Cassazione civile anno 2005 n. 1727 Procedimento e sanzioni disciplinari Responsabilità professionale

AVVOCATO E PROCURATORE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Il Dott. G. V., iscritto nel registro dei praticanti abilitati al patrocinio, fu sottoposto a procedimento disciplinare:
a) per avere, nella sua qualità di contitolare dello "Studio associato V., avv. D. P. e Dott. G. V., corrente in Bergamo via Moroni n. 316" assunto, in maniera continuativa, incarichi professionali di specifica ed esclusiva competenza dell’avvocato, pur non essendo abilitato a svolgerli, con ciò concorrendo a determinare l’insorgenza di situazioni pregiudizievoli per i clienti e contrarie al decoro dell’avvocatura;
in particolare, il Dott. V. si avvaleva stabilmente dell’operato degli avvocati D. P. e T. C. per lo svolgimento di tale attività (a lui interdetta) e, in occasione dell’udienza del 22 settembre 1999 avanti al giudice istruttore del Tribunale di Bergamo (nella causa: Impresa S. s.n.c./CGS s.r.l.), di quella dell’avv. F. G.; con ciò violando l’art. 21, ultima parte del primo canone comportamentale del codice deontologico. b) per avere condizionato la restituzione di atti e documenti alla parte assistita CGS s.r.l. al pagamento delle proprie competenze e per avere, in tale occasione, posto in essere le condotte descritte nelle denunzie-querele presentate il 22 marzo 2000 da C. C. e da D. F. S.; con ciò violando i canoni comportamentali di cui agli artt. 5 e 43 del codice deontologico. c) per avere, in concorso con l’avv. T. C., fatto uso delle espressioni sconvenienti ed offensive oggetto di provvedimento di cancellazione del 14 febbraio 2000 del Tribunale di Bergamo, nel giudizio cautelare Impresa edile B./C.; con ciò violando il disposto dell’art. 20 del codice deontologico.
In esito al procedimento, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo dichiarò il Dott. V. responsabile degli illeciti disciplinari contestatigli e gli inflisse la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di dodici mesi.
Il Consiglio Nazionale Forense respinse il ricorso proposto dal Dott. V. contro la decisione del Consiglio dell’Ordine.
In relazione al capo a) della incolpazione il Consiglio Nazionale Forense ritenne che v’era la prova che lo studio apparteneva al Dott. V. e che le collaborazioni degli avvocati avevano la funzione di permettere a costui l’esercizio di un’attività per la quale non era abilitato.
Secondo il Consiglio Nazionale Forense, il comportamento del Dott. V. violava la norma di cui all’art. 21 del codice deontologico, atteso che l’organizzazione e la gestione di uno studio professionale articolato devono ritenersi attività proprie dell’esercizio professionale e pertanto consentite esclusivamente agli iscritti all’albo, mentre i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possono gestire la loro limitata attività professionale e possono partecipare a studi organizzati, ma non possono dirigere un’attività professionale complessa, soprattutto quando l’assunzione degli incarichi non rispetti i limiti dell’abilitazione provvisoria al patrocinio; infatti, ritenne ancora il Consiglio Nazionale Forense, l’attività professionale non si esaurisce nella rappresentanza e difesa in giudizio, ma è costituita anche da tutte quelle operazioni intellettuali precedenti e preparatorie delle attività processuali e soprattutto dalle relazioni con il cliente, che ha diritto di avere rapporti, anche per quanto riguarda gli aspetti economici, con un professionista legittimamente esercente.
In relazione al capo b) il Consiglio Nazionale Forense rilevò che le ammissioni del Dott. V., sia pure parziali ed ambigue, consentivano di ritenere attendibile la deposizione di C. C., la quale aveva riferito che il Dott. V., pretendendo il pagamento dei compensi professionali del suo studio, aveva rifiutato la restituzione dei documenti e si era determinato a restituirli soltanto dopo che si era reso conto della volontà della cliente di rivolgersi al giudice penale.
In relazione al capo c) il Consiglio Nazionale Forense rilevò che le espressioni usate nella comparsa, oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, erano da ritenere inconferenti e comunque inutili con riferimento alle esigenze difensive, cosicchè il loro inserimento nell’atto appariva del tutto ingiustificato; nè poteva attribuirsi rilievo al fatto che le espressioni offensive costituivano la riproduzione di conversazioni avvenute tra altre persone, perchè era dovere dell’avvocato valutare sia l’utilità, ai fini difensivi, di inserirle nell’atto, sia la loro potenzialità offensiva.
