Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-05-2012, n. 8155 Onorari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’avvocato N.S. chiedeva al Giudice di Pace di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti della propria cliente T. A. per il pagamento della somma di Euro 1.931,07 a titolo di residuo compenso professionale dovuto per averla assistita in una controversia di lavoro introdotta dinanzi al Pretore di Lavoro di Roma nei confronti della Armando Curcio Editore s.p.a. a seguito del licenziamento subito da quest’ultima; il processo era stato interrotto a causa del fallimento della suddetta società e poi riassunto nei confronti della Curatela e si era poi concluso con sentenza dichiarativa dell’inefficacia del licenziamento; a seguito di trattative con il legale del Fallimento era poi stato raggiunto un accordo con la sottoscrizione in data 18-3-2002 dinanzi al Giudice Delegato di un verbale di conciliazione in cui era stata determinata in favore della T. la somma di Euro 24.273,48, poi maggiorata in quella di Euro 37.242,49, per cui il N., unitamente ai legali che avevano assistito gli altri lavoratori, aveva chiesto un aumento del proprio onorario per Euro 5.000,00 oltre IVA e CAP alla suddetta cliente, che aveva rifiutato detto aumento ed aveva pagato soltanto Euro 3.603,38 oltre accessori.

Avverso l’emesso decreto ingiuntivo proponeva opposizione la T. sostenendo di aver già corrisposto al N. quanto richiestole per iscritto a saldo dei propri compensi in sede di conciliazione della lite con il Fallimento della Armando Curcio Editore s.p.a..

Il N. costituendosi in giudizio contestava il fondamento dell’opposizione di cui chiedeva il rigetto.

Il Giudice di Pace di Roma con sentenza del 15-2-2005 dichiarava nullo il menzionato decreto ingiuntivo e conseguentemente lo revocava.

Proposta impugnazione da parte del N. cui resisteva la T. il Tribunale di Roma con sentenza del 26-2-2008 ha rigettato il gravame ed ha condannato l’appellante al pagamento in favore dell’appellata delle spese del secondo grado di giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza il N. ha proposto un ricorso affidato a quattro motivi cui la T. ha resistito con controricorso; il ricorrente ha successivamente depositato una memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il N., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24 nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la lettera del 30-1-2002 inviata dall’esponente alla T. conteneva gli elementi di un accordo intervenuto tra le parti che implicava rinuncia totale o parziale, da parte del legale, alle proprie competenze professionali; Il ricorrente, premesso che non si trattava di un accordo ma solo di una richiesta del N., assume comunque che in tal modo era stato eluso il divieto stabilito dalla norma sopra richiamata di predeterminare consensualmente l’ammontare dei compensi professionali in misura inferiore ai minimi tariffari; nè era rilevante il fatto che l’esponente aveva richiesto una prima volta un determinato onorario e successivamente allo stesso titolo un importo superiore, considerato che la prima richiesta era inferiore ai minimi della tariffa professionale.

I ricorrente infine assume che il giudice di appello non ha esaminato il parere di congruità del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, nè ha fornito alcuna motivazione in ordine alla sua inapplicabilità.

Il motivo è accompagnato dal seguente quesito di diritto: "dico la Corte se il Giudice – nello stabilire i compensi spettanti ad un avvocato – debba attenersi a quanto prescrive L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24 e debba determinarli – obbligatoriamente – in misura non inferiore ai minimi delle tariffe professionali".

Il motivo è inammissibile.

Premesso infatti che, essendo stata la sentenza impugnata pubbicata il 26-2-2008, al ricorso in esame deve applicarsi "ratione temporis" l’art. 366 "bis"c.p.c., si osserva che sotto un primo profilo il quesito di diritto come sopra enunciato non si attaglia alla fattispecie, laddove nei giudizio di appello si è discusso della validità o meno dell’accordo intercorso tra l’avvocato N. e la propria cliente successivamente al compimento della prestazione professionale svolta dal primo in favore della seconda, e non quindi della validità di una predeterminazione consensuale del compenso professionale in misura inferiore ai minimi tariffaria come invece prospettato nel motivo in esame; inoltre il quesito si rivela inconferente rispetto all’ulteriore "ratio decidendi", t consistente nell’avere escluso il giudice di appello che il N. avesse svolto in favore della T. un’attività ulteriore rispetto alla assistenza per addivenire all’accordo transattivo del 18-3-2002.

