Cassazione civile anno 2005 n. 1553 Azioni giudiziarie Legittimazione attiva e passiva Azioni a difesa della proprietà

PROPRIETA’ E CONFINI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con atto notificato il 4 marzo 1992 il Condominio di Piazza della Repubblica 7/9-via Marcora 10/12, in Milano, conveniva davanti al Tribunale di tale città G. G. e A. A., chiedendo la condanna degli stessi alla eliminazione delle opere realizzate sul lastrico di copertura sovrastante l’appartamento 58/b e al risarcimento dei danni.
I convenuti, costituitisi, resistevano alle domande, eccependo, in primo luogo, il difetto di legittimazione dell’amministratore a proporre l’azione; nel merito deducevano che l’originario unico proprietario dell’edificio, con l’atto di vendita in data 17 novembre 1983, aveva loro concesso l’uso esclusivo e perpetuo del lastrico solare sovrastante l’appartamento ad essi venduto e dei due sbarchi corrispondenti all’appartamento in questione degli ascensori padronale e di servizio. in ogni caso l’assemblea aveva approvato un atto di transazione tra lo stesso condominio e la società venditrice avente ad oggetto proprio il lastrico solare di cui era stato ad essi convenuti concesso l’uso esclusivo.
Con sentenza in data 10 luglio 1995 il Tribunale di Milano dichiarava illegittima l’occupazione del lastrico solare, rigettando le altre domande.
G. G. e A. A. proponevano appello principale; il condominio proponeva appello incidentale, dolendosi del mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino.
La Corte di appello di Milano con sentenza in data 26 marzo 1999, rigettava l’appello principale e accoglieva quello incidentale.
I giudici di secondo grado ritenevano che l’amministratore del condominio era stato autorizzato a proporre l’azione, qualificata come negatoria servitutis, con deliberazione assembleare in data 24 ottobre 1991, "validamente assunta nel rispetto delle previsioni del 2 comma dell’art. 1136 c.c. – così come richiamato dal 4 comma della stessa disposizione di legge – perchè vi parteciparono trentasei condomini, rappresentanti 518, 99 millesimi di proprietà, che approvarono all’unanimità il punto all’ordine del giorno relativo all’autorizzazione dell’amministratore a promuovere il presente giudizio". Anche l’eccezione di difetto di legittimazione passiva di G. G., essendo A. A. proprietaria esclusiva dell’appartamento sottostante al lastrico solare per cui era causa, era infondata; a prescindere dal titolo di proprietà, G. G. era pur sempre legittimato passivo per la domanda di restituzione in pristino, risultando incontestabilmente attribuita anche a lui la realizzazione delle opere sul lastrico solare in contestazione ed apparendo di conseguenza responsabile anche dei conseguenti danni.
Nel merito la Corte di appello di Milano riteneva che gli appellanti non potevano invocare la norma del regolamento di condominio la quale aveva attribuito alla società originariamente unica proprietaria dell’edificio, fino al completamento della vendita dell’intero complesso, il diritto di eseguire varianti alle unità o parti di esse o agli impianti di cui sia proprietario, purchè non comportino limitazioni apprezzabili nel godimento della proprietà condominiale". Il lastrico solare per cui era causa, infatti, era comune.
Nè la servitù vantata dagli appellanti poteva ritenersi efficacemente costituita in base all’atto di vendita in data 17 novembre 1983, in quanto tale atto era successivo alla costituzione del condominio, per effetto di precedenti vendite, e quindi la società originariamente unica, proprietaria dell’edificio, aveva perso il potere di costituire servitù a carico delle parti comuni.
Vanamente, infine, gli appellanti invocavano una transazione stipulata tra la loro dante causa ed il condominio, avente ad oggetto il regime giuridico del lastrico solare per cui era causa. La transazione in questione, infatti, investendo diritti su parti comuni, avrebbe dovuto essere stipulata da tutti i condomini e non in base a delibera assunta a maggioranza, sia pure qualificata.
Tale decisione veniva impugnata per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ. da G. G. e A. A., sotto il profilo che in essa erroneamente era stato affermato che la delibera in data 24 ottobre 1991 (di autorizzazione dell’amministratore ad instaurare il giudizio) era stata assunta a maggioranza dei condomini intervenuti che rappresentavano anche la metà del valore dell’edificio.
