Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 26-10-2011) 11-11-2011, n. 41053

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – E.N., imputato di usura ed estorsione, è stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere con ordinanza del g.i.p. del Tribunale di Taranto del 20 giugno 2011, confermata da collegio del riesame dello stesso Tribunale in data 5 luglio 2011.

Contro quest’ultimo provvedimento, l’imputato propone ricorso per l’annullamento, deducendo due motivi.

2. – Col primo motivo si duole della mancanza di motivazione in ordine al delitto di estorsione, evidenziando che dalla deposizione della persona offesa non si ricava in cosa sarebbero consistite le minacce. Osserva inoltre che gli elementi valorizzati dal tribunale (un sms inviato alla vittima, i numerosi tentativi di chiamata effettuati sulla sua utenza telefonica, il fatto di essersi recato per almeno quattro volte sotto la sua abitazione) si prestano a letture alternative ed esiti opposti. Ed ancora, l’affermazione allo stato di coazione psicologica della vittima, desunto dallo spessore criminale dell’ E., sarebbe totalmente carente la motivazione.

3. – Il secondo, e più articolato, motivo riguarda la mancanza di motivazione innanzitutto in ordine alla sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all’art. 644 c.p., comma 5, nn. 3 e 4.

Il ricorrente sottolinea, in particolare, che i giudici di merito hanno desunto che la vittima versava in stato di bisogno solo sulla base della congiuntura negativa dei mercati; situazione in sè inidonea a fondare un giudizio circostanziato e, più in generale, comunque incapace – anche solo in astratto – a determinare una situazione di menomazione della libera volontà della persona offesa.

Quanto alla seconda delle aggravanti contestate, l’ E. evidenzia che la sola qualità di imprenditore non basta ad integrarne i presupposti, occorrendo inoltre che il rapporto debitorio abbia un nesso con l’attività d’impresa.

Più in generale, l’imputato si lamenta pure del fatto che il tribunale del riesame non avrebbe dato risposta a specifiche censure circa l’ammontare dei prestiti erogati e delle somme restituite e quindi, in definitiva, sul tasso di interessi praticato; ed anzi al riguardo avrebbe compiuto valutazioni contraddittorie.

4. – Il primo motivo di ricorso è inammissibile e il secondo infondato.

In ordine alla prima censura, questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talchè la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la L. n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 c.p.c., lett. e), consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo": alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803).

Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546;

Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

Nella specie, il ricorso si limita a proporre una lettura alternativa degli elementi di fatto valorizzati dai giudici di merito e, pertanto, contiene doglianze attinenti al merito della decisione, che non danno luogo a censure che possano trovare ingresso nel giudizio di legittimità. 5. – Venendo all’esame del secondo motivo di ricorso, va esaminata per prima – essendo preminente in ordine logico – la questione della contraddittorietà della motivazione in ordine all’entità degli interessi pattuiti fra l’ E. e C.L. e quindi su un elemento costitutivo della fattispecie criminosa contestata.

Deve essere premesso, al riguardo, che è fuori contestazione che l’ E. ha effettuato tre prestiti in favore di C. L.: due ravvicinati dell’importo di Euro 4.000,00 ciascuno ed uno, successivo, dell’importo di Euro 8.000,00.

Ciò posto, è vero che – in relazione del terzo prestito – è rimasto in ombra il tempo in cui le somme mutuate dovevano essere restituite, cosicchè non è possibile accertare che incidenza percentuale abbia avuto l’importo convenuto a titolo di interessi (Euro 2.000,00) rispetto alla sorte capitale. Tuttavia a prescindere dall’esattezza dei conteggi operati dal tribunale del riesame, non sussiste alcun vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’usura quantomeno in ordine agli altri due episodi.

Ed infatti, a fronte di un finanziamento complessivo di Euro 8.000,00 l’imputato ha preteso la consegna di due assegni di Euro 2.500,00 ciascuno ed il pagamento dell’importo di Euro 1.400,00 al mese;

pagamento protrattosi per almeno otto mesi. Cosicchè, in definitiva, come emerge dal provvedimento impugnato, l’ E., a fronte di un capitale mutuato di Euro 8.000,00, ha ricevuto in totale Euro 16.200,00, con un tasso di interessi superiore al 101,25% in solo otto mesi e quindi del 151,87% annuo.

Con riferimento alle doglianze che concernono le circostanze aggravanti, si deve innanzitutto rilevare che – a differenza di quanto dedotto dall’ E. – il giudizio in ordine alla sussistenza dello stato di bisogno ( art. 644 c.p., comma 5, n. 3) è adeguatamente circostanziato, in quanto facente espresso e specifico riferimento alla società della vittima (pag. 7 dell’ordinanza di riesame). Ogni ulteriore approfondimento sconfinerebbe in un’indagine in punto di fatto, non consentita in questa sede.

Altrettanto vale per quanto concerne gli elementi costitutivi della dell’ipotesi aggravata di cui all’art. 644 c.p., comma 5, n. 4.

Trattasi infatti di censura in punto di fatto, in quanto volta a contestare che il debito contratto dal C. sia davvero ascrivibile alla sua attività imprenditoriale (come ritenuto dal collegio del riesame) e non invece ad uso personale.

6. – Poichè i motivi dedotti risultano per alcuni profili inammissibili e per il resto infondati, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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