Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-05-2012, n. 8047 Cumulo di stipendio di attività e pensione a carico dello Stato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza dell’11/5 – 21/6/2010 la Corte d’appello di Milano – sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione proposta dall’inps avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Milano, con la quale era stato dichiarato il diritto del ricorrente C. C. di vedersi cumulato il reddito da pensione con quello di lavoro dipendente ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 44 a decorrere dall’1/6/07, con condanna dell’istituto previdenziale alla corresponsione del trattamento pensionistico per tale periodo, maggiorato degli accessori di legge. La Corte territoriale ha spiegato il rigetto dell’impugnazione ritenendo di non poter condividere la tesi propugnata dall’Inps a sostegno del gravame.

Invero, l’ente previdenziale aveva sostenuto che non poteva trovare applicazione nella fattispecie la L. n. 289 del 2002, art. 44 norma, questa, che aveva abolito il divieto di cumulo tra pensioni di anzianità coi redditi di lavoro a decorrere dal gennaio del 2002, in quanto l’appellato aveva usufruito, in deroga al predetto divieto assoluto di cumulo, dei benefici della previgente disciplina di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, restando, così, in servizio con orario ridotto a far tempo dalla data di pensionamento e cumulando, in tal modo, il reddito da lavoro con quello pensionistico in misura ridotta, senza superare, in ogni caso, il trattamento complessivo spettante ad un dipendente di pari posizione in servizio a tempo pieno. Inoltre, secondo l’Inps, per la materia del pubblico impiego era stato emesso, in attuazione della norma speciale di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 187, il D.M. n. 331 del 1997 il cui art. 3, comma 2, prevedeva che il precedente regime di cumulo conservava validità per tutta la residua durata del rapporto di lavoro.

Invece, secondo il giudice d’appello quest’ultimo decreto ministeriale non comportava le conseguenze che l’Inps vi connetteva, in quanto si trattava di una norma di fonte secondaria di esecuzione di una di rango primario e non poteva, pertanto, condurre all’esclusione della normativa generale di cui alla L. n. 338 del 2000, art. 72 e L. n. 289 del 2002, art. 44 normativa indicativa di una progressiva estensione della possibilità di cumulo dei redditi da lavoro e da pensione.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’Inps, che affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso il C. il quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’ari. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, l’istituto ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 185 e 187 della L. n. 338 del 2000, art. 72 della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44 del D.M. 29 luglio 1997, n. 331, artt. 1 e 3 nonchè dell’art. 1362 c.c. e segg., tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

A sostegno di tale censura l’istituto ricorrente rileva quanto segue:- La disposizione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 44, comma 2, consente agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti operano i regimi di divieto totale o parziale di cumulo tra pensione e retribuzione, l’accesso al sistema di cumulo integrale previo pagamento di una somma calcolata secondo la stessa disposizione; tuttavia, tale accesso non è estensibile a coloro i quali, in forza di una specifica disciplina di legge, conseguano il trattamento pensionistico di anzianità senza cessare dall’attività lavorativa e che semplicemente abbiano ottenuto la possibilità di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. La cessazione dall’attività lavorativa è il presupposto necessario per il conseguimento della pensione di anzianità e la disciplina di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, oltre che quella del decreto ministeriale attuativo, ha natura speciale e prevede modalità di cumulo tra pensione e retribuzione del tutto peculiari e collegate alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a parziale ed all’accesso al regime pensionistico. In quanto speciale, la detta normativa non è abrogata da successive disposizioni dotate di carattere generale, che riguardano lavoratori che abbiano il diritto a pensione (siano cessati dal rapporto di lavoro) e che inizino una nuova attività lavorativa, e non i lavoratori che, senza soluzione di continuità, proseguano il loro rapporto di lavoro passando dall’orario normale a quello ridotto per conseguire la pensione.

