Cassazione civile anno 2005 n. 1441 AGENZIA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 31 ottobre 2000 Officine X X S.P.A. proponeva appello avverso la sentenza n. 506/00 del Tribunale di Brescia, con la quale, disattesa la domanda principale proposta nei confronti della stessa dal signor X X di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con quest’ultima, in qualità di direttore commerciale, dall’ottobre 1984 al dicembre 1993, e quella conseguente di condanna al pagamento delle differenze retributive maturate rispetto a quanto percepito, la società era stata condannata al pagamento della residua somma di lire 104.277.997, a titolo di provvigioni residue maturate dal collaboratore in base all’accordo contrattuale intercorso fra le parti, con rigetto della domanda riconvenzionale di restituzione delle somme al medesimo corrisposte, attesa la sopravvenuta nullità del contratto di mediazione, non essendo X X iscritto all’apposito albo.
Si costituiva in giudizio l’appellato X, proponendo impugnazione incidentale contro il capo di sentenza con il quale erano stati esclusi il rapporto di lavoro dipendente ed il diritto alle differenze retributive, e chiedendo in via subordinata la conferma della sentenza oggetto di gravame. Con sentenza in data 28 giugno – 3 settembre 2001 la Corte di appello di Brescia respingeva entrambi gli appelli e compensava le spese del grado. Osservava la Corte territoriale che il primo motivo dell’appello principale e l’appello incidentale erano tra loro strettamente connessi, attenendo entrambi alla qualificazione del rapporto di collaborazione intercorso fra le parti Nel caso in esame, pur mancando un contratto scritto, sussistevano elementi significativi di un rapporto contrattuale di lavoro autonomo, laddove non vi era prova di un rapporto di lavoro subordinato.
L’appello incidentale del X andava quindi respinto.
Passando ad una più precisa qualificazione di tale rapporto di lavoro autonomo, oggetto dell’appello principale, il Tribunale, escluso un rapporto di mediazione o di un rapporto di agenzia, aveva definito il ruolo svolto dal X quale procacciatore di affari.
Secondo la Corte territoriale, pur essendo esatta tale definizione, sotto il profilo del risultato negoziale in cui sfociava l’attività del X, doveva rilevarsi che dalla stessa emergeva un’attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica, che ben poteva essere inquadrata in un rapporto di consulenza atipico, rapporto di collaborazione del tutto lecito, e per il quale non era necessaria l’iscrizione ad alcun albo professionale.
Il primo motivo dell’appello principale andava quindi respinto, ed il rigetto assorbiva anche il secondo motivo di appello, non sussistendo alcun titolo per la pretesa di restituzione delle provvigioni corrisposte.
Ugualmente infondate erano le censure mosse alla sentenza impugnata in ordine alla prova dei pagamenti, avendo il Tribunale correttamente determinato, sulla base delle fatture emesse per le prestazioni rese a favore della società e dei pagamenti che il X aveva ammesso di aver ricevuto, il residuo credito di quest’ultimo in lire 104.277.997.
Avverso detta sentenza la società Officine X X SPA ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a quattro motivi.
L’intimato signor X X non si è costituito in giudizio.

Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., la società ricorrente deduce che il Tribunale, dopo aver negato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ha definito il X "procacciatore d’affari" ed ha respinto la domanda riconvenzionale della società, che – in forza del fatto che il X non risultava iscritto ad alcun ruolo nè di mediatore nè dì agente – aveva chiesto la restituzione di lire 289.734.700, perchè illegittimamente percepite dal X. Detta domanda riconvenzionale avrebbe dovuto essere, invece, in ogni caso accolta, e richiamava l’art. 9 legge n. 204/85 e l’art. 6 della legge 39/89, gli artt. 2033 e 1418 c.c., gli artt. 2231 e 2126 c.c., nonchè l’art. 2034 c.c..
1.2. Nel caso di specie le provvigioni erano già state pagate dalla società; quindi avrebbero dovuto essere restituite se non nella misura di lire 714.517.357, cioè dell’importo complessivo delle fatture emesse dal 1983, almeno nella misura di lire 289.734.700, come sempre richiesto sin dalla memoria di costituzione in giudizio.
1.3. La Corte territoriale aveva riqualificato il rapporto intercorso tra le parti quale "attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica", in aperto contrasto con i limiti dettati dall’art. 112 c.p.c., in quanto fuori dei temi posti in discussione dalle parti, e la definizione del rapporto come "rapporto di collaborazione per il procacciamento d’affari" superava il limite di quanto richiesto al giudice; la sentenza era, quindi, viziata da ultrapetizione.