Con sentenza in data 16 novembre 2001 la Corte di appello di Milano dichiarava inammissibile la revocazione, osservando che la carenza di legittimazione attiva dell’amministratore aveva costituito un punto dibattuto tra le parti fin dall’inizio del giudizio, per cui l’errore commesso dalla sentenza impugnata non rientrava nel campo di previsione dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ..
Contro tali decisioni hanno proposto ricorso per Cassazione G. G. e A. A., con un unico motivo diretto contro la sentenza in data 16 novembre 2001 e con sei motivi diretti contro la sentenza in data 26 marzo 1999.
Resiste con controricorso il Condominio di Piazza della Repubblica 7/9-via Marcora 10/12, in Milano. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo del ricorso diretto contro la sentenza che ha rigettato l’impugnazione per revocazione sostanzialmente si deduce che la Corte di appello di Milano non avrebbe tenuto conto del fatto che risultava documentalmente provato e non era comunque contestato che la delibera di autorizzazione dell’amministratore alla instaurazione dell’attuale giudizio non era stata assunta con la maggioranza di più di metà del valore dell’edificio.
Il motivo è infondato.
I ricorrenti, infatti, sembrano non percepire che la revocazione è stata ritenuta inammissibile non perchè la sentenza impugnata non fosse incorsa nell’errore denunciato, ma perchè il fatto erroneamente supposto e la cui verità era incontestabilmente esclusa (autorizzazione dell’amministratore in base a deliberazione assunta a maggioranza qualificata) aveva costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata aveva deciso.
Con il primo motivo del ricorso diretto contro la sentenza in data 26 marzo 1999 G. G. e A. A. deducono che, avendo l’azione ad oggetto la (dedotta) insussistenza di diritti reali a carico di parti comuni dell’edificio condominiale, l’assemblea non avrebbe comunque potuto autorizzare l’amministratore a promuovere l’attuale giudizio, nè la sentenza impugnata ha adeguatamente motivato la contraria conclusione cui è giunta.
La doglianza è infondata, in quanto la Corte di appello di Milano, nell’affermare che l’assemblea può autorizzare l’amministratore ad esperire azioni reali a tutela delle parti comuni, si è adeguata alla più recente giurisprudenza di questa S.C. (cfr. sent.: 3 aprile 2003 n. 5647; 28 gennaio 1998 n. 840; 28 novembre 1996 n. 10615).
Con il secondo motivo del ricorso diretto contro la sentenza in data 26 marzo 1999 si deduce, in primo luogo, che tale decisione sarebbe incorsa in contraddizione, in quanto, da un lato, ha affermato che l’assemblea, con deliberazione assunta a maggioranza, può autorizzare l’amministratore ad agire a tutela dei diritti spettanti ai singoli condomini sulle parti comuni, e, dall’altro, ha negato la possibilità che l’assemblea possa approvare a maggioranza una transazione avente ad oggetto tali diritti.
La doglianza è infondata.
Premesso che, in astratto, non sarebbe affatto illogico ritenere soggetti ad una diversa disciplina l’atto (transazione) il quale di per sè incide sul regime di parti comuni e l’atto (deliberazione di agire in giudizio) il quale può solo indirettamente incidere su tale regime (nel caso di esito sfavorevole del giudizio), in concreto tale diversità di disciplina è nella legge, la quale solo con riferimento all’esperimento di azioni giudiziarie prevede la possibilità di una delibera assunta a maggioranza, in deroga al principio generale secondo il quale è necessario il consenso unanime di tutti gli interessati per potere disporre dei diritti spettanti agli stessi sulle parti comuni.
Con il terzo motivo del ricorso diretto contro la sentenza in data 26 marzo 1999 si deduce che la Corte di appello di Milano sarebbe comunque incorsa in errore nell’affermare che la deliberazione di autorizzazione dell’amministratore ad agire in giudizio era stata assunta con il voto favorevole dei condomini che rappresentavano più della metà del valore dell’edificio.
La doglianza, pur essendo basata su corretti presupposti in fatto, non può comunque portare a risultati utili per i ricorrenti.
