Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-10-2011) 15-11-2011, n. 41738

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 3 giugno 2011 il Tribunale di Palermo, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., in parziale accoglimento dell’istanza di riesame proposta nell’interesse di L.A. avverso l’ordinanza del 9 maggio 2011 con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva applicato la custodia cautelare in carcere in relazione ai delitti di cui agli artt. 416-bis e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 630 c.p., commi 1 e 3, art. 61 c.p., n. 2, annullava il provvedimento impugnato per la sola parte in cui aveva ritenuto la sussistenza, a carico di L., di gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, previa riqualificazione del reato di cui al capo c) quale delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso.

2. Il Tribunale, preliminarmente, ripercorreva le vicende delle famiglie mafiose di "cosa nostra" operanti nel territorio dei comuni di Cammarata, San Giovanni Gelmini, Castronovo di Sicilia e Casteltermini, richiamava il contenuto delle sentenze (Tribunale di Agrigento in data 23 luglio 1987, n. 302, Corte di Assise di Agrigento del 22 aprile 1989 nel processo a carico di Gr.

S. + 20; Corte d’assise di Agrigento del 28 marzo 1996), acquisite ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p., che avevano accertato l’esistenza del sodalizio di stampo mafioso in territorio della provincia di Agrigento, illustrava i risultati delle indagini svolte dagli organismi di polizia giudiziaria in merito ai rapporti intercorsi tra L.A. e alcuni componenti della famiglia mafiosa di Mussomeli, connessi all’esecuzione di appalti di lavori pubblici e al sodalizio di stampo mafioso facente capo alla famiglia mafiosa dei Rinzivillo di Gela.

3. Argomentava, quindi, che gravi indizi di colpevolezza nei confronti di L. in ordine al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso erano desumibili dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia D.G.M., V.G., P.L., soggetti tutti intranei a "cosa nostra" anche in posizione di rilievo (cfr. in particolare la posizione di D.G., uomo d’onore dal 1991 e, quindi, capo, dal 1997 della famiglia mafiosa di Racalmuto, nonchè rappresentante provinciale dell’articolazione agrigentina di "cosa nostra" dal 2000 all’agosto 2003) la cui attendibilità era già stata oggetto di ampia verifica in numerosi processi definiti con sentenza irrevocabile e le cui propalazioni, oltre a trovare obiettivi elementi di riscontro estrinseco, si confortavano vicendevolmente.

Dal complesso di queste dichiarazioni emergeva che L.A. era appartenente, come del resto già il padre L., alla famiglia mafiosa di Cammarata fin da quando, dopo l’uccisione del fratello, si era messo a disposizione di F.S. di Santa Elisabetta, si occupava delle vicende dell’organizzazione di appartenenza, prendeva parte a riunioni con gli esponenti di altre famiglie mafiose, elaborava le strategie per il mantenimento della supremazia territoriale del gruppo mafioso.

Tali dichiarazioni trovavano ulteriore elemento di conforto nel narrato del collaboratore di giustizia S.A., il quale riconosceva in foto L.A. e, pur non ricordando il suo nome, aggiungeva di averlo incontrato in occasione di alcune riunioni tra "uomini d’onore", avvenuti in contrada "Lupo nero", tra Cammarata e Casteltermini, e a casa di L.S.C..

Il Tribunale, peraltro, osservava che non erano stati acquisiti elementi univoci in ordine alla posizione di rilievo assunta da L. all’interno dell’organizzazione,. Infatti le dichiarazioni di D.G., che lo aveva indicato come ai vertici dell’associazione criminale a Cammarata, non erano riscontrate da elementi estrinseci individualizzanti, non potendo ritenersi tali le propalazioni di G.A.. Quest’ultimo si limitava a riferire di avere intrattenuto rapporti con il figlio di L.L., dopo l’arresto di quest’ultimo, mediante lo scambio di "pizzini", ricevuti e trasmessi per il tramite di Ge.Ca., relativi alla cd.