Per altro verso, poi, con riferimento al dedotto vizio motivazionale, si osserva che il motivo in esame è privo di una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Con il secondo motivo il N., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 5 nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che la sentenza impugnata, nell’evidenziare le ragioni di convenienza che avrebbero indotto l’esponente a stabilire il suddetto compenso con gli altri due avvocati, collegati a lui nella difesa degli altri otto lavoratori rappresentati dinanzi al Pretore del Lavoro e poi nella procedura concorsuale, ha fatto riferimento d’ufficio all’art. 5 del sopra menzionato D.M., secondo cui l’avvocato che difende più persone con la stessa posizione processuale ha diritto ad un onorario unico aumentato del 20% fino a dieci; comunque un esame del ricorso introduttivo dinanzi al Giudice del Lavoro avrebbe consentito di comprendere agevolmente che le posizioni dei diversi lavoratori non erano identiche, trattandosi di licenziamenti la cui causa variava da dipendente a dipendente.

Il motivo è accompagnato dai seguenti quesiti di diritto: "dica la Corte se il Giudice può decidere su deduzioni ed eccezioni mai proposte dalle parti un causa, violando gli artt. 112 e 115 c.p.c. e sconfinando in tal modo nell’ultra alligata partium";

dica altresì la Corte se il Giudice nel richiamare D.M. n. 585 del 1994, art. 5 non sia tenuto ad esaminare e valutare tutto l’iter processuale della controversia e motivare in base a quali considerazioni ritenga la causa comune ad altre, tenuto conto che la riunione di una causa ad altre è stata limitata soltanto alla fase ultima dell’istruttoria, con la decisione della causa, mentre per il prosieguo in sede fallimentare si è avuta un’azione individuale".

La censura è inammissibile.

Deve invero rilevarsi che i sopra enunciati quesiti di diritto si manifestano inconferenti rispetto alla statuizione impugnata con cui il giudice di appello ha voluto evidenziare le ragioni di convenienza che avevano indotto l’avvocato N. a determinare la misura del proprio compenso professionale nei confronti della T., avendo affermato che in base all’art. 5 sopra richiamato l’avvocato che difenda più persone con la stessa posizione processuale ha diritto ad un onorario unico, aumentato del 20% fino a dieci, disposizione che si applicava per le cause riunite dal momento della riunione; si tratta quindi di una motivazione "ad abundantiam", come tale estranea alla "ratio decidendi", posto che la suddetta disposizione tariffaria è stata menzionata soltanto onde escludere sotto ulteriore profilo la volontà delle parti di predeterminare il compenso professionale spettante al suddetto avvocato in misura inferiore ai minimi tariffari.

Inoltre deve rilevarsi che il motivo in esame, con cui si deduce altresì un vizio motivazionale, è privo del tutto di una esposizione sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria, ovvero della ragioni per le quali la dedotta motivazione insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. ed omessa motivazione, sostiene che, avendo il Tribunale di Roma rigettato sia l’appello proposto dall’esponente che l’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dalla T., avrebbe dovuto compensare, integralmente o parzialmente, le spese di giudizio, invece che condannare il N. al pagamento integrale di tali spese in favore della controparte.

Il motivo è corredato dal seguente quesito di diritto: "dica la Corte se il Giudice, nel determinare le spese legali, debba esaminare se vi sia o meno reciproca soccombenza e nel caso essa sia sussistente, sia tenuto alla compensazione, per intero o parzialmente, delle spese legali ed in ogni caso debba motivare il suo provvedimento".

La censura è infondata.

Il giudice di appello, nei condannare il N. al rimborso delle spese del giudizio di secondo grado, ha applicato puntualmente il principio della soccombenza, considerato che il criterio della soccombenza non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (Cass. 11-1-2008 n. 406); nessun rilievo pertanto può essere attribuito al fatto che il Tribunale abbia disatteso l’eccezione dell’appellata di inammissibilità dell’appello poi comunque ritenuto infondato nel merito.

Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585 nonchè omessa ed insufficiente motivazione, sostiene che il giudice di appello ha condannato l’esponente al pagamento in favore della controparte delle spese di giudizio nella misura di Euro 1.924,00, di cui Euro 774,00 per diritti ed Euro 1.150,00 per onorari oltre accessori di legge, mentre l’oggetto della causa era di Euro 1.931,00; considerato quindi che in nessuna causa le spese di lite sono equivalenti ai valore della causa stessa, si deve concludere che sono state violate le tariffe professionali senza dare alcuna motivazione in ordine alla sproporzione tra il valore della causa e le spese legali liquidate.

Il motivo è accompagnato dal seguente quesito di diritto: "dica la Corte se il Giudice – nel i condannare una parte al pagamento delle spese – debba o meno attenersi alle tariffe professionali come previste nel D.M. Giustizia 8 aprile 2004, n. 127 e – nel caso si discosti da esse – debba motivare in base a quali considerazioni non abbia dato ad esse attuazione".

La censura è infondata.

Invero il ricorrente non ha indicato in relazione a quali specifiche voci delle spese processuali liquidate sarebbero stati violati i massimi tariffaria essendo a tal riguardo irrilevante che il loro ammontare complessivo risulti superiore o equivalente al valore della causa.

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 700,00 per onorari di avvocato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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