Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. Con sentenza deliberata il 10 novembre 2010, la Corte di Appello di Messina, confermava quella emessa il 16 ottobre 2009 dal Tribunale della sede, che aveva condannato l’appellante M.G. alla pena di giustizia, siccome colpevole dei delitti di detenzione illegale di una pistola calibro 7,65 mm, "con matricola obliterata" e di quattro cartucce dello stesso calibro; di detenzione illegale di arma clandestina e di ricettazione, reati accertati in (OMISSIS).
1.1 L’ipotesi accusatola, ritenuta fondata da entrambi i giudici di merito, era basata, essenzialmente, sulla circostanza in fatto che l’arma clandestina di cui trattasi era stata rinvenuta – nel corso di una perquisizione eseguita dalla Polizia di Stato nell’abitazione dell’imputato – all’interno di un armadio, ubicato nella camera da letto.
In particolare la Corte territoriale, dopo avere premesso di condividere le argomentazioni svolte sul punto dal primo giudice, riteneva che la vicenda "doveva essere considerata prescindendo dall’antefatto e dal postfatto" ovvero sia dalla circostanza in fatto, che alle operazioni di perquisizione aveva partecipato anche l’assistente C.L., che nei giorni precedenti il compimento di tale atto investigativo aveva avuto con l’imputato, un "vivace contrasto"; sia da quella secondo cui il M., come dallo stesso denunziato, durante la sua permanenza nei locali della Squadra Mobile di Messina, sarebbe stato picchiato dagli "operatori della polizia".
Più precisamente, sintetizzando un apparato motivazionale invero alquanto più articolato svolto sul punto, la Corte territoriale qualificava come inverosimile la tesi difensiva secondo cui il C., ritenendo il M. coinvolto in qualche misura nel furto di un ciclomotore da lui subito alcuni giorni prima della perquisizione – e ciò in base a confidenze ricevute da un noto pregiudicato della zona, Ci.Al. – ed avendo avanzato, addirittura, una pretesa risarcitoria nei suoi confronti, in quanto responsabile dei danni, quantificati nell’ordine di 500/600 Euro, cagionati al veicolo (temporaneamente recuperato, dopo una trattativa con il Ci., ma in seguito nuovamente rubato ed Incendiato), intendendo vendicarsi, avrebbe personalmente collocato l’arma nell’armadio durante la perquisizione, poi rinvenuta dal suo collega Mi..
Ed invero, dopo aver escluso che un’azione di siffatta natura e gravità potesse essere stata attuata senza il necessario concorso di tutti coloro che avevano preso parte all’operazione, i giudici di appello ritenevano "logicamente inverosimile" che "una pattuglia di ben cinque ufficiali di polizia (capeggiati da un Sovraintendente …) nel corso di un’articolata operazione, che per altro non era rivolta solo contro il M. ma anche nei confronti di un nipote del noto pregiudicato messinese, tale Ca.Gi., possa aver concepito "la consumazione di una simulazione di reato e di una calunnia di siffatta portata". 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M., per il tramite del suo difensore, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ( art. 192 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità dell’imputato, da ritenersi, invece, quanto meno dubbia, all’esito di un’attenta e serena valutazione di tutte le risultanze processuali.
Secondo il ricorrente, in particolare, i giudici di appello non hanno fornito adeguata e logica risposta alle censure mosse alla decisione di primo grado, con riferimento: alla ritenuta irrilevanza "dell’antefatto", sul cui svolgimento pure aveva diffusamente riferito in udienza il Ci.; alla non adeguata valutazione del "singolare" e non irreprensibile comportamento del c., tenuto conto che il predetto assistente, nonostante le evidenziate ragioni di contrasto con il M., partecipò alla perquisizione domiciliare, e fu anzi il primo a procedere all’ispezione dell’armadio in cui poi venne ritrovata la pistola, salvo interromperla ed allontanarsi dalla stanza per andare ad aprire il portone ad un collega; all’omessa valutazione del dato relativo all’assenza di impronte digitali dell’imputato sull’arma e l’incompatibilità, sul piano logico, della condotta complessiva dello stesso con l’Ipotesi accusatoria, nel senso che ove mai il M. fosse stato effettivamente consapevole della presenza dell’arma, lo stesso, avendone avuto la possibilità, avrebbe sicuramente provveduto a far sparire la pistola, prima di consentire l’accesso nel suo appartamento alle forze dell’ordine; la illogica svalutazione della deposizione della moglie dell’imputato, che avendo assistito alle operazioni di perquisizione, aveva riferito come il C. "aveva avuto modo di visionare l’armadio senza trovare alcuna pistola". Del tutto incongrue ed illogiche, inoltre, devono ritenersi, secondo il ricorrente, le argomentazioni addotte dai giudici di merito a confutazione dell’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa, apoditticamente ritenuta "inverosimile", risultando, in particolare, incomprensibili le ragioni per cui la straordinaria gravità della condotta denunziata dall’Imputato avrebbe dovuto comportare il "concorso necessario" di tutti i componenti della pattuglia che avevano partecipato alle operazioni di polizia, le cui dichiarazioni, per altro, spesso contraddittorie, non avevano formato oggetto di approfondita disamina da parte dei giudicanti.