Peraltro, interpretando la normativa in senso favorevole ai lavoratori, verrebbe meno, secondo l’INPS, l’obiettivo fondante la disciplina innovativa, ossia l’incentivazione dell’assunzione di nuovo personale, scopo indissolubilmente connesso alla riduzione del trattamento pensionistico ed al ridotto utilizzo, in termini di orario di lavoro, del personale optante. La peculiarità della normativa in argomento sarebbe, poi, testimoniata dal fatto che il comma 187 della L. n. 662 del 1996 prevede, per il personale delle P. A., l’emanazione di apposite norme regolamentari. Per di più, la trasformazione del rapporto non da luogo a trattamenti di pensione definitivi, in quanto solo l’effettiva cessazione dal servizio da luogo alla rideterminazione del trattamento previdenziale in godimento in base alla complessiva anzianità maturata. All’esito della parte argomentativa, il ricorrente afferma che al dipendente dell’INPS che si sia avvalso della speciale normativa recata dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, e dal D.M. n. 331 del 1997, artt. 1 e 3 non è consentito cumulare integralmente il reddito derivante dalla pensione di anzianità con quello derivante dalla trasformazione da tempo pieno a tempo parziale del rapporto di lavoro intrattenuto senza soluzione di continuità con l’ente pubblico di lavoro.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 15 preleggi, della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 22 e della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 185 e 187, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, evidenziando che la peculiare disciplina concernente i dipendenti pubblici – che consente la prosecuzione del rapporto in deroga al principio generale che prevede la cessazione dell’attività lavorativa per accedere alle pensioni di anzianità ( L. n. 153 del 1969, art. 22) – è fonte di un vantaggio insito nel fatto di consentire la conservazione dello "status" di dipendente nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, sia pure privatizzato, con la sola riduzione dell’orario di lavoro, situazione, questa, non omogenea a quella del pensionato prevista in via generale, il quale deve, invece, risolvere il rapporto di lavoro per avere diritto alla pensione ed eventualmente reperire una nuova attività lavorativa per avere diritto al beneficio del cumulo.

A conclusione del motivo la difesa dell’istituto previdenziale afferma che le disposizioni di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 185 e 187, ed il regolamento di attuazione di cui al D.M. n. 331 del 1997 si pongono come norme speciali rispetto alla disciplina generale in tema di cumulo fra pensione e retribuzione dettata dalla L. n. 289 del 2002, art. 44 e come tali non sono state implicitamente abrogate dal predetto articolo.

Osserva la Corte che le censure vanno trattate congiuntamente, attesa la sostanziale connessione delle questioni proposte con entrambe. Fin dall’inizio ( L. n. 153 del 1969, art. 22) la pensione di anzianità dei dipendenti privati non è stata cumulabile per l’intero con il reddito da lavoro dipendente e detta incumulabilità piena con il reddito da lavoro subordinato è rimasta inalterata ( D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 10, commi 1 e 2), dovendo il lavoratore subordinato risolvere il rapporto di lavoro ( D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1, comma 6) per potere godere della prestazione pensionistica.

Un’ulteriore tappa del processo evolutivo riguarda la fase di regime della riforma del 1995, vale a dire quella riguardante le pensioni da liquidare esclusivamente con il sistema contributivo, una volta soppressa la distinzione tra pensione di vecchiaia e pensione di anzianità. Tale riforma aveva previsto la vigenza, fino al compimento da parte dell’interessato dell’età di 62 anni, del regime di incumulabilità con il reddito da lavoro dipendente, nella sua interezza, e con il reddito da lavoro autonomo, nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo.

Invece, in relazione al periodo susseguente al compimento dei 63 anni era stato previsto il regime di incumulabilità della pensione con i redditi derivanti sia da lavoro dipendente che da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente l’importo del trattamento minimo ( L. n. 335 del 1995, art. 1, commi 21 e 22). Detti limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro sono ormai sostanzialmente superati ed attualmente le pensioni di anzianità sono intermente cumulabili con i redditi da lavoro, tanto autonomo che dipendente, purchè il lavoratore abbia una determinata anzianità contributiva ( L. n. 388 del 2000, art. 72 e della L. n. 289 del 2002, art. 44). La L. n. 243 del 2004 aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi contenenti, tra l’altro, norme intese ad eliminare progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro (art. 1, comma 1, lett. b), ma la delega non è stata attuata; tuttavia, successivamente, ha provveduto alla "liberalizzazione" la norma di cui alla L. n. 133 del 2008, art. 19.

Questa essendo l’evoluzione normativa in tema di disciplina dei limiti al concorso del reddito da lavoro con il trattamento pensionistico di anzianità, deve rilevarsi che è stato ritenuto che la nuova disciplina non si estenda anche al pubblico impiego, per il quale continua ad operare il regime di incumulabilità già fissato dalla D.P.R. n. 758 del 1965, art. 4.

