CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 12 maggio 2011, n.10457 RINUNCIA ALLA SERVITÙ

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 141, 156 e 164 c.p.c., in relazione ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c..

Sostengono, al riguardo, che la notifica della citazione in appello è inesistente perché (1) effettuata presso il domicilio eletto, dopo la morte del procuratore domiciliatario di primo grado, avv. Ge.Em.; (3) l’atto è stato ricevuto dalla segretaria non del predetto avvocato, ma del figlio di lui, avv. En.Ge.; (3) i due avvocati non erano associati fra loro, ma titolari di studi individuali.

Sostengono, inoltre, che la costituzione in appello era avvenuta al solo scopo di far valere l’invalidità della notifica. Pertanto, quand’anche quest’ultima fosse soltanto nulla e non inesistente, la costituzione in giudizio degli appellanti non avrebbe alcun effetto sanante.

1.1. – Il motivo è infondato.

Come già affermato in altre occasioni da questa Corte Suprema, la morte del procuratore domiciliatario produce l’inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la conseguente necessità che l’atto di impugnazione sia notificato, ai sensi dell’art. 330, terzo comma, c.p.c., presso la parte personalmente. Tuttavia, ove alla morte del difensore abbia fatto seguito la nomina di altro difensore domiciliatario, che abbia lo stesso studio del primo, la notifica presso lo studio del domiciliatario deceduto è nulla e non inesistente – e come tale, sanabile grazie alla costituzione della parte – dovendosi in questo caso considerare lo studio dell’avvocato alla stregua di un ufficio e l’elezione di domicilio effettuata con riferimento ad un’organizzazione professionale che continua ad operare dopo la morte del primo difensore (v. tra le più recenti, Cass. nn, 9543/10 e 58/10).

1.2. – Nel caso in esame, come si ricava dalle deduzioni della stessa parte ricorrente e dalla sentenza impugnata, alla morte dell’avv. Em.Ge. è subentrato, quale nuovo difensore domiciliatario di E..G. e di L..A., il figlio di lui, En., esercente l’attività professionale nel medesimo studio. La circostanza, affermata dai ricorrenti, che i predetti due avvocati non fossero associati tra loro, non esclude la comunanza dell’organizzazione professionale, atteso che lo studio associato è l’unica forma di esercizio in comune della professione forense, ma non anche la sola modalità di aggregazione professionale fra avvocati a fini economico-organizzativi, sicché quanto dedotto dalla parte ricorrente non costituisce valido motivo per non assicurare continuità all’indirizzo sopra richiamato.

1.3. – Né ha pregio la tesi che, in presenza di notificazione nulla, vorrebbe attribuire alla parte destinataria il potere di farne valere l’invalidità al riparo dall’effetto sanante.

Infatti, il principio, sancito in via generale dall’art. 156, comma terzo, c.p.c., secondo il quale la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato, vale anche per le notificazioni, con la conseguenza che la costituzione in giudizio del convenuto, anche se intervenuta al solo scopo di eccepire la nullità della notificazione dell’atto introduttivo, produce una sanatoria del vizio con efficacia retroattiva che esclude ogni decadenza (Cass. n. 10119/06; nello stesso senso, Cass. n. 8777/08). Ciò in quanto, va ricordato, detta norma ha carattere inderogabile e, di conseguenza, nessuna delle parti ha facoltà di farne valere potestativamente gli effetti, secondo la convenienza del caso.

2. – Con il secondo mezzo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1058, 1073 e 1074 c.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c..

Si sostiene che la sentenza impugnata ha errato lì dove ha ritenuto che la trasformazione consensuale del portico in box per auto fosse un "fatto concludente" irrilevante ai fini della modifica della o della rinuncia alla servitù, l’una e l’altra necessitando del consenso scritto, senza considerare che ciò era l’effetto di una precisa manifestazione di volontà congiunta delle parti, formalizzata per iscritto essendo contenuta nell’istanza congiunta di concessione edilizia per attuare detta trasformazione.

L’accordo del 5.5.1987 non si limitò a derogare, ma annullò e superò, quanto alla servitù reciproca, la convenzione del 26.7.1986, per la semplice ragione che la richiesta congiunta di concessione edilizia e la conseguente realizzazione dei box ne estinse l’oggetto (rectius, il luogo di esercizio), costituito dal porticato comune, sostituendolo con due autonome unità immobiliari, di proprietà individua.

2.1. – Il motivo è, nei termini che seguono, fondato.

2.2. – La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di esaminare la questione circa la possibilità che il requisito di forma scritta stabilito per la costituzione di una servitù possa essere integrato dalla sottoscrizione di atti di tipo diverso, risolvendola nel senso di escludere la necessità di formule sacramentali o di espressioni formali particolari, ma di richiedere che l’atto stesso abbia comunque natura contrattuale e contenga l’espressione chiara e univoca della volontà di costituire la servitù a favore di, e con aggravio su, determinati fondi. Su tale premessa è stato escluso che la volontà di costituire una servitù per l’utilità di un costruendo fabbricato possa desumersi dalle dichiarazioni sottoscritte dai proprietari di un fondo nell’istanza di rilascio della concessione edilizia, non essendo dirette tali dichiarazioni a costituire rapporti di natura reale tra i sottoscrittori (Cass. nn. 2658/01 e 5123/90; v. anche Cass. nn. 4104/96, 1570/00 e 13852/01, che pervengono ad analoghe conclusioni in relazione alla clausola, contenuta in un contratto di vendita, di mero richiamo delle limitazioni e servitù gravanti sul bene compravenduto, non essendo tale richiamo di per sé idoneo a creare nuovi rapporti di natura reale).

