Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-09-2011) 10-11-2011, n. 40900 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la decisione impugnata la Corte d’appello di Lecce (sez. dist. di Taranto) ha confermato la sentenza emessa in data 29 settembre 2009, con cui il locale tribunale aveva condannato P.M. alla pena di quattro anni e otto mesi di reclusione e 27.000 Euro di multa per avere detenuto, a fine di spaccio, in concorso con il fratello C., sostanza stupefacente del tipo eroina, di cui 157 grammi sequestrati.

2. Contro la sentenza d’appello ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo, con unico motivo, "mancanza e illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riferimento alla valutazione di quanto riferito dal teste mar.llo V. sull’individuazione dell’autore del reo e alla conseguente attribuzione di responsabilità all’imputato".

Motivi della decisione

1. Risulta dalla sentenza impugnata – e non è contestato dal ricorrente – che in casa dei P. era detenuta sostanza stupefacente tipo eroina e che nel pomeriggio del 3 febbraio 2009, sotto gli occhi dei Carabinieri appostati a distanza di sicurezza, si svolse lo spaccio di tale sostanza.

P.C. si assunse l’esclusiva responsabilità della detenzione e dello spaccio della sostanza stupefacente. Oggetto del ricorso, presentato nell’interesse di P.M., è la sussistenza di un’adeguata motivazione della sentenza circa la partecipazione a tale fatto di P.M..

2. Si rileva in ricorso che – in mancanza di altre prove sul concorso dell’imputato nel fatto commesso dal fratello P.C. – è viziata la motivazione della sentenza che fonda la responsabilità del ricorrente sulle affermazioni del maresciallo V., che diresse la pattuglia di polizia giudiziaria che, a seguito di appostamento, assistette direttamente ai contatti tra l’uno o l’altro dei fratelli P. con gli acquirenti della sostanza.

L’identificazione dell’odierno imputato, quale autore dello spaccio assieme al fratello C. ("a volte usciva M. e a volte usciva C.") fu operata dal V., attesa la rassomiglianza tra i fratelli, sulla circostanza che P.M. "ha gli occhiali", cosicchè si riusciva a distinguere quale dei fratelli di volta in volta usciva per avvicinarsi ai cessionari della sostanza.

"Tale identificazione – assume il ricorrente – è fondata su una supposizione apodittica e viene ritenuta dalla Corte d’appello con una motivazione priva di ancoraggio logico e probatorio. … Perchè un simile elemento (gli occhiali) possa costituire prova certa … della partecipazione di M. alle condotte criminose, occorrerebbe avere certezza del fatto che lui, e solo lui, indossasse gli occhiali". In mancanza di tale certezza, è illogica la conclusione di responsabilità tratta dai giudici di merito.

2. Oltre alla previa conoscenza visiva che l’ufficiale e gli agenti di polizia giudiziaria avevano dei fratelli P., realizzata tramite esame delle fotografie in possesso dei Carabinieri, nei quali soltanto M. risultava portatore di occhiali, sta di fatto che i due fratelli furono osservati, in un ristretto lasso temporale (tra le 14.30 e 16 del 3 febbraio 2009), mentre si avvicendavano nell’uscire da casa per avere contatti con gli acquirenti. La circostanza che a volte il P. che usciva da casa avesse gli occhiali e a volte no, è stato ragionevolmente assunto dai giudici d’appello quale elemento d’identificazione dei due fratelli, concorrenti nel reato. La diversa interpretazione di tale circostanza fattuale da parte del ricorrente implica che il P.C., confesso autore del reato, avesse la strana abitudine di affacciarsi sull’uscio di casa una volta inforcando gli occhiali e una volta a viso scoperto. Tale comportamento, singolarissimo e stravagante non è conforme alla massima di comune esperienza, secondo cui il portatore di occhiali da vista se ne serve abitualmente, soprattutto quando ha necessità di esaminare con attenzione ciò che sta negoziando (milligrammi di eroina contro denaro).

L’assoluta inverosimiglianza di tale illogico comportamento rende plausibile la conclusione cui è pervenuta la sentenza d’appello con insindacabilità della motivazione ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) e conseguente inammissibilità del ricorso.

3. All’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di Euro 1000,00, in relazione alla natura delle questioni dedotte.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di (mille) Euro in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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