Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-10-2011) 11-11-2011, n. 41107 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Torino, con la sentenza in epigrafe, ha confermato – salvo che per l’entità della pena, ridotta ad anni uno e mesi dieci di reclusione ed Euro 550,00 di multa – quella del Tribunale di Vercelli, deliberata il 3 marzo 2010, che aveva ritenuto l’appellante B.G. colpevole dei reati di detenzione illegale di arma comune da sparo atta all’impiego (un fucile da caccia calibro 12 a canne mozze), capo A della rubrica; di ricettazione del predetto fucile, in quanto provento del delitto di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 3, avendo l’arma le canne mozze ed il calcio resecato, che ne rendevano più agevole il porto, capo B della rubrica; di detenzione illegale di munizioni per armi comuni di sparo, capo C della rubrica; reati unificati nel vincolo della continuazione.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, personalmente, chiedendone l’annullamento: a) per violazione di legge, quanto alla condanna per il delitto di detenzione di arma clandestina, risultando la decisione impugnata frutto di una errata valutazione delle risultanze processuali, avendo i giudici di merito illogicamente ritenuto non veritiere le dichiarazioni di esso ricorrente in merito al rinvenimento casuale del fucile di cui trattasi, tempo prima, In un cascinale, nello stato di fatto nel quale fu poi ritrovato dai Carabinieri ed alla sua utilizzazione soltanto per allontanare i cinghiali, ormai assai numerosi all’interno del Parco naturale del Monte Fenera, ove è ubicata la sua abitazione; b) per vizio di motivazione, con riferimento sia all’affermazione di responsabilità per la detenzione illegale di un’arma comune da sparo, basandosi tale pronuncia, oltre che sulle dichiarazioni dei Carabinieri, su di una consulenza tecnica che indicava in realtà in modo chiaro che il fucile calibro 12 oggetto dell’imputazione, non poteva qualificarsi come arma comune da sparo; sia al mancato riconoscimento dell’attenuante invocata nei motivi di appello – la lieve entità del fatto – negata dai giudici di appello a ragione della incongrua valutazione di responsabilità per un’alterazione dell’arma non ascrivibile ad esso ricorrente.

Motivi della decisione

1. L’impugnazione è inammissibile in quanto basata su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.

1.1 Quanto ai primi due motivi d’impugnazione va rilevato, infatti, che tutte le censure sviluppate in ricorso per confutare l’affermazione di responsabilità del ricorrente per i reati di ricettazione e di detenzione illegale di arma clandestina, nelle loro poliformi articolazioni, si risolvono, in definitiva, nella riproposizione in questa sede, di deduzioni in fatto già esaminate e valutate dai giudici di appello, i quali, con motivazione congrua ed esente da vizi logici o giuridici, ne avevano rimarcato l’irrilevanza, dando conto, dell’esistenza a carico dell’imputato di elementi di significativa valenza accusatoria, quali il rinvenimento dell’arma nella sua disponibilità; l’efficienza della stessa, seppure di antica costruzione, l’effettiva alterazione dell’arma, ottenuta attraverso la recisione delle canne e del calcio.

In particolare i giudici di appello hanno dato conto delle ragioni per cui doveva ritenersi inverosimile e comunque irrilevante la tesi difensiva circa l’asserito casuale ritrovamento dell’arma in un casolare non meglio identificato, allorquando l’alterazione della stessa era stata già eseguita e del perchè il fatto contestato, in quanto relativo ad un’arma clandestina, non potesse considerarsi di lieve entità.

In presenza di un percorso motivazionale, articolato, logico ed aderente alle risultanze processuali, le argomentazioni difensive sviluppate in ricorso, lungi dal segnalare effettivi vizi motivazionali, non superano la soglia della ricostruzione alternativa e meramente congetturale.

2. – Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero – al versamento di una somma alla cassa delle ammende, congruamente determinabile in Euro 1000,00, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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