Il Dott. G. V. ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta decisione.
Il ricorso è stato notificato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo e al Consiglio Nazionale Forense.
Nella Camera di consiglio del 4 marzo 2004 è stata disposta l’integrazione del contraddittono nei confronti del Procuratore generale della Corte di Cassazione.
Alla integrazione ha tempestivamente provveduto il ricorrente.

Motivi della decisione
Il ricorrente denuncia:
a) violazione dell’art. 24, comma secondo, della Costituzione, assumendo che non è stato garantito il suo diritto di difesa, poichè non gli è stato mai contestato alcun fatto, atto o comportamento, preciso e documentato;
b) violazione dell’art. 25, comma secondo, della Costituzione poichè gli sono stati contestati fatti per i quali non esiste alcuna legge che li preveda come suscettibili di sanzione disciplinare.
Premesso che la potestà disciplinare deve essere esercitata in correlazione con la violazione di precetti deontologici espressamente formulati, il ricorrente assume che:
1) non risulta che egli abbia mai assunto incarichi professionali di competenza di avvocati o abbia svolto attività riservata all’avvocato;
2) non risulta che egli abbia posto in essere alcuna attività di condizionamento della ditta C.G.S. Impianti Elettrici o abbia mai pronunciato espressioni sconvenienti nei propri scritti;
3) non è dato comprendere quali fatti o comportamenti gli vengano addebitati posto che egli, nella qualità di praticante avvocato, abilitato al patrocinio, poteva svolgere attività forense con esclusione di alcuni atti riservati agli avvocati;
4) non era stato posto in condizione di conoscere con esattezza i fatti o comportamenti, esorbitanti rispetto alla sua qualità di praticante, in base ai quali era stato sottoposto a procedimento disciplinare, nè la data ed il luogo degli stessi.
In particolare, con riferimento al primo capo di incolpazione, il ricorrente assume che, dalla motivazione della decisione impugnata, non è dato intendere quali incarichi professionali di specifica ed esclusiva competenza dell’avvocato egli abbia assunto e quando e quali atti riservati agli avvocati egli abbia posto in essere.
Premesso che al praticante abilitato è consentito compiere tutte, indistintamente, le attività riservate all’avvocato, sia pure sotto il controllo di un professionista che rivesta tale qualifica, il ricorrente assume che, come riconosciuto dallo stesso Consiglio dell’Ordine di Bergamo, tale controllo vi era stato da parte degli avvocati P. e C..
11 ricorrente lamenta inoltre:
a) che il Consiglio dell’Ordine, prima, e il Consiglio Nazionale Forense, poi, abbiano posto a fondamento della decisione di condanna, in violazione dell’art. 27 della Costituzione, accertamenti svolti in sede di indagini penali ancora in corso;
b) che, con riferimento alla vicenda che lo vedeva coinvolto insieme all’avvocato S. C., il procedimento disciplinare era stato archiviato nei confronti di quest’ultimo, mentre si era concluso nei suoi confronti con la condanna;
c) che nessun fatto sanzionarle ai sensi dell’art. 21 del codice deontologico è stato accertato, poichè non risulta che egli abbia usato un titolo professionale che non gli competeva nè che avesse svolto attività professionale in mancanza di titolo idoneo.
Il ricorrente deduce, infine, che non ha riscontro l’affermazione contenuta nella decisione impugnata secondo la quale egli avrebbe ammesso i fatti che gli erano stati contestati.
Con riferimento al secondo capo di incolpazione il ricorrente assume, in conformità alla posizione assunta in sede di giudizio disciplinare:
a) che i fascicoli erano in prevalenza relativi a cause nelle quali procuratore nominato era l’avv. D. P.;
b) che nessuna richiesta di restituzione gli era mai giunta;
c) che, allorquando i fascicoli era stati richiesti per telefono dall’avv. Daniela Milesi, egli aveva fatto presente che gli stessi avrebbero dovuto essere ritirati presso lo studio, ed aveva provveduto alla loro immediata consegna nelle mani di una incaricata della detta professionista;
d) che la denuncia – querela contro di lui presentata era stata archiviata.