2. Con il secondo motivo, denunziando contraddittorietà della motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., la società ricorrente deduce che il Tribunale aveva "definito il ruolo svolto da X X come procacciatore d’affari", e la definizione era stata accettata anche dalla Corte territoriale, secondo la quale "la definizione è esatta", ma la stessa "non è esaustiva della complessità di questa attività"; successivamente, peraltro, detta Corte, con evidente contraddizione, aveva precisato, però, che "ne emerge un’attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica, che ben può essere inquadrata in un rapporto di consulenza atipico, non riducibile a quella che normalmente viene definita attività di procacciamento d’affari". 3. Con il terzo motivo, denunziando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1742 c.c. ex art. 360 n. 3 c.p.c., la società ricorrente deduce che la Corte territoriale, nell’escludere il rapporto di lavoro subordinato e di mediazione, ha affermato "l’esistenza di un rapporto di collaborazione continuativa, come attestano le fatture, gli importi delle provvigioni via via maturate e la normalità della sua presenza, sia pur saltuaria in azienda"; e, nonostante ciò, ha escluso che sussistesse un rapporto di agenzia, violando il contenuto dell’art. 1742 c.c. ed introducendo in giudizio il terzo genere, quello del "procacciatore d’affari".
Invece, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, il "libero procacciatore d’affari" svolge "attività, caratterizzata dall’occasionalità o quanto meno dalla mancanza di stabilità", e "la sua attività manca della stabilità che caratterizza quella dell’agente".
La Corte territoriale ha affermato esattamente il contrario, ed ha ritenuto che il rapporto de quo fosse caratterizzato dalla continuatività della collaborazione, ma ha escluso che si trattasse di agenzia.
4. Con il quarto motivo, denunziando violazione e lo falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. ex art. 360 n. 3 c.p.c., la società ricorrente deduce che il Tribunale aveva accolto la richiesta di condanna della società al pagamento dell’importo di lire 117.870.000, peraltro ricalcolato dal giudice in lire 104.277.997, quale differenza tra l’importo complessivo di cui alle fatture e quanto lo stesso ricorrente aveva dichiarato di aver percepito. In realtà il X non aveva mai dichiarato di aver percepito lire 610.239.357, ma aveva sempre affermato di avere un credito di lire 117.870.000, senza mai indicare le fatture che riteneva impagate.
Ciò aveva impedito alla società di dimostrare l’avvenuto pagamento delle somme pretese.
La Corte territoriale aveva disatteso l’art. 2697 c.c., respingendo le richieste di prova della società. 5.1. Vanno congiuntamente esaminati i primi due motivi di ricorso, essendo tra loro connessi, e detti motivi sono infondati Come correttamente ha osservato, invero, la Corte territoriale, pur mancando nel caso in esame un contratto scritto – con previsione di diritti ed obblighi reciproci e definizione della natura del rapporto di collaborazione -, ciò non escludeva, peraltro, la presenza di elementi significativi dì quella che era stata la comune intenzione delle parti.
Il pagamento, infatti, del corrispettivo non con uno stipendio fisso, ma solo a provvigione sugli affari procurati dal X alla società, e soprattutto il pagamento con rilascio di fattura, senza alcuna contestazione per ben nove anni, attestati dai documenti in atti e concordemente ammessi dalle parti, indicavano la scelta di un rapporto contrattuale di lavoro autonomo (mancando, invece, qualsiasi prova di un rapporto di lavoro subordinato).
E correttamente, poi, la Corte territoriale, escluso che tra le parti fosse intervenuto un rapporto di mediazione o di agenzia – sulla base di quanto ritenuto dal Tribunale -, in quanto un rapporto di tale tipo era escluso dalle circostanze emerse dalla prova testimoniale e dai documenti in atti, – ha ritenuto, invece, alla stregua delle risultanze emerse, che il ruolo svolto dal X fosse da qualificarsi – in maniera più precisa rispetto a quello, ritenuto dal Tribunale, quale attività di procacciatore di affari (in relazione al profilo del risultato negoziale in cui sfociava l’attività del X) -, quale attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica. Tale qualificazione dell’attività del X era da porsi in relazione al fatto che, a parte il profilo del risultato negoziale in cui sfociava l’attività del X, dalle deposizioni testimoniali era emerso che questi non si limitava a procurare ordini di produzioni di manufatti, ma seguiva anche la parte tecnica. Alla stregua di tali risultanze, appare, pertanto, del tutto corretto l’inquadramento dell’attività del X, come già detto, in un’attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica, e cioè in un rapporto di consulenza atipico – non riducibile a quella che normalmente viene definita attività di procacciamento d’affari -.
Trattasi, come ritenuto dalla Corte territoriale, di un rapporto di collaborazione del tutto lecito, e per il quale non era necessaria l’iscrizione ad alcun albo professionale.
