Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-10-2011) 15-11-2011, n. 41724

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento in epigrafe la Corte d’appello di Bologna, sezione misure di prevenzione, decidendo quale giudice del rinvio, confermava il decreto in data 22.1.2008 del Tribunale di Rimini, che aveva applicato a P.G. la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, per tre anni, in quanto persona abitualmente dedita a traffici delittuosi, che traeva sostentamento abituale dai proventi delle attività delittuose, che costituiva pericolo per la sicurezza e tranquillità pubblica.

A ragione, affermava che i fatti oggetto dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini in data 3.3.2010, consentivano di colmare le lacune evidenziate nella sentenza d’annullamento in ordine alla natura illecita delle attività esercitate dal ricorrente.

2. Ricorre il proposto a mezzo del difensore, avvocato Sgubbi Filippo, che chiede l’annullamento del decreto impugnato denunziando, con unico motivo, inosservanza dell’art. 627 c.p.p., comma 3;

violazione della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, artt. 1 e 2, in ordine alla nozione di attualità (della pericolosità) e ai parametri utilizzati per apprezzare tale requisito; mancanza di motivazione.

Deduce, in particolare, che la Corte di appello aveva erroneamente fondato la propria motivazione sui fatti oggetto di recente ordinanza cautelare, che, essendo ancora sub iudice e da accertare, non potevano essere assunti a base del giudizio di pericolosità. Il requisito della attualità della pericolosità non poteva inoltre che essere apprezzato con riguardo al momento originario in cui era stata applicata la misura. Non era perciò consentito al giudice del rinvio assumere a base del proprio giudizio fatti o circostanze successive (cita Cass. n. 1520 del 2000).

Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare sotto ogni aspetto infondato.

1.1. La Corte d’appello ha in premessa ricordato che i precedenti provvedimenti dei giudici d’appello erano stati annullati dalla Corte di cassazione, una prima volta con sentenza del 20.1.2009 e quindi, a seguito di nuova conferma della misura, con sentenza in data 8.4.2010. Nella prima sentenza d’annullamento s’era rimarcato che, una volta documentata l’esistenza di attività lavorative da parte del P., i giudici del merito avrebbero dovuto datarne d’inizio, valutarne effettività e contenuti, porte in correlazione con i dati negativi del passato, e in tal modo dare effettive giustificazioni alla ritenuta attuale pericolosità del P.. Nella seconda sentenza s’era ritenuto che i giudici del merito, ancora una volta, non avevano ancora colmato le lacune evidenziate, non avendo spiegato come le frequentazioni additate a sospetto bastassero a dimostrare che l’attività del ricorrente aveva natura criminale e non la natura lecita da lui allegata.

Ha quindi, nel merito, evidenziato che ogni dubbio residuo sulla natura delle attività del P. poteva ritenersi fugato dalla ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti il 3 marzo 2010, per plurimi reati, tra i quali quelli, commessi tra l’anno (OMISSIS), relativi: all’intestazione fittizia di quote sociali e all’intestazione fittizia di autorizzazione all’attività di mediatore, in concorso con S.M., F.F., L.M.T. e G.L. M.; all’esercizio abusivo di attività finanziaria;

all’esercizio abusivo di attività di mediatore creditizio; alla presentazione di falsa documentazione per ottenere l’erogazione di prestito bancario, in concorso con S.M.; a fatti di usura e di ricettazione, commessi sempre in concorso con la S..

Codeste attività delittuose, precisa il provvedimento impugnato, si riferivano proprio alla soc. Elephan s.r.l., in relazione alla quale era vantata, nelle deduzioni difensive, la lecita attività di procuratore speciale del P., attestata mediante dichiarazioni testimoniali di quella stessa S. che, secondo le contestazioni cautelari, risultava concorrente nell’attività delittuosa del ricorrente.

Gli sviluppi investigativi posti a base della misura dimostravano insomma che il P. non s’era affatto dedicato ad attività lavorative effettivamente lecite, ma aveva utilizzato attività imprenditoriali apparentemente legali a schermo delle sue perduranti attività delittuose, continuando così a dedicarsi alla commissione di reati e a vivere con i proventi dei medesimi.

