Cassazione civile anno 2005 n. 1583 Beni di interesse storico, artistico e ambientale Redditi di fabbricati e terreni Rimborso

ANTICHITA’ E BELLE ARTI IMPOSTA REDDITO PERSONE FISICHE E GIURIDICHE

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
S. A. presentava istanza per ottenere il rimborso della maggiore imposta IRPEF versata negli anni 1996, 1997 e 1998, in relazione al reddito di fabbricati di sua proprietà di interesse storico-artistico, evidenziando di essere incorsa in errore, per avere indicato il reddito effettivo e non invece, quello desumibile in base alla minore delle tariffe d’estimo previste per la zona censuaria di ubicazione degli immobili.
Formatosi su tale domanda il silenzio rifiuto, lo impugnava in sede giurisdizionale, e mentre l’adita Commissione Tributaria Provinciale di Padova respingeva il ricorso, i giudici di appello con la sentenza in epigrafe indicata, accoglievano l’impugnazione, nella considerazione che l’istanza di rimborso fosse stata tempestivamente formulata e che, d’altronde, il reddito degli immobili in argomento, giusta la disposizione dell’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991 n 413, debba essere determinato mediante l’applicazione della minore delle tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, con atto notificato il 22/07/2003, ed affidato a due mezzi, ha chiesto la cassazione della decisione di appello.
Con controricorso notificato il 18.10.2003, l’intimata ha chiesto il rigetto della proposta impugnazione. Entrambe le parti hanno ulteriormente illustrato con successive memorie le proprie ragioni

Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 34, del d.p.r. 23 dicembre 1986 n. 917, li della legge 30 dicembre 1991 n. 413 ed 8 della legge n. 431/1998, nonchè motivazione incongrua e contraddittoria su punto decisivo della controversia. Si deduce che trattandosi di immobili locati, secondo la disciplina desumibile dalle indicate norme, il reddito da dichiarare "scaturisce dal confronto tra il reddito effettivo, opportunamente diminuito della percentuale deducibile e la rendita catastale". Trattasi di censura priva di fondamento sulla base del pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui "In tema di imposte Sui redditi, l’art. 11, comma secondo, della legge 30 dicembre 1991 n. 413, deve essere inteso come norma contenente l’esclusiva ed esaustiva disciplina per la fissazione dell’imponibile rispetto agli edifici di interesse storico od artistico, da effettuarsi sempre con riferimento alla più bassa delle tariffe di estimo della zona, a prescindere dalla locazione del bene ad un canone superiore, dovendosi escludere l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1, comma secondo, lettera a) della legge 9 dicembre 1998 n. 431"(Cass. 5^, 21.11.2003 n. 17685; n. 12790/2001;
n. 5740/1999).
In base a tale principio, dal quale, nel caso, non si ravvisano ragioni per discostarsi, essendo stata, peraltro verificata la coerenza al dettato costituzionale(Corte Costituzionale n. 346 del 28.11.2003) devono ritenersi insussistenti sia il vizio di violazione di legge, come pure, il collegato profilo di doglianza con cui si denunciano carenze motivazionali; quest’ultimo, in quanto può causare l’annullamento della sentenza impugnata solo se riveli un sintomo di ingiustizia nella soluzione della questione di fatto e, quindi, nella considerazione che se l’errore non fosse stato commesso il giudizio sarebbe stato diverso (Cass. 12.2.2000 n. 1595; 9.3.1998 n. 2625).
Con il secondo mezzo l’impugnata sentenza viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del dpr. n. 602 del 1973 e dell’art. 1, comma 5^, della legge n. 133 del 1999. Si sostiene che i Giudici di Appello hanno, comunque, errato, nel ritenere tempestiva la domanda di rimborso, nella convinzione dell’applicabilità, al caso in esame, del termine di quarantotto mesi, introdotto dall’art. 1 comma 5 della legge n. 133 del 13.5.1999, e non già di quello di diciotto mesi previsto dall’art. 38 del dpr. n. 602 del 1973, nel testo previgente alla modifica. Trattasi di censura inammissibile perchè formulata in violazione del principio di autosufficienza.
Ritiene, in vero, la Corte che la censura sia del tutto generica, limitandosi all’apodittica asserzione che la domanda della società sia stata tardivamente prodotta, rispetto al perentorio termine fissato dalla legge.
Il mezzo non indica le date di versamento delle somme di cui è chiesto il rimborso.
La prospettata censura, quindi, non ha la specificità e completezza, necessari per consentire, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere e, quindi permettere la valutazione della fondatezza delle ragioni prospettate, ex actis, e cioè senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti estranee al ricorso e ad elementi ed atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 22.10.2001 n. 12877, 13.09.1999 n. 9734).
Peraltro, la data dei vari versamenti non solo non viene indicata nel contesto del mezzo e nella narrativa del ricorso, ma, oltretutto, non è neanche ricavabile dall’impugnata sentenza, la quale fa cenno, per altro del tutto generico, solo agli anni di imposta.
Nè elementi di valutazione possono, in punto, ricavarsi dalle incontroverse date di presentazione della domanda di rimborso(31 maggio 2000) e di entrata in vigore della legge n. 133 del 1999(18 maggio 1999).
Infatti, non potendo, in via di ipotesi, escludersi che i versamenti siano stati effettuati con ritardo rispetto alla prescritte scadenze annuali e, quindi anche in data successiva al 18.11.1997, tenuto conto che il termine decadenziale previsto dalle norme che si assumono violata, che è di diciotto mesi secondo la tesi dei ricorrenti e di quarantotto mesi secondo l’assunto della S., – la domanda di rimborso, presentata, come detto, il 31 maggio 2000, potrebbe risultare tempestiva, anche nella ipotesi in cui dovesse ritenersi applicabile, nel solco di precedenti pronunce, il più breve termine decadenziale di diciotto mesi.
Ciò perchè, non potendo ritenersi definiti i rapporti, con riferimento ai quali alla data (18.05.1999) di entrata in vigore della novella era tuttavia pendente il termine decadenziale di diciotto mesi, avendo la relativa disposizione comportato la sostituzione di tale termine con quello, più lungo, di quarantotto mesi, la domanda di rimborso presentata il 31 maggio 2000 sarebbe rispettosa del termine decadenziale. Tanto, che anche a prescindere dalla questione relativa alla data di inizio della decorrenza del termine decadenziale che in esito all’accertamento della realtà fattuale, nel caso non consentita, potrebbe assumere rilievo, dovendo individuarsi in quella di versamento del saldo, nel caso il diritto al rimborso derivi da un’eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto all’ammontare del tributo che risulti al momento del saldo complessivamente dovuto, oppure rispetto ad una successiva determinazione in via definitiva dell’an e del quantum dell’obbligazione fiscale (Cass. 5^, 20 giugno 2003 n. 9885; n. 9156/2000; n. 56/2000).
Le riscontrate carenze non consentono, dunque, di apprezzare la rilevanza ed il carattere decisivo della censura agli effetti decisionali, ed impongono una declaratoria di inammissibilità della doglianza.
Conclusivamente, riconosciuta l’infondatezza delle censure prospettate con il primo mezzo e dichiarata l’inammissibilità del secondo motivo, il ricorso va rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio di legittimità.

P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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