendosi limitato a censurare l’affermazione di responsabilità per il delitto di bancarotta documentale; pertanto deve ritenersi che la condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione sia passata in giudicato.

1.2. Quanto alla bancarotta documentale il ricorrente ha affermato che le scritture contabili relative alla società erano state reperite, mentre la irregolare tenuta di quelle relative alla ditta individuale era riferibile agli ultimi tre anni di attività, o meglio di inattività sostanziale; riteneva, pertanto, il ricorrente che fosse ravvisabile, tutto al più, il delitto previsto dalla L. Fall., art. 217.

La tesi difensiva non è fondata, ed anzi è ai limiti della ammissibilità perchè il ricorrente più che censurare manifeste illogicità della motivazione della sentenza impugnata, si è limitato ad apoditticamente affermare che le scritture contabili della società erano state reperite.

Le cose, però, non stanno in questo modo perchè i giudici del merito, fondandosi sui rilievi formulati dal consulente tecnico del Pubblico Ministero e su quelli del curatore fallimentare giudicati puntuali e precisi, hanno stabilito che, oltre alle numerose irregolarità riscontrate sulle scritture esistenti, mancava numerosa documentazione contabile ed in particolare non erano state reperite tutte le fatture relative all’anno 1989 afferenti la società e tutte le fatture afferenti la ditta individuale, oltre ai libri ed ai registri obbligatori di quest’ultima.

La mancanza di documentazione, che, peraltro, non era stata negata in grado di appello dal ricorrente, che aveva sostenuto che tutta la documentazione era stata da lui stesso consegnata a consulenti della società, aveva impedito, come chiarito dal consulente e dal curatore fallimentare, la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

Ed, infatti, a parte la mancata contabilizzazione del costo di acquisto di alcune autovetture, sia il consulente che il curatore non erano riusciti a spiegare gli anomali flussi di cassa proprio a cagione della mancanza delle necessarie scritture contabili.

1.3. Quanto alla possibilità di configurare nei fatti la più lieve ipotesi prevista dall’art. 217 della legge fallimentare, va detto che la corte di merito ha correttamente risposto ad analogo motivo sul punto ricordando che nel caso di specie era ravvisabile il dolo richiesto dal delitto previsto dalla L. Fall., art. 216, n. 2, consistente nella consapevolezza del G. che la mancanza e la irregolare tenuta delle scritture contabili avrebbero impedito o reso difficoltosa la ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari. Del tutto logicamente i giudici del merito hanno desunto siffatta consapevolezza dalla posizione apicale, prima, ed autonoma, poi, assunta dal G., e dalla reiterazione nel tempo delle condotte emerse, circostanze che consentivano di escludere che le irregolarità e la scomparsa di parte delle scritture potessero essere imputate ad un comportamento meramente colposo e negligente.

La motivazione congrua ed immune da manifeste illogicità della sentenza impugnata rende evidente la infondatezza del motivo di gravame in discussione.

2.1. Anche il primo motivo di impugnazione è destituito di fondamento non ravvisandosi la denunciata violazione del divieto di reformatio in peius.

In punto di fatto è accaduto che in primo grado fossero stati ritenuti ben sette episodi di distrazione, oltre alla bancarotta documentale.

Il tribunale, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla aggravante di cui alla L. Fall., art. 219 – più fatti di bancarotta -, determinava la pena base in anni tre e mesi tre di reclusione, ovvero in misura assai vicina al minimo edittale nonostante il notevole numero delle imputazioni, ridotta poi per la scelta del rito abbreviato.

Il giudice di appello, escluse due ipotesi di distrazione su sette, correttamente aveva ritenuto che la pena base fosse riferibile alla più grave delle ipotesi di distrazione contestate e che il venir meno di due fatti di distrazione dovesse comportare una rivisitazione del giudizio di comparazione tra le attenuanti generiche e l’aggravante di cui all’art. 219 L.F., divenuta, per così dire, meno grave per la intervenuta diminuzione dei fatti di bancarotta.

Cosicchè l’aggravante veniva ritenuta subvalente rispetto alle attenuanti con congrua riduzione della pena inflitta.

Di conseguenza non è ravvisarle nel caso di specie nessuna violazione del divieto di reformatio in peius sia sotto il profilo della complessiva pena finale inflitta (vedi Cass., Sez. 1, 13 marzo- 3 aprile 2007, n. 13702, CED 236433), di gran lunga inferiore a quella determinata in primo grado, sia con riferimento ai singoli elementi che hanno concorso alla sua determinazione (Cass., Sez. 1, 28 maggio-16 giugno 2009, n. 24895, CED 243806).

3.1. Infondato è, infine, anche il terzo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente ha chiesto la declaratoria di estinzione per prescrizione di tutti i reati contestati.

Le tesi del ricorrente sommariamente esposte nella parte narrativa non sono fondate.

E’ in primo luogo destituita di fondamento la tesi secondo la quale sarebbe possibile applicare parte della previgente normativa in tema di prescrizione e parte della nuova, secondo il criterio delle disposizioni più favorevoli per l’imputato.

Come ha chiarito la Suprema Corte, infatti, il giudice non può rispetto a due normative succedutesi nel tempo applicare contemporaneamente disposizioni della prima e della seconda normativa creando una terza fattispecie a carattere intertemporale non prevista dal legislatore perchè con tale modo di procedere si viola il principio di legalità (così Sez. 4, n. 36757, 4 giugno-17 settembre 2004, Perino).