1.2. La motivazione, che si basa su un complesso indiziario già ritenuto tanto grave da consentire l’applicazione di misura cautelare personale, non può dunque dirsi nè inesistente nè apparente (pressochè superfluo ricordare che nella materia il ricorso è ammesso soltanto per violazione di legge) e non sussiste certamente violazione dell’art. 627 c.p.p., comma 3, non avendo la sentenza d’annullamento consegnato ai giudici del merito alcun principio di diritto diverso da quello, implicito, relativo alla necessità di dare risposta, che è stata data, alle deduzioni difensive rilevanti ai fini del decidere.

2. Infondate sono quindi le censure con le quali s’intende sostenere che il giudice del rinvio non poteva considerare elementi sopravvenuti, nè valutare la pericolosità con riguardo a momenti diversi da quello di applicazione, in primo grado, della misura.

Secondo la prevalente, e condivisibile, giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5, n. 290 del 26/01/1993, D’Ausilio, Rv. 193850; Sez. 1, n. 5026 del 16/10/1995, Spezio, Rv. 202758; Sez. 1, n. 4650 del 04/07/1997, Schiavone, Rv. 208352; Sez. 6, n. 342 del 30/01/1998, Gulli, Rv. 210822; Sez. 1, Sentenza n. 13005 del 12/11/2002, Rv.

223793, Riccardi), discende dalla natura di accertamento all’attualità, oltrechè rebus sic stantibus, della decisione in materia di misura di prevenzione, che nella valutazione della pericolosità sociale del proposto deve aversi riguardo alla situazione esistente al momento della decisione, e che a tale regola non si sottrae la decisione del giudice di appello. In forza, d’altro canto, della natura limitatamente devolutiva del gravame di merito, sancito, in generale, per il giudizio di appello, dall’art. 597 c.p.p., il giudice di secondo grado non può condurre la sua indagine aldilà dei motivi di appello e oltre i capi e punti impugnati, ma nell’ambito di questi ben può prendere in considerazione anche elementi diversi, persino rilevati di ufficio, non sottoposti o sfuggiti all’attenzione del primo giudice. Per conseguenza, ove in relazione all’applicazione di misura di prevenzione sia stato proposto ricorso in appello, così come non è precluso alla Corte di merito esaminare elementi sopravvenuti alla decisione di primo grado che inducano a ritenere un’attenuazione della pericolosità o un suo un aggravamento, così, a maggior ragione, non può ritenersi precluso l’esame di elementi sopravvenuti che convalidino il giudizio di pericolosità già espresso dal primo giudice.

Non può, perciò, aderirsi al precedente, di segno opposto, citato dal ricorrente, costituito da Sez. 5, n. 1520 del 17/03/2000, Cannella, Rv. 215833 (e all’altra risalente decisione, ivi citata, sent. 24.11.95, Pacilio), chiaramente volta (come ha criticamente rimarcato la Dottrina) a superare la norma che collegava le misure patrimoniali all’applicazione di quelle personali e che solo apparentemente manifesta consonanza con la giurisprudenza che costantemente richiede l’esistenza della pericolosità, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, al momento della decisione che l’accerta (per tutte, Sez. U, n. 6 del 25/03/1993, Tumminelli, Rv. 194063). Proprio codesta giurisprudenza, difatti, avendo riguardo all’applicazione delle misure di prevenzione personali nei confronti di detenuto e facendo leva sulla distinzione tra decisione-applicazione della misura da un lato, sua esecuzione dall’altro, laddove afferma la non incompatibilità della condizione di detenzione con la decisione applicativa, e la necessità di valutare dunque la pericolosità esclusivamente con riferimento a tale momento – fermo il diritto del proposto di chiedere la revoca della misura, ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7, comma 2, qualora all’atto della futura scarcerazione si accetti che la pena ha conseguito effetti risocializzante – si riferisce all’evidenza (anche) alla decisione di secondo grado.

3. Il ricorso deve, per conseguenza, essere rigettato, e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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