"messa a posto" di imprese del territorio di Cammarata che lavoravano nella provincia di Palermo, e di avere appreso dallo stesso Ge. che il figlio di L.L. aveva assunto la guida della locale "famiglia" mafiosa. Ad avviso dei giudici, l’indicazione fornita da G. era suscettibile di interpretazioni alternative, atteso che, dagli atti prodotti, risultava l’esistenza di un altro figlio di L.L..

Analogamente non potevano costituire elemento individualizzante le dichiarazioni spontaneamente rese, all’atto dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti, da L.S.. Il predetto si limitava, infatti, a manifestare meraviglia per il fatto che, nonostante la collaborazione di D.G. fosse iniziata un anno e mezzo prima, un individuo soprannominato "(OMISSIS)" (da identificare nel ricorrente), non fosse stato ancora coinvolto nelle indagini.

Lo stesso P.L., infine, non forniva specifiche indicazioni sulla titolarità della rappresentanza della famiglia di Cammarata.

4. Il Tribunale riteneva, del pari, insussistente un quadro di gravità indiziaria in ordine al delitto di cui all’art. 630 c.p., contestato in relazione al concorso di L. nel sequestro di persona di D.M.G., operato quale forma di rappresaglia per la collaborazione intrapresa dal padre del piccolo ( Ma.

S.) e organizzato e gestito da "cosa nostra" palermitana e agrigentina, secondo quanto accertato con sentenze di condanna passate in giudicato (cfr. sentenza della Corte d’assise di Palermo del 10 febbraio 1999 nel processo a carico di B.L. + 66 e sentenza della medesima Autorità giudiziaria nel processo a carico di F.A. + 48 che si è specificamente occupata della fase agrigentina della vicenda).

Osservava, in proposito, che erano rimaste prive di riscontri estrinseci individualizzanti le dichiarazioni rese da P.L..

Questi riferiva di essersi recato a Cammarata nel 1994, di domenica, per incontrare, su sollecitazione di F.S. – che glielo aveva chiesto per il tramite dell’uomo d’onore C. C. – L.A., il quale lo aveva accompagnato nella masseria, situata tra Cammarata e Casteltermini, dove era custodito il figlio del collaboratore di giustizia D.M.. Presso la masseria, P. aveva accompagnato M.G., che avrebbe dovuto fungere per qualche giorno da carceriere del piccolo.

A distanza di circa dieci giorni, P. era tornato a Cammarata, presso la masseria di L.A., dove, nel frattempo, era stato spostato il piccolo D.M.. In tale circostanza P. aveva accompagnato Ga.Gi. che sarebbe dovuto subentrare nella custodia dell’ostaggio.

A giudizio del Tribunale le dichiarazioni rese da P. non erano assistite da riscontri estrinseci individualizzanti, in quanto la masseria da lui indicata e individuata come quella di proprietà della famiglia L. non era nella esclusiva disponibilità di L.A. e, inoltre, poichè dalle propalazioni di G. A. risultava soltanto che questi aveva saputo, tramite Ge.Ca. (capo della famiglia di Castronovo di Sicilia e assai addentro alle questioni di Cammarata sia per legami mafiosi tra le due famiglie sia per i rapporti di affinità familiare con i L.), che nelle operazioni attinenti al sequestro era coinvolto, della "famiglia" di Cammarata, "il figlio di L.L.".

Le esigenze cautelari, peraltro presunte ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 3, venivano ravvisate sotto il profilo dell’art. 274 c.p., lett. a) e b), atteso il concreto pericolo che l’indagato, posto in libertà, possa usufruire dei poteri tipici dell’associazione criminale di cui è indiziato di far parte al fine di inquinare il quadro indiziario. Inoltre, la verosimile previsione dell’irrogazione di una pena elevata rende altamente probabile che L., giovandosi della struttura organizzativa del sodalizio e delle sue ramificazioni, possa sottrarsi ai provvedimenti giudiziari che lo riguarderanno.

5. Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Palermo e, tramite il difensore di fiducia, l’indagato.

5.1. Il Procuratore della Repubblica di Palermo denuncia mancanza e illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta insussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 630 c.p.. In tale ottica sottolinea, in primo luogo, che il Tribunale ha omesso di apprezzare il contenuto delle dichiarazioni del collaboratore Va., indicato nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari (ff. 197 e 198) quale soggetto che aveva anch’egli reso dichiarazioni a carico di L..

Inoltre, la considerazione, sviluppata dal Tribunale, che G. A., nel parlare del coinvolgimento di un L. nel sequestro del piccolo D.M., non si riferisse con sicurezza proprio ad L.A. è una mera congettura, ove si consideri che nessuno dei collaboratori ha mai fatto riferimento ad una persona diversa da L.A. nè ha mai parlato dell’inserimento nel sodalizio di suo fratello.

E’ stato, inoltre, travisato il contenuto delle dichiarazioni di L.S. che ha fatto esplicito riferimento ad L. A., detto "(OMISSIS)", e non al fratello di costui nel corso delle dichiarazioni spontanee rese ai Carabinieri, come si evince dal contenuto dell’informativa dei Carabinieri di Cammarata del 10 febbraio 2010 che è stata espressamente richiamata a f. 11 dell’ordinanza impugnata. Significativa è, poi, la circostanza che, nell’ambito di tali dichiarazioni, L.S. distingua nettamente "(OMISSIS)" dal fratello, espressamente definito una "vittima, una nullità", uno "stupido".

Il Procuratore della Repubblica di Palermo denuncia, inoltre, violazione di legge e illogicità della motivazione con riferimento alla riqualificazione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in termini di mera partecipazione, costituendo, per le ragioni già esposte, le dichiarazioni di G. un valido riscontro estrinseco individualizzante alla chiamata in correità di P. L..

5.2.La difesa di L. formula le seguenti doglianze.

Denuncia l’inosservanza dell’art. 273 c.p. e la violazione dei canoni di valutazione probatoria, attesa l’assenza di un univoco quadro di gravità indiziaria in ordine alla partecipazione all’associazione di stampo mafioso intesa in senso dinamico e funzionale. Osserva, al riguardo, che dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia D. G., V., P., prive di riscontri estrinseci individualizzanti, emerge un mero status, che non si è concretizzato in comportamenti obiettivamente espressivi della sua intraneità al sodalizio di stampo mafioso. Nella medesima ottica rappresenta, infine, che l’individuazione di L. da parte di D.G. è avvenuta in forma dubitativa.

Lamenta, poi, violazione degli artt. 274 e 275 c.p.p. con riguardo alla ritenuta configurabilità delle esigenze cautelari, considerati il lungo lasso di tempo trascorso dai fatti, l’assenza di elementi obiettivi da cui inferire la commissione di condotte delittuose successive all’anno 2002, il trattamento sanzionatorio più favorevole di cui l’indagato potrà usufruire proprio in considerazione della cessazione dei comportamenti in epoca antecedente alla legge che ha introdotto pene più severe per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p..

3. Il 10 ottobre 2011 la difesa di L. depositava una memoria difensiva con la quale confutava le argomentazioni sviluppate dal Procuratore della Repubblica ricorrente, sottolineando che esse costituivano un non consentito tentativo di rivisitazione delle circostanze di fatto già apprezzate dal Tribunale.

Motivi della decisione

Il ricorso del Procuratore della Repubblica di Palermo è fondato.

Il suo esame presuppone una premessa metodologica.

1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e vantazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2. Esaminata in quest’ottica la motivazione dell’ordinanza impugnata è caratterizzata da un’intrinseca contraddizione nella parte in cui ha riqualificato come mera partecipazione la condotta di adesione all’organizzazione mafiosa "cosa nostra" da parte di L.A..