Il ricorrente, a riprova della inesistenza dei fatti oggetto della incolpazione, assume che la signora C. riferì in istruttoria di non avergli mai richiesto la restituzione dei fascicoli, ma di avere incaricato della richiesta l’avv. Milesi.
Con riferimento al terzo capo di incolpazione il ricorrente assume che le espressioni ritenute offensive non possono essergli attribuite perchè esse costituiscono la trascrizione del contenuto di una conversazione registrata tra le parti in causa, depositata in giudizio.
Il ricorrente, per ultimo, deduce l’eccessività della sanzione specie se comparata a quella inflitta agli altri due professionisti coinvolti nella vicenda.
Le censure sono infondate.
Non sussiste la denunciata violazione dell’art. 24 della Costituzione atteso che il Dott. V. ha potuto esercitare in modo completo ed esauriente il suo diritto di difesa, in ordine a tutti e tre i capi di incolpazione contestati, come emerge dalle sue difese svolte in sede di giudizio disciplinare.
In particolare, con riferimento al primo capo di incolpazione, che è quello sul quale si incentra la censura, risulta (v. ricorso contro la decisione del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Bergamo) che il Dott. V. ha avuto piena e chiara contezza dei fatti che gli venivano addebitati come illecito disciplinare, tant’è che ha contestato che potessero costituire esercizio della professione di avvocato, a lui inibita per la qualità di praticante abilitato: a) l’essere proprietario di uno studio; b) condurre la gestione dello studio medesimo, dal punto di vista amministrativo e contabile; c) accompagnare in Tribunale l’avv. P.; d) predisporre solo formalmente un mandato per un avvocato; e) associarsi con un avvocato che espletasse la relativa attività a sè interdetta.
La violazione dell’art. 25 della Costituzione, così come prospettata, attiene alla valutazione della sussistenza dei fatti e alla loro configurabilità come illecito disciplinare e pertanto va in tale ambito esaminata.
Con riferimento al primo capo di incolpazione, come risulta dalla parte narrativa, ed in estrema sintesi, il Consiglio Nazionale Forense, ha ritenuto che costituisca violazione dell’art. 21 del codice deontologico il fatto di un praticante procuratore legale, ancorchè abilitato, il quale associandosi con avvocati, assuma la direzione dello studio, sia dal punto di vista gestionale sia dal punto di vista organizzativo.
La censura svolta dal ricorrente, contro questo assunto del Consiglio Nazionale Forense, appare non pertinente nella parte in cui sostiene che egli non aveva svolto alcuna attività professionale, intesa come attività giudiziale, riconducibile a quella di avvocato; invero, è sufficiente osservare che un addebito di tal fatta non gli era stato mai mosso, mentre, invece la contestazione e l’accertamento svolto in sede disciplinare – e del quale egli si era perfettamente reso conto, avendo prospettato la sua tesi difensiva sul punto davanti al giudice disciplinare – attiene al fatto che egli era in effetti il titolare dello studio, del quale era proprietario e gestore, e che le collaborazioni degli avvocati avevano la funzione di permettergli l’esercizio di un’attività per la quale egli non era abilitato.
La censura appare poi infondata nella parte in cui contesta nel merito l’accertamento svolto in sede disciplinare e le conclusioni che ne sono state tratte sul piano della ritenuta violazione della norma deontologica.
Occorre ricordare che, come risulta dalla decisione impugnata, il Consiglio Nazionale Forense, con accertamento insindacabile in questa sede, ha rilevato che dagli scritti difensivi dello stesso – Dott. V. emergeva; 1) che il predetto aveva inizialmente costituito un’associazione professionale con l’avv. Bufardeci ed aveva organizzato uno studio legale attrezzato e funzionale, successivamente ponendo fine a questo rapporto collaborativo e istituendone altri, con diversi professionisti, pur rimanendo unico titolare e proprietario dello studio; 2) che detta posizione di titolare dello studio aveva consentito al Dott. V. di estromettere dallo studio un avvocato regolarmente iscritto all’albo e di ammettere alla partecipazione l’avv. D. P. e successivamente di associare l’avv. T. C. in posizione di collaborazione sostanzialmente subordinata e retribuita con compenso fisso; 3) che il Dott. V. aveva sempre avuto in esclusiva la gestione dello studio, sia in riferimento al rapporto con i clienti, per il conferimento e la revoca degli incarichi, sia in riferimento alle condizioni economiche delle collaborazioni prestate dai professionisti iscritti all’albo.