Motivi della decisione
1. Il ricorso proposto nell’interesse del M. è basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e ne va pertanto dichiarata l’inammissibilità. 1.1 Avuto riguardo alle deduzioni difensive svolte in ricorso, che nelle loro poliformi articolazioni, denunziano un travisamento del fatto e carenza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità del M., è opportuno precisare, in primo luogo, come che questa Corte ha da tempo chiarito, che "il cosiddetto "travisamento del fatto" in tanto può essere valutabile e sindacabile in sede di legittimità in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi, tassativamente previste, della "mancanza" o della "manifesta illogicità" della motivazione; il che richiede (essendo fuori dei compiti istituzionali della Corte di cassazione l’esame diretto degli atti del procedimento, ai fini di un giudizio in ordine alla correttezza o meno della loro valutazione da parte del giudice), la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell’avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sì che la Corte di legittimità possa, a sua volta, verificare, dal "testo del provvedimento impugnato" (come previsto dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e)), se e come quegli elementi siano stati valutati" (così Sez. 1, Sentenza n. 2548 del 1/06/1992, dep. 14/07/1992, Rv. 191279, imp. De Santis). In particolare è opportuno qui ribadire che, in tema di giudizio di cassazione, "pur dopo la novella codicistica operata dalla L. n. 46 del 2006, che consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo", alla Corte di cassazione restano precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare al controllo se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito" (così ex multls, Sez. 1, Sentenza n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv.
235507, imp. De Vita).
Orbene, anche in applicazione di tale condivisibile principio è agevole rilevare come nessun profilo di illegittimità è fondatamente ravvisabile nella decisione impugnata, avendo la Corte territoriale, anche attraverso l’espresso rinvio alle motivazioni addotte dal giudice di prime cure, fornito esauriente e logica spiegazione delle ragioni per cui l’arma rinvenuta in sede di perquisizione doveva senz’altro ritenersi illegalmente detenuta dall’odierno ricorrente e non già ivi fraudolentemente collocata da uno degli agenti che operarono la perquisizione. In particolare, seppure deve ritenersi incongrua l’affermazione dei giudici di appello circa l’irrilevanza dell’antefatto dell’episodio delittuoso, che in realtà ha formato oggetto di attenta valutazione da parte del giudice di primo grado, che ha anzi stigmatizzato come la circostanza di aver chiesto informazioni al M. sulle sorti del proprio motorino, era poco "onorevole" per un appartenente alle forze dell’ordine, il percorso argomentativo svolto dai giudici di merito ha Illustrato adeguatamente e con argomentazioni invero plausibili, le ragioni per cui la detenzione dell’arma era da attribuirsi senz’altro al M., escludendo che il nascondimento della pistola fosse avvenuto ad opera del C., che pure "aveva attenzionato per primo l’armadio", valorizzando al riguardo la circostanza che il predetto ufficiale di polizia giudiziaria non era "mai stato solo nella piccola stanza in cui è stata rinvenuta l’arma", ma aveva operato "sotto il controllo della moglie del M. ed alla presenza del collega Mi. che nello stesso ambiente stava ispezionando dei cassetti". Anche alla stregua di tali considerazioni nessun effettivo profilo di manifesta illogicità è quindi ravvisabile nella motivazione della sentenza di appello, specie laddove si allude, con espressione forse infelice sul piano tecnico-giuridico ma comunque efficace sul piano logico-descrittivo, ad un concorso "necessario" degli altri agenti che eseguirono la perquisizione nella "macchinazione" asseritamente posta in essere dal C. in danno dell’imputato.
In presenza di un siffatto percorso argomentativo sviluppato nelle sintoniche decisioni dei giudici di merito, è agevole rilevare che le deduzioni della difesa del ricorrente, riguardanti la valutazione di attendibilità e coerenza dei dati valorizzati dai giudici di merito, lungi dal dimostrare un effettivo e verificabile travisamento delle emergenze processuali – ed in particolare che la pistola sia stata collocata nell’armadio, per vendetta, su iniziativa del C. – si risolvono, per un verso, nella prospettazione di una "ricostruzione alternativa" e meramente congetturale delle risultanze processuali, e dall’altro, in una sollecitazione a compiere una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, riservata esclusivamente al giudice di merito.
2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000) – al versamento alla cassa delle ammende di una somma congruamente determinabile in Euro 1000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.
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