Anche ove sia ritenuto, tuttavia, che il regime di liberalizzazione sia ormai operante per tutti i settori, deve individuarsi preliminarmente, ai fini della decisione della questione all’esame, la natura della norma contenuta nella L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 185, nata come eccezione di favore in deroga al vecchio regime generale, per valutare se la stessa abbia resistito o meno al processo di evoluzione nel senso della liberalizzazione sopra delineata. A norma dell’art. 15 preleggi, infatti, l’abrogazione tacita si realizza sia quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge anteriore, sia quando la nuova legge regoli l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, non potendo ovviamente coesistere, in quest’ultimo caso, due leggi che regolino per intero la medesima materia. Tuttavia, la regola dell’abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale rispetto a quella successiva di carattere generale, ritenendosi che la disciplina generale – salvo espressa volontà contraria del legislatore – non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente. Le norme speciali sono norme,dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell’ambito disciplinato ed obbediscono all’esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse.

Le norme eccezionali, invece, sono definite dall’art. 14 preleggi come norme che fanno eccezione a regole generali. In questo senso esse sono norme speciali. E’ ovvio che tanto le norme speciali quanto le norme eccezionali si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, vuoi perchè finalizzate a "calibrare" certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore, vuoi perchè sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti. Ne consegue che in nessun caso ne è ammessa l’applicazione analogica, poichè diversamente ne sarebbe frustrata la natura speciale o eccezionale che le caratterizza.

Orbene, la norma di cui si discute deve, in relazione alla summenzionata distinzione, qualificarsi senz’ombra di dubbio come eccezionale. Invero, essa ha portata derogatoria, nel sistema in vigore all’epoca della sua emanazione, dei principi generali in tema di divieto di cumulo tra pensione di anzianità e redditi di lavoro e prevedendo la possibilità di cumulo sia pure limitato, nel senso che l’importo della pensione viene ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario normale di lavoro (riduzione comunque non superiore al 50%), con la precisazione che la somma della pensione e della retribuzione non può in ogni caso superare l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno. Per il pubblico impiego, con il D.M. 29 luglio 1997, n. 331 è stato emanato, in esecuzione di quanto previsto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1 – comma 187 – il regolamento concernente i criteri e le modalità da applicare ai pubblici dipendenti di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, per consentire la possibilità di cumulare, ai sensi dell’art. 1, commi da 185 a 189, della legge citata, l’importo della pensione di anzianità con l’ammontare della retribuzione conseguente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, prevedendosi determinate condizioni per l’operatività della trasformazione con diritto al cumulo parziale, tra cui quella della insussistenza nella qualifica funzionale di appartenenza di situazioni di esubero.

Ma il carattere di eccezionalità della normativa, che non consente alla normativa successiva di carattere generale di incidere in senso ampliativo sulla misura del cumulo parziale, deve essere collegato anche alla circostanza che il conseguimento del trattamento pensionistico, sia pure ridotto, non è subordinato, dalla L. n. 662 del 1996, alla cessazione dell’attività lavorativa. Ed invero, il diritto alla pensione, nella generalità dei casi, ai sensi della L. n. 153 del 1969, art. 22, comma 1, lett. c), matura in capo al lavoratore interessato alla presenza di un duplice requisito, rappresentato dal raggiungimento dell’anzianità contributiva e dalla cessazione dell’attività di lavoro subordinato alla data di presentazione della relativa domanda.

Con la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 503 del 1992, il legislatore ha ribadito che il diritto alla pensione di anzianità è subordinato alla cessazione dell’attività di lavoro dipendente (art. 10, comma 6), estendendo tale requisito anche alla pensione di vecchiaia (art. 1, comma 7). Per entrambe le disposizioni citate il requisito della cessazione del rapporto di lavoro costituisce, infatti, una "presunzione di bisogno" che giustifica l’erogazione della prestazione sociale ai sensi dell’art. 38 Cost. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, "la prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato e la produzione, che ne consegue, di reddito da lavoro – dopo il perfezionamento dei requisiti – esclude lo stato di bisogno del lavoratore (…) e, quindi, anche l’esigenza di garantire al lavoratore medesimo (ai sensi dell’art. 38 Cost., comma 2) mezzi adeguati alle esigenze di vita". Per tali motivi, il conseguimento del diritto alla pensione è subordinato alla cessazione di qualsiasi rapporto di lavoro in essere, anche diverso da quello in riferimento al quale sono stati versati i contributi alla gestione deputata ad erogare la prestazione (cfr. Cass. n. 17530/2005). Peraltro, è stato anche chiarito che la "cessazione del rapporto di lavoro" – che condiziona il conseguimento della pensione di vecchiaia – risulta, all’evidenza, affatto diversa (arg. D.Lgs. n. 503 del 1992, ex art. 10, cit., in tema di disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente ed autonomo) rispetto al cumulo tra la pensione medesima -una volta che questa sia stata conseguita – ed i redditi da lavoro oppure da altra pensione, con la conseguenza che – dalla comparazione delle discipline rispettive – non può risultare, in nessun caso, la violazione del principio di uguaglianza ( art. 3 Cost.), attesa la non omogeneità tra le situazioni prospettate (cfr.