2.2.1. – Il caso in esame è opposto, perché attiene non alla costituzione, bensì all’estinzione di una servitù, e solo in apparenza speculare, in quanto procede da una servitù reciproca negativa incompatibile con il compimento dell’attività vietata, non essendo possibile, ad un tempo, volere l’edificazione di uno spazio libero e il mantenimento sul medesimo locus della servitus inaedificandi; né l’astratta reversibilità della situazione dei luoghi può rendere conciliabile la quiescenza della servitù negativa con l’attuazione del proposito edificatorio, poiché se è vero che la soppressione dell’utilitas estingue la servitù solo con il decorso del termine di cui all’art. 1073 c.c., richiamato dall’art. 1074 c.c., è altrettanto certo che tale estinzione dipende da un fatto, e non da un negozio, impeditivo l’esercizio della servitù stessa.

Nella situazione fattuale accertata dal giudice di merito, l’istanza di concessione edilizia, ove riconducitele alla volontà di entrambi i proprietari dei fondi reciprocamente asserviti, costituisce atto che implica necessariamente la volontà di estinguere la servitù per mutua rinuncia, di talché si pone l’ulteriore questione se la relativa sottoscrizione, effettuata da uno solo dei due proprietari, valga ciò non di meno a esaudire in senso bilaterale il requisito di forma dettato dall’art. 1350, n. 4 c.c. e richiamato dal n. 5 del medesimo articolo.

2.2.2. – Con motivazione che non forma oggetto di censura in questa sede di legittimità, la Corte territoriale ha accertato sia l’esistenza (pacifica) dell’accordo tra le parti inteso a modificare il contratto del 26.7.1986 consentendo a ciascuna di esse di chiudere la propria porzione di portico, sostituendola con la creazione di un box auto; sia la circostanza (documentale) che la relativa istanza di concessione edilizia era stata sottoscritta soltanto da una delle due parti.

Istituito il nesso tra i due fatti, la conclusione tratta dal giudice d’appello secondo il quale la rinuncia al diritto di servitù difettava della forma solenne prescritta dagli artt. 1058 e 1350, n. 5 c.c., neppure in ipotesi surrogabile dall’istanza di concessione edilizia a causa del difetto di bilateralità della relativa sottoscrizione – non è condivisibile.

Nel raccordo tra le due circostanze anzidette vi è l’accertamento implicito, da parte del giudice d’appello, del fatto che l’una parte si è giovata dell’attività svolta dall’altra ai fini del rilascio della concessione edilizia, essendo incontroverso che poi entrambe realizzarono effettivamente i box auto. Se ciò sia avvenuto in forza di un mandato verbale in rem propriam. ammissibile non vigendo per tale contratto la regola dettata per il negozio unilaterale di procura dall’art. 1392 c.c. (cfr. Cass. nn. 14637/00 e 12848/06), ovvero in base ad una negotiorum gestio, di cui pure ricorrerebbero, stando agli accertamenti compiuti dal giudice di merito, i requisiti (utilità iniziale e non proibizione del gerito, visto il previo accordo tra le parti sulla trasformazione del portico in due box auto), è indagine di fatto che tuttavia non rileva ex se, perché nell’un caso come nell’altro il dato saliente è costituito da ciò, che l’istanza di concessione edilizia è stata sottoscritta da una sola delle parti per esprimere una volontà comune ad entrambe.

Residua, pertanto, quale unico accertamento di fatto, come tale eccedente i limiti del giudizio di legittimità, se ciò nonostante vi siano altre ragioni per escludere la pari volontà dei proprietari di rinunciare alla servitù reciproca a favore e contro i rispettivi fondi.

3. – Le considerazioni svolte, imponendo la cassazione della sentenza impugnata, assorbono l’esame sia del terzo motivo, riguardante la contraddittorietà della motivazione per aver ritenuto ancora esistente la servitù, pur reputando legittima la trasformazione edilizia dei luoghi, sia del ricorso incidentale, col quale i controricorrenti hanno denunciato la falsa applicazione degli artt. 1027, 1028, 1031 e 1074 c.c., in connessione con l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nonché la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., relativamente alla parte della sentenza impugnata che ha ritenuto il venir meno dell’utilità della servitù (senza tuttavia che questa fosse estinta, non essendo decorso il termine di venti anni previsto dall’art. 1073 c.c.).

4. – In conclusione, va respinto il primo motivo del ricorso principale, accolto il secondo e assorbito il terzo nonché il ricorso incidentale, e conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, che nel decidere la controversia si atterrà al seguente principio di diritto: "’il requisito di forma scritta stabilito dall’art. 1350 n. 5 c.c. per la rinuncia a una servitù può essere integrato dalla sottoscrizione di atti di tipo diverso, non essendo necessarie formule sacramentali o espressioni formali particolari, purché contenenti una chiara ed univoca espressione di volontà incompatibile con il mantenimento del predetto diritto reale. Pertanto, la rinuncia ad una servitù negativa può essere contenuta nell’istanza di concessione edilizia diretta all’esecuzione di opere che, realizzate, determino il venir meno dell’utilitas da cui dipende l’esistenza della servitù stessa".

5. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo, assorbito il terzo e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

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