Il principio è certamente da condividere, anche se, in verità la questione posta dal ricorrente – inapplicabilità al G. dell’art. 99 c.p., comma 4 nella sua nuova formulazione e contemporanea applicazione dei termini prescrizionali introdotti dalla L. n. 251 del 2005 – non appare rilevante nel caso di specie, tenuto conto di quanto si dirà. 3.2. Le censure di maggiore rilievo del ricorrente concernono il fatto che, pur essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata il 18 gennaio 2000 e pur essendo stati i motivi di appello depositati nel corso di tale anno, il processo non poteva considerarsi pendente in grado di appello al momento della entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, con conseguente inapplicabilità della disposizione prevista dalla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, ed applicabilità al ricorrente dei termini prescrizionali da tale legge previsti perchè più favorevoli all’imputato.

Sulla nozione di procedimento pendente in grado di appello si è effettivamente determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Ed, infatti, secondo un primo orientamento ai fini della applicazione delle norme transitorie previste dalla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, la pendenza in grado di appello ha inizio dopo la sentenza di primo grado, che deve intendersi intervenuta all’atto della lettura del dispositivo (Cass., Sez. 6, 20 novembre 2007-11 gennaio 2008, n. 1574, CED 240156).

Secondo altro orientamento, invece, il momento della pendenza in appello non coinciderebbe con quello della pronuncia della sentenza di primo grado e nemmeno con quello della presentazione dell’atto di impugnazione (tesi quest’ultima sostenuta da Cass., Sez. 4 18 marzo- 28 maggio 2009, n. 22328, CED 244000), ma con quello della iscrizione del processo nel registro generale della corte di appello (Cass., Sez. 3, 15 aprile-16 giugno 2008, n. 24330, CED 240342).

Il contrasto è stato, però, superato dalle Sezioni Unite (SU 29 ottobre-10 dicembre 2009, n. 47008, CED 244810) che hanno ritenuto che ai fini della operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna in primo grado determina la pendenza in grado di appello del procedimento, ostativa alla applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.

Il Collegio ritiene di adeguarsi all’indirizzo del massimo organo di nomofilachia perchè fondato su una corretta interpretazione letterale e logico-sistematica della norma in discussione.

In effetti il legislatore aveva escluso l’applicabilità delle nuove norme sulla prescrizione per tutti i processi pervenuti alla fase dibattimentale di primo grado individuando come momento di discrimine l’apertura del dibattimento.

Ciò al fine di impedire che i processi già regolati dalle norme precedenti potessero essere travolti dai nuovi più brevi termini prescrizionali.

Senonchè la Corte Costituzionale (sentenza n. 393 del 23 novembre 2006) aveva ritenuto irragionevole la scelta di individuare la dichiarazione di apertura del dibattimento come descrizione temporale per l’applicazione delle nuove norme sulla prescrizione.

In conseguenza di tale decisione è ostativa, ai sensi del citato art. 10, comma 3, alla applicazione delle nuove norme la pendenza dei processi in grado di appello e dinanzi alla corte di cassazione.

La soluzione adottata dalla Sezioni Unite appare del tutto corretta anche alla luce della richiamata decisione della Corte Costituzionale in materia, essendo del tutto ragionevole la scelta legislativa di individuare nell’intervento di una sentenza di condanna il fatto ostativo alla efficacia retroattiva della lex mitior; in tal modo, infatti, si salvaguarda il valore dell’efficienza del processo, evitando un sacrificio della aspettativa, costituzionalmente tutelata, della ragionevole durata, che implica che il processo, dopo una pronuncia di condanna, possa essere portato a conclusione (così Cass., Sez. 6, 27 novembre-21 dicembre 2006, n. 42189, CED 234954).

3.3. Ma, ha osservato il ricorrente, è intervenuto un fatto nuovo del quale è necessario tenere conto costituito dalla ordinanza n. 22357 del 27 maggio 2010 della Sezione 2^ della Corte di Cassazione di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale relativamente alla questione di legittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, per violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Senonchè con la sentenza n. 236 del 19 luglio 2011 la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 10 sollevata dalla Corte di Cassazione.

Prescindendo da una serie di interessanti argomenti portati a sostegno della tesi della legittimità del norma in discussione e della sua ragionevolezza, che non appare necessario sviluppare in questa sede, va rilevato che la Corte Costituzionale ha efficacemente ricordato che il principio di retroattività della lex mitior, come in generale le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione, norma interposta applicabile per effetto del richiamo dell’art. 117 Cost., nel nostro ordinamento, concerne, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia e nello stesso senso, 27 aprile 2009, Scoppola contro Italia).

Si deve, pertanto, ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità.

Cosicchè non può che concludersi che il principio di retroattività della lex mitior, riconosciuto dall’art. 7 della Convenzione, non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perchè si produca l’effetto estintivo del reato (vedi specificamente sul punto sentenza 22 giugno 2000, Coeme e altri contro Belgio; del resto anche la Corte di Cassazione – Sez. 5, 12 aprile-14 luglio 2006, n. 24410, CED 234297 – aveva stabilito un analogo principio).

Per concludere sul punto, quindi, la norma transitoria di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, non è incostituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost., come, invece, prospettato dal ricorrente che aveva mostrato adesione a quanto sostenuto dalla Sezione 2^ di questa Corte, che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale.

3.4. In conclusione, tenuto conto di quanto detto, ai reati di bancarotta contestati al G., commessi il 5 marzo 1996, sono applicabili i previgenti termini di prescrizione, essendo già pendente il processo dinanzi alla Corte di appello al momento della entrata in vigore della L. n. 251 del 2005. Essendo state le attenuanti generiche dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti il termine prescrizionale massimo è di anni quindici, ai quali debbono essere aggiunti mesi sei e giorni ventinove di sospensione della prescrizione – sul punto non vi è alcuna contestazione del ricorrente -; cosicchè il termine prescrizionale scadrà il 4 ottobre 2011.

Per tutte le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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