Cassazione civile anno 2005 n. 1676 Divieto di intermediazione e di interposizione nelle assunzioni di lavoratori

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con sentenza 16 maggio-23 luglio 2002 la Corte d’Appello di Milano dichiarava inammissibile l’appello proposto dalla s.n.c. G. di G. N. avverso la decisione del locale Tribunale relativa all’ordinanza ingiunzione 97/97 emessa dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Pavia.
Con la medesima decisione la Corte milanese assolveva la s.n.c. G. dalle altre domande revocando i decreti ingiuntivi opposti relativi a contributi I. e premi I.. Il primo giudice aveva rilevato che, nonostante il passaggio formale dalla s.n.c. G. ad una cooperativa di lavoro, S. I. di Novate, avvenuto nel gennaio 1995, i lavoratori già dipendenti della prima società erano rimasti a fare gli stessi lavori nello stesso stabilimento G.. Il Tribunale riteneva pertanto che tutti i lavoratori indicati dagli Ispettori verbalizzanti fossero da considerare alle dirette dipendenze di G..
I giudici di appello riformavano detta decisione, rilevando che non era emerso in alcun modo che la Cooperativa S. I. fosse un soggetto fittizio.
Il primo giudice aveva rilevato che la direzione e l’organizzazione della produzione G. erano dirette da ex dipendenti di questa società. Ciò dimostrava, tuttavia, che tutta l’attività produttiva era effettivamente passata alla Cooperativa S. I.. Dalle prove espletate era emerso che nella Cooperativa lavoravano anche altri soci, oltre agli ex dipendenti di G. e che la Cooperativa avviava i soci lavoratori anche in società diverse da G..
Avverso questa decisione l’I. ha proposto ricorso per Cassazione sorretto da un unico motivo.
L’I. ha proposto autonomo ricorso sorretto da un unico motivo.
G. di G. N. & c. s.n.c., G. N. e P. C., nella loro qualità di soci e contitolari della società, resistono ad entrambi i ricorsi con controricorso.
La Direzione provinciale del lavoro di Pavia non ha svolto difese,

Motivi della decisione
Devono essere riuniti i due ricorsi 31262 e 31267 del 2002, in quanto proposti entrambi contro la medesima decisione (art. 335 codice di procedura civile). Con l’unico motivo l’I. denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1 commi 1 e 3 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, dell’art. 2094 codice civile, degli articoli 1 e 4 del D.P.R. 1124 del 1965, nonchè omessa, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
La motivazione della sentenza impugnata, ad avviso dell’I., si segnalerebbe per la sua frettolosità, superficialità ed assoluta carenza di ogni motivazione.
I giudici di appello avevano riformato, senza alcuna spiegazione, la ampia ed esaustiva sentenza emessa dal Tribunale di Pavia, che aveva riscontrato nella fattispecie ometto del presente giudizio la presenza di tutti quegli indici rivelatori di un appalto di mere prestazioni di lavoro, giacchè le prestazioni lavorative assicurate dai soci della Cooperativa S. I. erano del tutto congruenti con quelle della organizzazione della G., ditta appaltante, tanto che i lavoratori avevano finito per continuare a svolgere le medesime mansioni di quando erano alle dipendenze dirette di G., pur essendo formalmente dipendenti da un diverso datore di lavoro.
In particolare la Corte milanese non avrebbe svolto alcuna indagine in merito ai contratti di appalto o di affitto dei macchinari G.. La sentenza non conteneva alcun riferimento concreto in ordine all’attività effettivamente svolta da S. I..
Non vi era alcun accenno in ordine all’eventuale esistenza di un rischio economico in capo alle due imprese, al S.a di pagamento delle lavorataci.
Di più: I giudici di appello non avevano considerato che una parte del debito di G. (e precisamente quello relativo alle omissioni contributive del primo periodo agosto 1993 – gennaio 1995) non era stata minimamante contestata dalla società, sicchè, almeno per questa parte, doveva ritenersi che una parte dei decreti ingiuntivi fosse passata in giudicata.
Con l’unico motivo l’I. denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. …. (illeggibile) commi 1 e 3 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, dell’art. 2094, degli articoli 1 e 4 del D.P.R. 1124 del 1965, nonchè omessa, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 codice di procedura civile).
Era emerso dagli atti che la Cooperativa S. I. a r.l., già A. s.r.l., era stata costituita nel mese di novembre 1993, e che la G. aveva operato sino al 31 gennaio 1994 con proprio personale e propria organizzazione.