Ora se si guarda a quella che è la figura del praticante nel nostro ordinamento (v. artt. 8, 14 lett. c, 17 n. 5, r.d.l. n. 1578 del 1933; artt. 8, 10 r.d. n. 37 del 1934; art. 10 legge 242 del 1988;
D.P.R. n. 101 del 1990; legge n. 27 dei 1999), cioè di soggetto abilitato ad un’attività di tirocinio propedeutico e di formazione rispetto alla professione di avvocato, titolare, quindi, di uno status abilitativo provvisorio, limitato e temporaneo (v. Corte cost. n. 163 del 2002), al quale – secondo quanto assume lo stesso ricorrente – "è consentito compiere tutte, indistintamente, le attività riservate all’avvocato sebbene sotto la ‘curatela – controllò di un avvocato", appare immune da vizi, deducibili con il ricorso per Cassazione contro le decisioni del Consiglio Nazionale Forense, la statuizione del detto organo laddove ha ritenuto che il Dott. V., avendo assunto la direzione di uno studio, nel quale egli aveva una posizione di sostanziale supremazia nei confronti degli avvocati che ne facevano parte (nei termini e con le modalità accertati e sopra indicati), ha svolto un’attività non consentita al praticante, ma ha svolto un’attività propria dell’avvocato, che, come esattamente osservato, non si esaurisce nella sola rappresentanza e difesa in giudizio, con la conseguenza che, correttamente, è stata ritenuta violata la regola di cui all’art. 21 del codice deontologico, secondo la contestazione formulata a carico dell’incolpato.
Quanto al secondo motivo di censura è sufficiente osservare che esso svolge argomenti, tutti riconducibili al vizio di cui all’art. 360 n. 5 del c.p.c., e come tale appare inammissibile, in base al principio, ripetutamente affermato da questa sezioni unite, secondo cui le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono ricorribili per cassazione, ai sensi dell’art. 56 del R.D.L. n. 1578 del 1933, convertito nella legge n. 36 del 1934, e dell’art. 111 Cost, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, per cui il rimedio non è esperibile per denunziare l’inadeguatezza, l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione addotta a sostegno della decisione, mentre, sotto il profilo della violazione di legge, può essere solo denunciato il vizio consistente nella totale mancanza o nella mera apparenza della motivazione, che nella specie non sussiste (S.U. 27 gennaio 2004, n. 1414; S.U. 2 aprile 2003 n. 5072; S.U. 7 febbraio 2002, n. 1732; S.U. 17 gennaio 2002, n. 487; S.U. 26 giugno 2001, n. 8747; S.U. 6 aprile 2001, n. 150; S.U. 22 novembre 1999, n. 819, tra le più recenti).
Infondata appare poi la terza censura, in ordine alla quale deve essere affermato che l’inserimento, in un atto difensivo, della trascrizione della registrazione di una conversazione svolta tra le parti in causa, nella quale sono contenute espressioni offensive nei confronti di una di esse, è un fatto che può essere valutato negativamente in sede disciplinare, quando esso non sia giustificabile sotto il profilo della necessità di svolgere l’attività di difesa, atteso che, se detta necessità manchi, da un lato, viene meno la ragione per la quale può essere sacrificato il diritto della parte cui le espressioni appaiono rivolte a non vedere aggredita la propria sfera personale, e, dall’altro, si rivela la strumentalità della riproduzione delle espressioni offensive, che appaiono allora soltanto rivolte ad aggredire quella sfera personale.
Nella specie, il Consiglio Nazionale Forense ha escluso che tale necessità difensiva esistesse e detta valutazione è incensurabile in questa sede.
Inammissibile è, infine, la censura relativa alla determinazione della sanzione, atteso che sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è assolutamente univoca nell’affermare che l’adeguatezza della sanzione inflitta all’incolpato dal Consiglio Nazionale Forense non è sindacabile, essendo riservato agli organi disciplinari il potere di determinare la sanzione più rispondente alla gravità ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale (Cass. sez. un. 2 luglio 2004, n. 12140).
Il ricorso è rigettato.
Nessuna pronuncia dev’essere adottata in ordine alle spese di questo giudizio, essendo soccombente l’unica parte che vi ha svolto attività difensiva.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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