Il Tribunale, infatti, dopo avere valorizzato, ai fini della ricostruzione del quadro di gravità indiziaria in ordine al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, le plurime e convergenti chiamate in correità di L.A. da parte di D.G.M., P.L., V.G.S. e S.A., ha argomentato che le dichiarazioni rese da D. G. sul ruolo di capo della "famiglia" mafiosa di Cammarata, assunto da L. dopo la morte del padre, fossero prive di riscontri estrinseci individualizzanti e che non potessero qualificarsi tali le propalazioni del collaboratore di giustizia G.A. che aveva al riguardo fatto generico riferimento al figlio del defunto capomafia L.L.. Al contempo, però, l’intero corpo motivazionale del provvedimento impugnato, nel sintetizzare il compendio indiziario a carico di L. – costituito da elementi di natura dichiarativa, dall’esito delle indagini di polizia giudiziaria svolte sia nell’ambito del presente procedimento che in altri processi e dalle sentenze acquisite ai sensi del’art. 238-bis c.p.p. – evidenzia che lo stesso converge univocamente nel delineare le condotte delittuose poste in essere da L.A. e non da un altro suo familiare.

I giudici di merito, quindi, ai fini della qualificazione dei comportamenti illeciti contestati al ricorrente, hanno contrapposto ad una serie di obiettivi elementi investigativi acquisiti (in particolare, le propalazioni di D.G.M. e le dichiarazioni rese da G.A. che indicava il figlio di L.L. come colui che, tramite "pizzini" dialogava con lui) mere congetture, prive di concreti riferimenti alle emergenze processuali o dalle stesse contraddette, come desumibile dalle parti dell’ordinanza impugnata che sottolineano il contributo conoscitivo di tutti gli altri collaboratori di giustizia esclusivamente nei confronti di L.A. e richiamano il contenuto delle annotazioni di polizia giudiziaria a proposito dei comportamenti illeciti del solo L.A. e non di suo fratello.

La frattura dell’iter logico argomentativo è ancor più evidente ove si abbia riguardo alla motivazione dell’ordinanza impugnata dedicata all’esame e alla valutazione delle dichiarazioni spontaneamente rese ai Carabinieri da L.S., così come illustrate nell’informativa della Compagnia Carabinieri di Cammarata del 10 febbraio 2010, espressamente esaminata nell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere (cfr. par. 8.4.1., ff. 202 e ss., nonchè par. 3.1.1.8, ff. 423 e ss). Quest’ultimo, infatti, distingueva nettamente il ruolo di L.A., detto " (OMISSIS)", da quello del fratello nel corso dello sfogo con le forze dell’ordine cui manifestava tutta la sua meraviglia per il fatto che il suddetto "(OMISSIS)" (da identificare pacificamente in L. A., secondo quanto osservato dagli stessi giudici sulla base dell’informativa del 10 febbraio 2010), nonostante la collaborazione intrapresa da D.G. da oltre un anno e mezzo e le chiamate in correità di quattro collaboratori di giustizia fosse ancora in libertà. 3. L’ordinanza impugnata è altresì viziata per carenza della motivazione nella parte in cui, come specificamente rilevato dal Procuratore della Repubblica ricorrente, non ha effettuato l’integrale esame delle risultanze processuali, in quanto ha omesso di richiamare le convergenti dichiarazioni del collaboratore di giustizia Va.Ci., oggetto di espresse valutazione nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice per le indagini preliminari nei confronti di L.A. (cfr. par. 8.2.4, ff. 197 e ss.) al pari delle risultanze delle pregresse indagini svolte dall’Autorità giudiziaria di Caltanissetta nel cd. processo "(OMISSIS)" (cfr. par. 2, ff. 15-31 dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari) e dall’Autorità giudiziaria di Roma (cfr. indagine "Cobra", menzionata al par. 3, ff. 40 e ss. dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere).