Quest’ultima società, in data 1^ febbraio 1994, aveva stipulato un contratto di appalto con la S. I. che aveva ad oggetto un’ampia gamma di lavorazioni (preparazione di ingredienti, mescolatura, trafilatura, sagomatura, bobinamento, confezionamento, carico e scarico di prodotti diversi).
Lo stesso giorno G. aveva concesso in locazione alla S. I. tutti i propri macchinari, per un importo di lire 3.500.000.
Tutti i soci lavoratori passati alle dipendenze della S. I. nel febbraio 1994 avevano continuato a lavorare fino al 31 gennaio 1994 per G., dove poi avevano continuato a svolgere lo stesso lavoro sulle medesime macchine, nella stessa sede e con lo stesso materiale.
Era risultato che nel periodo oggetto della verifica ispettiva G. non eseguiva altre lavorazioni rispetto a quelle cui erano addetti i suoi ex lavoratori divenuti, nel frattempo, soci della cooperativa S. I., in quanto G. non aveva più dipendenti e la cooperativa era stata posta in liquidazione dal 3 febbraio 1994, appena due giorni dopo la sottoscrizione del contratto di appalto stipulato con G..
Sulla scorta di tutti questi elementi il primo giudice aveva ritenuto sussistente un appalto di mere prestazioni di lavoro, ravvisando l’inserimento di fatto dei soci lavoratori nella struttura organizzativa della G., considerato che S. I. non aveva una sua autonoma organizzazione, non aveva assunto il rischio di impresa relativamente al servizio Tornito a G., che continuava a organizzare e gestire in concreto i rapporti di lavoro con tutti i suoi ex dipendenti.
Questo giudizio, sottolinea l’I., era avvalorato dalla circostanza che la S. I. impiegava nel ciclo produttivo tutti i macchinari di proprietà di G. e che il suo apporto era del tutto marginale ed accessorio.
Si doveva considerare realizzata, pertanto, la fattispecie prevista dal comma 3 dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, con la presunzione legale assoluta ad essa collegata. Nè, del resto, il pagamento di un canone di locazione mensile poteva superare la presunzione della sussistenza di una interposizione di manodopera vietata.
I giudici di appello non avevano preso in esame le dichiarazioni rese dai testimoni, in particolare quella del G., D. e C. i quali avevano riferito, rispettivamente, che il contratto G.-S. I. aveva ad oggetto tutte le prestazioni di manodopera esistenti all’interno di G. e che il lavoro era continuato sulle stesse macchine, nella stessa sede, con lo stesso materiale, da parte degli stessi lavoratori che erano prima dipendenti diretti G..
I due ricorsi possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi tra di loro.
Essi sono fondati.
La sentenza impugnata non spiega le ragioni per le quali ha ritenuto di dissentire dalle conclusioni cui erano giunti i giudici di primo grado, limitandosi a ricordare che i soci della cooperativa erano stati impiegati anche per altri committenti e che all’interno della stessa cooperativa vi prestavano la loro attività lavorativa anche altri soci lavoratori (oltre agli ex dipendenti della G.).
Tali argomenti, ad avviso del Collegio, non spiegano affatto per quali ragioni la società cooperativa dovesse essere considerata come "vera impresa" con riferimento all’appalto in esame.
Tra l’altro, non si comprende il rilievo che i giudici appello attribuiscono alla mancanza di liquidità da parte dei G. (sottolineando che: "il fatto che G. non avesse più liquidità per pagare gli stipendi ai dipendenti risulta in contrasto con la pretesa di considerarla l’effettivo datore di lavoro").
Del tutto irrilevante, infine, appare la circostanza, accertata dai giudici di appello, che tutta la direzione organizzativa fosse svolta da ex dipendenti G. (passati alla cooperativa).
In tal modo, la Corte d’Appello ha rifiutato di compiere tutte quelle indagini, che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, si rendono necessarie per accertare l’eventuale sussistenza di un appalto di manodopera vietato.
Appare il caso di ricordare che, con l’art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 si prevede il divieto di affidare "in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario;
qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono".
Il legislatore non ha adottato una precisa formulazione giuridica, ricorrendo invece alla terminologia dei contratti tipici più frequentemente utilizzati per mascherare l’interposizione.