E, pertanto, non sussisteva alcun titolo per la pretesa di restituzione delle provvigioni corrisposte, avanzata dalla società.
Erano, invero, del tutto infondate le pretese di restituzione delle provvigioni corrisposte, e comunque la pretesa della società di restituzione della somma di lire 289.734.700 (per le somme percepite dal X dal 1989), non essendo inquadrarle l’attività svolta dal X in una attività di agenzia o in un’attività di mediazione, e non avendo, pertanto pregio i richiami fatti dalla ricorrente all’art. 9 della legge n. 204/85 ed all’art. 6 della legge n. 39/89 (come pure i richiami alle altre norme in materia di ripetizione di indebito e di nullità del contratto – artt. 2033 e 1418 c.c. -, ed agli artt. 2231 e 2126 c.c., nonchè all’art. 2034 c.c.).
5.2. Nè sussiste la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la questione della qualificazione dell’attività del X, fetta dal Tribunale prima, e dalla Corte territoriale poi, è una questione giuridica, in relazione alla quale rimangono inalterati i fatti dedotti dal X con il ricorso introduttivo del presente giudizio.
L’art. 112 c.p.c. impone, invero, al giudice di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia a quella richiesta e di non sostituire di ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta, ponendo a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere perchè nuovi e diversi da quelli enunciati a sostegno della pretesa. Qualora venga denunciata con ricorso per Cassazione la violazione della suddetta regola, essendosi in presenza di un problema tipicamente processuale, la Corte di Cassazione ha il potere – dovere di procedere al diretto esame degli atti processuali e di acquisire gli elementi di giudizio necessari alla vantazione della sussistenza della violazione della stessa – valutazione che questa Corte, come si è detto, ha adempiuto, escludendo che i giudici del merito abbiano posto a fondamento della decisione fatti nuovi e diversi rispetto a quelli enunciati a sostegno della pretesa – (Cass. n. 1108/1999).
6. Infondato è il terzo motivo, secondo il quale la Corte territoriale avrebbe escluso erroneamente che il rapporto de quo fosse da qualificarsi quale rapporto di agenzia, pur avendo affermato l’esistenza di un rapporto di collaborazione continuativa (laddove il libero procacciatore di affari svolgeva attività caratterizzata dall’occasionalità, o quanto meno dalla mancanza di stabilità, stabilità che caratterizzava, invece, quella dell’agente). Come è stato, invero, affermato da questa Suprema Corte, le controversie relative al cosiddetto "procacciamento di affari" – contratto atipico che si concreta in un’attività di collaborazione consistente nel raccogliere proposte di contratto ovvero ordinazioni presso terzi e nel trasmetterle al preponente – sono soggette al rito ed alla competenza del giudice del lavoro, qualora il relativo rapporto, a norma dell’art. 409 n. 3 c.p.c., presenti le caratteristiche del coordinamento, della continuità e della prevalente personalità della prestazione; il carattere della continuità va però tenuto distinto da quello della stabilità (…), con la conseguenza che l’attività del procacciatore di affari, pur non rispondendo ad una "necessità" giuridica, ma dipendendo esclusivamente dall’iniziativa del procacciatore e non potendo perciò, in tal senso, qualificarsi come "stabile", può tuttavia di fatto svolgersi periodicamente nel tempo e presentare perciò il carattere della continuità richiesto dal citato art. 409 n. 3 ai fini dell’individuazione del giudice competente e del rito applicabile alle relative controversie (v.
Cass. n. 7799/1998).
Nella specie, pertanto, il carattere della continuità ben qualificava il rapporto di procacciamento di affari, e quello più specifico, di attività complessa mista, di natura commerciale e tecnica, ritenuto dalla Corte territoriale, a nulla rilevando, invece, ai fini di tale rapporto il requisito della stabilità, proprio del rapporto di agenzia (v. Cass. n. 7799/1998 cit.; n. 4327/2000).
7. Infondato è altresì il quarto ed ultimo motivo, con il quale la ricorrente deduce di non aver potuto provare – anche a mezzo delle richieste prove, peraltro genericamente indicate in ricorso – l’avvenuto pagamento delle somme pretese dal X, non avendo questo indicato le fatture ritenute impagate.
Come correttamente ritenuto, invero, dalla Corte territoriale, il Tribunale ha correttamente determinato, sulla base delle fatture rese nei confronti della società, e dei pagamenti che il X aveva ammesso di aver ricevuto, il residuo credito di quest’ultimo, laddove, a fronte di dette fatture, ben avrebbe potuto la società fornire la prova di pagamenti di fatture di importo ulteriore, rispetto a quello ammesso dal X.
5.1. Consegue il rigetto del ricorso.
8.2. Nulla per le spese del presente giudizio di legittimità, non essendo l’intimato costituito in giudizio.

P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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