4. Considerazioni analoghe valgono con riferimento alla parte del provvedimento impugnato che ha escluso la sussistenza del quadro di gravità indiziaria in ordine al delitto pluriaggravato di concorso nel sequestro di persona a scopo di estorsione di D.M. G., finalizzato ad ottenere come prezzo della liberazione la ritrattazione delle dichiarazioni fino a quel momento rese da D. M.M.S., padre del minore, e l’interruzione della sua collaborazione.

Il Tribunale ha, infatti, ritenuto che non costituissero validi elementi di riscontro estrinseco individualizzante alla chiamata in correità effettuata da P.L. le dichiarazioni di G.A. che, nel riferire quanto appreso da G. C. – capo della "famiglia" di Castronovo di Sicilia e assai addentro alle questioni di Cammarata sia per legami mafiosi tra le due "famiglie" che per relazioni di affinità familiare con i L. -, parlava del coinvolgimento nel sequestro di persona del piccolo D.M. del "figlio di L.L." (cfr. f. 12 dell’ordinanza impugnata). Tale elemento veniva valutato anche alla luce del carattere non univoco degli esiti delle attività di individuazione dei luoghi, considerato che la masseria indicata dal collaboratore di giustizia non era nella esclusiva disponibilità di L.A. nè costituiva un luogo di sua abituale dimora.

Anche sotto tale profilo possono essere rilevati vizi di carenza e di contraddizione della struttura argomentativa del provvedimento impugnato, in quanto il contenuto delle propalazioni accusatorie di G.A. è stato immotivatamente svalutato sulla base di mere ipotesi smentite dal complesso degli altri elementi investigativi richiamati dai giudici di merito (dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, risultanze delle indagini svolte dalla polizia giudiziaria, contenuto delle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p.), evidenzianti l’esclusivo coinvolgimento di L.A. nella commissione di attività illecite e la mancanza di qualsiasi ruolo concretamente svolto da suo fratello a causa delle sua modesta levatura intellettuale.

Nè, d’altra parte, può assumere rilievo dirimente la circostanza (pure valorizzata dai giudici di merito) che uno dei luoghi in cui P.L. ebbe a incontrare L.A. e a portare uno dei carcerieri durante il sequestro del piccolo D.M., che ivi era tenuto segregato, non fosse nella esclusiva disponibilità di L.A. nè rappresentasse un luogo di sua abituale dimora.

La stessa ordinanza impugnata, infatti, nel sintetizzare il contributo conoscitivo di P., rileva che la masseria di L. A. dove il piccolo D.M. era stato trasferito era un luogo destinato all’allevamento di bestiame e alla produzione di latte.

Sotto tutti i profili sinora illustrati, pertanto, s’impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata limitatamente all’ipotesi di cui agli artt. 416-bis c.p., comma 1, e art. 630 c.p. con conseguente rinvio per nuovo esame su questi punti al Tribunale di Palermo.

Il ricorso proposto da L.A. non merita accoglimento.

5. La prima censura è priva di pregio.

Il Tribunale ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e, pur procedendo alla riqualificazione della condotta ex art. 416-bis c.p., comma 1, con motivazione oggetto, sotto questo limitato profilo, di annullamento con rinvio, ha desunto la gravità degli indizi di colpevolezza in ordine al suddetto delitto dal contenuto delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia D.G.M., V.G., P.L., G. A. che, oltre ad essere intrinsecamente credibili anche alla luce delle verifiche giudiziali già svolte in altri processi, sono oggettivamente riscontrate sia in ordine alla sussistenza del fatto storico che alla sua attribuibilità soggettiva e si riscontrano vicendevolmente. Le suddette dichiarazioni trovano, a loro volta, ulteriori elementi obiettivi di riscontro nell’esito positivo (e non in forma dubitativa, come genericamente prospettato dalla difesa di ricorrente) delle attività di individuazione di persone e luoghi, nel contenuto delle sentenze acquisite ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p. e negli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria.