Cass. 16 giugno 2006 n. 13933).

L’interpretazione giurisprudenziale in materia, oltre a considerare, come sopra ricordato, la cessazione dell’attività lavorativa, al pari dell’anzianità contributiva ed assicurativa, quale presupposto necessario per l’insorgenza del diritto alla pensione di anzianità (Cass. civ. n. 6571/2002), ritiene momento fondante quello di presentazione della domanda (Cass. civ. n. 14132/2004). Dalle premesse svolte si desume, quindi, che alla data di presentazione della domanda di pensione non deve sussistere alcun rapporto di lavoro con il medesimo datore di lavoro al fine di evitare che la percezione della pensione di anzianità avvenga contemporaneamente alla prestazione dell’attività lavorativa subordinata.

In definitiva, sia nel caso in cui il datore di lavoro sia sempre il medesimo, sia nell’ipotesi in cui si abbiano diversi datori di lavoro, risulta comunque necessaria una soluzione di continuità fra i successivi rapporti di lavoro al momento della richiesta della pensione di anzianità e alla decorrenza della pensione stessa. La eccezionalità della norma deve, pertanto, ravvisarsi, alla luce dei principi appena richiamati, nella peculiarità della fattispecie prevista, che consente la prosecuzione del rapporto di pubblico impiego del dipendente per quanto "part time" ed il contemporaneo conseguimento del trattamento pensionistico di anzianità in costanza di rapporto, sia pure trasformato, con lo stesso datore di lavoro.

Da tali considerazioni deve discendere pertanto l’intangibilità di una disciplina eccezionale, che sicuramente risulta derogatoria rispetto ai principi in materia pensionistica quanto al conseguimento del diritto alla prestazione, da parte di normativa generale successiva che abolisce il divieto di cumulo, ma comunque mantiene fermo il principio della necessità della interruzione del rapporto lavorativo. Ciò si desume anche da quanto previsto testualmente dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 44, comma 2, parte seconda, laddove è previsto che la disposizione si applica – oltre che agli iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 1, già pensionati di anzianità alla data del 1 dicembre 2002 e nei cui confronti trovino applicazione i regimi di divieto parziale o totale di cumulo (art. 44, comma 2, 1^ parte L. citata) – anche agli iscritti che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di anzianità, hanno interrotto il rapporto di lavoro e presentato domanda di pensionamento entro il 30 novembre 2002.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte deve, pertanto, ritenersi che non possa trovare spazio alcuna censura sul piano costituzionale per irragionevole permanenza della disciplina limitativa del cumulo per il solo settore pubblico. Invero, la normativa generale successiva, per quanto detto, non è applicabile alla ipotesi del particolare pensionamento anticipato, rappresentata dal caso di coloro che, una volta acquisito il diritto alla pensione di anzianità, siano passati al regime "part time" senza interruzione del rapporto lavorativo, continuando, dunque, a lavorare e a percepire una parte di pensione ed una di stipendio, fermo restando l’espressa previsione per la quale l’ammontare della pensione e della retribuzione dei dipendenti "part-time" non può in ogni caso superare quello della retribuzione spettante al lavoratore che, a parità di altre condizioni, presta la sua opera a tempo pieno.

Il ricorso deve, pertanto, essere accolto. Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata senza rinvio (ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ultimo periodo), in relazione al detto accoglimento, in quanto la causa può essere decisa nel merito, sulla base del principio di diritto enunciato – senza che siano necessari all’uopo accertamenti di fatto – e, per l’effetto, va rigettata la domanda del controricorrente.

La peculiarità della questione trattata e l’esistenza di consolidato orientamento giurisprudenziale di merito difforme costituiscono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa le spese dell’intero processo. Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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