In questo senso, può dirsi che il richiamo contenuto nel primo comma dell’art. 1 alle figure dell’appalto o subappalto è meramente descrittivo ed esemplificativo, poichè subito dopo lo stesso articolo, nello stesso comma, considera illecita qualsiasi altra forma attraverso la quale è possibile realizzare una situazione interpositoria, aggiungendo poi che è del tutto irrilevante la natura dell’opera o del servizio gestito dall’imprenditore appaltante, in relazione alla quale le prestazioni di lavoro sono richieste ed utilizzate.
In pratica, secondo i principi generali propri del diritto del lavoro, è del tutto inutile ricorrere ad artifici o a contratti tipici diversi da quelli indicati specificamente del primo comma dell’art. 1 per eludere il divieto legale.
Infatti, sia l’appalto di servizi – che sottolinea l’importanza del risultato finale – che la somministrazione, la quale comporta per il somministrante l’obbligo di eseguire determinate prestazioni periodiche e continuative, che qualsiasi altra figura contrattuale, ricadono tutte nel più generale divieto della legge 1369 del 1960, quando manchi una organizzazione aziendale dell’appaltatore e cioè quando quest’ultima, in pratica, si limiti a porre a disposizione dell’appaltante energie lavorative, senza adeguata struttura organizzativa e senza alcun rischio.
Ciò non equivale a dire che l’appaltatore non e – più in generale – un imprenditore, ma solo che non lo è con riferimento a quello specifico contratto, perchè non sopporta alcun rischio di impresa (e quindi il contratto è fittizio: Cass. 16 settembre 1987 n. 7259).
Ovviamente, non si può desumere alcuna indicazione circa la fittizietà dell’appalto sulla base solo della circostanza che i lavori appaltati non siano specialistici e rientrino invece nella normale attività dell’impresa appaltante.
La legge, infatti, all’art. 1 non pone alcun divieto, nè implicito nè esplicito, di appaltare o subappaltare singole fasi del ciclo produttivo aziendale normale, nè ha istituito in proposito alcuna presunzione di interposizione fittizia, come invece prevede espressamente il terzo comma, per il caso di fornitura all’appaltatore da parte del committente di capitali, macchine ed attrezzature.
Occorrerà, in pratica, procedere di volta in volta ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti, allo scopo di accertare in concreto se l’impresa appaltatrice operi concretamente in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all’altra impresa committente o meglio, in altre parole, se essa abbia una gestione a proprio rischio in relazione alla specifica opera o servizio affidatole.
Il problema si riduce quindi nell’individuare i criteri da seguire per l’accertamento del requisito della gestione a proprio rischio da parte dell’appaltatore.
Una seconda ipotesi di presunzione legale, dopo quella del secondo comma dell’art. 1 (lavoro a cottimo), è prevista dal terzo comma dello stesso articolo, che considera appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto anche per esecuzioni di opere o servizi, tutte le volte in cui l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, anche quando per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.
Si tratta di una presunzione che non ammette prova contraria (come più volte ha riconosciuto la giurisprudenza della Suprema Corte, che può oramai ritenersi consolidata sul punto).
In altre parole, siamo in presenza di una valutazione legale tipicamente predeterminata:
ogni volta che si accerti la fornitura dei mezzi di organizzazione e di produzione, scatta la presunzione di appalto illecito, vietato dall’art. 1.
Nel caso in cui uno dei tre elementi previsti dal terzo comma sia fornito dal l’appaltante – anche se dietro compenso versato dall’appaltatore – occorre effettuare una indagine sulla preponderanza dell’apporto dato dall’appaltatore e quello eventualmente fornito dall’appaltante, concludendosi per l’esistenza di un appalto vietato tutte le volte in cui il primo sia accessorio rispetto ai secondo, come ad esempio, nel caso di attrezzature e capitali di modesta entità economica rispetto al valore del contratto, oppure nell’ipotesi in cui l’appaltatore conferisca solo attrezzi minuti, di sua proprietà, ovvero di proprietà dei suoi stessi dipendenti.
E’ poi appena il caso che le attrezzature e le macchine possono anche non appartenere al committente come del resto risulta dallo stesso tenore letterale del comma 3, che adottando la espressione "fornite" non presuppone evidentemente che le attrezzature e le macchine siano di proprietà dell’appaltante.
Esistono, oggi, varie tipologie di contratto che consentono di disporre di macchine di proprietà di altri: naturalmente deve trattarsi di macchine ed attrezzature che vengono utilizzate per il lavoro appaltato.