Il Tribunale, dopo avere ripercorso l’assetto organizzativo e l’operatività delle "famiglie" mafiose operanti nel territorio dei comuni di Cammarata, San Giovanni Gemini, Castronovo di Sicilia, Castertermini nelle dinamiche criminali degli ultimi venti anni, ha, con motivazione compiuta e logica, illustrato le specifiche vicende relative alla "famiglia" di Cammarata (in cui era organicamente inserito il ricorrente), caratterizzata da un forte radicamento sul territorio, da un’organizzazione gerarchica, da regole di formale affiliazione. In tale contesto ha messo in luce il pieno e consapevole contributo, causalmente rilevante, fornito dal l’indagato, soprattutto dopo la morte del padre ( L.L.) alla vita del sodalizio, da tempo aduso ad avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, per realizzare, anche mediante l’eliminazione fisica di esponenti di gruppi avversi, il controllo capillare del territorio e delle attività economiche e produttive, funzionali ad assicurare l’operatività dell’associazione, il sostentamento dei suoi membri e ad accrescerne il prestigio criminale.

Ha, poi, messo in luce, con puntuali riferimenti alle emergenze processuali sin qui acquisite, il consapevole contributo morale e materiale fornito dal ricorrente alla vita associativa in vista del pieno radicamento territoriale dell’organizzazione, del suo rafforzamento, della sua egemonia mediante una serie di condotte rilevanti e significative, quali la partecipazione a riunioni operative degli esponenti della cosca e i contatti mantenuti con gli esponenti di altre "famiglie" mafiose per deliberare le strategie criminali.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di L.A. in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis, c.p., impregiudicato il problema della qualificazione della condotta ai sensi del primo o del secondo comma dell’art. 416-bis c.p.p., oggetto di annullamento con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Palermo.

Di talchè, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

6. Non fondate sono anche le ulteriori doglianze formulate dalla difesa di L.A..

L’ordinanza impugnata ha sottolineato, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, la sussistenza delle esigenze cautelari sotto il profilo dell’art. 274 c.p.p., lett. b) e c), tenuto conto della estrema gravità dei fatti posti in essere, della intensità del dolo sotteso alla condotta delittuosa di cui all’art. 416-bis c.p., del contesto di criminalità organizzata in cui si collocano i comportamenti illeciti, della ramificazione dell’organizzazione in grado di fornire un concreto e valido aiuto a L. per sottrarsi ai provvedimenti giudiziari adottati nei suoi confronti, nonchè della negativa personalità del ricorrente, ispirata alla convinta adesione a modelli di violenza e di intimidazione in vista della riaffermazione della supremazia del gruppo mafioso di appartenenza.

Nella medesima prospettiva il provvedimento impugnato è esente da censure anche nella parte in cui, con motivazione corretta ed esauriente, ha argomentato l’inadeguatezza di misure cautelari personali diverse dalla custodia cautelare in carcere, avuto riguardo alla estrema pericolosità delle condotte realizzate da L. e al suo organico inserimento nel sodalizio di stampo mafioso. In questo articolato contesto il mero decorso del tempo e la successione nel tempo delle leggi penali in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso non appaiono, quindi, contrariamente a quanto osservato dalla difesa, elementi in grado di incidere, modificandola, sulla negativa prognosi di elevata pericolosità del ricorrente, quale desumibile dalla gravità dei comportamenti criminosi che, in caso di positivo scrutinio di responsabilità, potranno comportare l’irrogazione di una pena di gran lunga superiore a quella idonea a consentire la sospensione condizionale della pena.

Per tutte queste ragioni s’impone, pertanto, il rigetto del ricorso di L.A. con conseguente sua condanna al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente all’ipotesi di cui agli artt. 416-bis c.p., comma 1, e art. 630 c.p. e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palermo.

Rigetta il ricorso di L.A. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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