Occorre premettere che il collegio ritiene di aderire al più recente orientamento espresso da questa S.C., secondo il quale le delibere assunte con una maggioranza inferiore a quella prevista dalla legge sono semplicemente annullabili e non nulle (cfr. sent.: 3 ottobre 2003 n. 14776; 2 ottobre 2000 n. 13013). Ne consegue che, non essendo contestato che la deliberazione in data 24 ottobre 1991 non è stata impugnata nei termini di cui all’art. 1137, ultimo comma, cod. civ., i ricorrenti non hanno interesse a dolersi del fatto che la stessa non fosse stata adottata con la maggioranza prevista dall’art. 1136, secondo comma, cod. civ., richiamato dal successivo quarto comma.
Con il quarto motivo del ricorso diretto contro la sentenza in data 26 marzo 1999 i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte di appello di Milano abbia ritenuto passivamente legittimato anche G. G., pur essendo pacifico che A. A. era proprietaria esclusiva dell’appartamento sottostante al lastrico solare sul quale erano state effettuate le opere per cui è causa.
La doglianza è infondata.
E’ esatto che l’unico legittimato passivo rispetto ad una negatoria servi tutis (tale è stata qualificata l’azione esperita dal condominio) è il proprietario del fondo asseritamente dominante, ma non è meno esatto che secondo la giurisprudenza di questa S.C. sussiste la legittimazione passiva del costruttore (nella specie co- costruttore) in ordine alla concorrente azione di risarcimento danni in forma specifica, nella specie esperita (cfr. sent.: 14 dicembre 1992 n. 13186; 6 maggio 1987 n. 4196).
Con il quinto motivo del ricorso diretto contro la sentenza in data 26 marzo 1999 i ricorrenti si dolgono del fatto che la corte di appello di Milano non abbia preso in considerazione il disposto dell’art. 19 del regolamento condominiale contrattuale, nel quale si stabiliva che "Si riconoscono costituite tutte le servitù attive e passive derivanti dalle specifiche pattuizioni che saranno contenute negli atti di trasferimento ai singoli condomini".
La doglianza è inammissibile.
A prescindere dalla nullità (rilevabile di ufficio) di tale pattuizione (tra l’altro per indeterminatezza dell’oggetto), da quanto risulta dalla sentenza impugnata la rilevanza dell’art. 19, cit., è rimasta estranea al dibattito del giudizio di merito, nè i ricorrenti denunciano una omessa pronuncia sul punto.
Con il sesto motivo del ricorso contro la sentenza in data 26 marzo 1999 i ricorrenti deducono che la Corte di appello di Milano: a)non si sarebbe pronunciata sulla domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva in capo a A. A. della terrazza a livello dell’undicesimo piano; b)avrebbe emesso una statuizione equivoca, in quanto sembrerebbe avere ordinato anche la demolizione di opere realizzate sulla terrazza a livello dell’undicesimo piano, di proprietà esclusiva di A. A., mentre la causa verteva esclusivamente sulle opere realizzate sul lastrico solare sovrastante tale undicesimo piano.
Entrambe le doglianze sono infondate.
Dalla sentenza impugnata non risulta che A. A. abbia proposto la domanda riconvenzionale alla quale si fa riferimento nel motivo di ricorso; solo nelle conclusioni del giudizio di secondo grado si chiede che venga accertato "che il contratto di compravendita in data 17 novembre 1983.. ha legittimamente trasferito a favore della signora A. A. i diritti relativi indicati a livello di undicesimo piano e che conseguentemente il terrazzo coperto al piano undicesimo è di esclusiva proprietà della signora A. A.".
Ne consegue che A. A. non può dolersi della mancata pronuncia su una domanda riconvenzionale che non risulta proposta in primo grado e che non avrebbe potuto essere proposta per la prima volta nel giudizio di secondo grado.
In ordine alla seconda doglianza è sufficiente osservare che la sentenza impugnata è inequivoca nel disporre la eliminazione delle opere realizzate dagli attuali ricorrenti sul lastrico di copertura dell’undicesimo piano, per cui nessuna rilevanza può avere la eventuale erronea individuazione, in motivazione, delle singole opere da demolire.
In definitiva, il ricorso va rigettato, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.

P. Q. M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida nella complessiva somma di euro 2.100, 00, di cui euro 2.000, 00 per onorari, ed oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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