Nel primo comma dell’art. 1, il legislatore ha previsto il caso dell’imprenditore che trasferisca su di un interpositore il rischio dell’impresa, trattenendo per sè i vantaggi;
con la disposizione di cui al terzo comma, invece, ha inteso impedire che un committente – imprenditore o meno – "costruisca" fittiziamente un imprenditore apparente, cui appaltare dei lavori, onde non assumere direttamente i rischi di impresa.
Il terzo comma dell’art. 1 assolve, in questa prospettiva, una duplice funzione: di integrazione del primo comma, nell’ipotesi in cui l’appaltante sia anche imprenditore;
di chiusura, in piena autonomia rispetto al primo comma, nell’ipotesi in cui l’appaltante non abbia quella veste.
Inteso in questo senso, il criterio dell’appartenenza dei mezzi di produzione sembra perdere quella rilevanza che pure dottrina e giurisprudenza gli attribuiscono, riducendosi alla regolamentazione di una particolare fattispecie, equiparata dal legislatore a quelle previste dal primo comma, e introdotta proprio per colpire quelle figure negoziali alle quali le parti avrebbero potuto ricorrere per eludere il divieto.
In conclusione, può dirsi che – al di fuori delle presunzioni esaminate – sostituire ad una valutazione legale tipicamente predeterminata (quella di cui al terzo comma dell’art. 1) un’altra valutazione, diretta a verificare, in relazione a tutta una serie di elementi che caratterizzano il vero contratto di appalto, se quello posto in essere dalle parti sia veramente tale o mascheri invece un intento fraudolento.
Il criterio interpretativo fondamentale è costituito dall’accertamento dell’esistenza in capo all’appaltatore del rischio economico di impresa.
Si tratterà di valutare, di volta in volta, se costui sia provvisto di una propria organizzazione di impresa (con riferimento a quello specifico lavoro o contratto: v. sopra), se si sia impegnato a fornire all’appaltante una opera o servizio determinato, affrontando l’alea economica insita in ogni attività produttiva veramente autonoma, se infine i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente da lui diretti ed agiscano realmente alle sue dipendenze e nel di lui interesse.
Quando tutti gli elementi di cui si è già detto siano riscontrati come presenti, quando i risultati dell’indagine giudiziaria convergano nel senso che l’impresa appaltatrice appaia sprovvista di effettiva autonomia imprenditoriale, ed abbia una struttura e capitali del tutto inadeguati all’importanza dell’opera, i poteri decisionali siano riservati al committente e sia sottratta all’appaltatore ogni autonomia, sicchè questo sia un semplice strumento per celare la realtà dei rapporti, allora il fatto che egli abbia anche potuto impiegare nell’esecuzione dei lavori, capitali, attrezzature e mezzi propri, diventa circostanza del tutto marginale ed irrilevante ai fini del riconoscimento della sussistenza della situazione interpositoria ipotizzata dal primo comma dell’art. 1 della legge 1369 del 1960.
Orbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano ha escluso apoditticamente l’esistenza di un mero appalto di manodopera tra G. e S. I., senza prendere in esame le risultanze istruttorie. In particolare, non ha verificato se S. I. operasse in concreto in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto a G., non ha accertato se la stessa fosse fornita di una propria organizzazione di impresa, avesse assunto Talea economica insita nell’attività produttiva oggetto dell’appalto e se i lavoratori impiegati per il raggiungimento del risultato finale fossero effettivamente diretti dall’appaltatore, secondo l’indirizzo costante di questa Corte (Cass. 9 giugno 2000 n. 7917, 23 agosto 2000 n. 11040, 23 agosto 2000 n. 11040, 11 settembre 2000 n. 11957,16 settembre 2000 n. 12249,7 ottobre 2000 n. 13388, 19 aprile 2001 n. 5737, 12 dicembre 2001 n. 15665, 5 ottobre 2002 n. 14302, 18 novembre 2003 n. 17574. V. anche Cass. 6 febbraio 2004 n. 2305, 13 febbraio 2004 n. 2852).
I ricorsi devono pertanto essere accolti e la sentenza impugnata cassata con rinvio ad altro giudice, che provvederà a nuovo esame, tenendo conto dei principi di diritto sopra enunciati.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P. Q. M.
La Corte nei procedimenti riuniti nn. 31262 e 31267 del 2004, accoglie i ricorsi, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Brescia anche per le spese di questo giudizio.
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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