Cassazione civile anno 2005 n. 1334 Liquidazione e valutazione equitativa

DANNI IN MATERIA CIV. E PEN. DIRITTI POLITICI E CIVILI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato presso la Cancelleria della Corte d’appello di Roma il 17 ottobre 2001, X X, premesso che, con atto di citazione notificato il 26 novembre 1985, aveva convenuto il Comune di Portici dinnanzi al Pretore della stessa città chiedendone la condanna alla esecuzione di opere e al risarcimento dei danni correlati allo svolgimento di una procedura espropriativi avviata nei suoi confronti; che dopo cinque anni di rinvii, il Pretore di Portici aveva dichiarato la propria incompetenza per valore, indicando quale giudice competente il Tribunale di Napoli, fissando il termine di novanta giorni per la riassunzione della causa; che, con atto notificato il 2 giugno 1990, aveva riassunto la causa, che peraltro veniva "congelata" e successivamente attribuita, con ordinanza del Presidente della I sezione stralcio del Tribunale di Napoli del 14 novembre 1998, all’ufficio del G.O.A., dinnanzi al quale le parti erano comparse in udienza, per la prima volta, il 18 febbraio 1999;
che, con sentenza depositata il 28 settembre 2001, il Giudice adito aveva accolto la domanda; che, in corso di causa, in data 20 dicembre 1999, essa ricorrente aveva proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per ottenere la dichiarazione dell’avvenuta violazione dell’art. 6 della Convenzione in tema di ragionevole durata del processo, e la condanna dello Stato italiano alla riparazione dei pregiudizi patrimoniali e morali subiti, con vittoria delle spese sostenute per il procedimento dinnanzi alla predetta Corte; che, entrata in vigore la legge 24 marzo 2001, n. 89, veniva informata dalla Cancelleria della Corte europea di tale nuovo rimedio giurisdizionale interno e veniva invitata ad utilizzarlo; tanto premesso, la X con il suindicato ricorso riassumeva il ricorso dinnanzi alla Corte d’appello di Roma, chiedendo la condanna del Ministro della giustizia al ristoro dei pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali subiti, nonchè delle spese legali sostenute per il procedimento dinnanzi alla Corte europea e per quello dinnanzi alla stessa Corte d’appello.
Con decreto depositato in data 31 maggio 2002, la Corte d’appello di Roma condannava il Ministro della giustizia al pagamento, in favore della X, della somma di euro 4.028,34, nonchè della metà delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 800,00, oltre accessori, dichiarando compensata la restante metà.
La Corte, premesso che il risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la normale diligenza, riteneva che non potesse essere preso in considerazione, ai fini della durata del processo, il periodo di circa cinque anni intercorso tra la citazione dinnanzi al Pretore di Portici e la riassunzione del processo dinnanzi al giudice competente, posto che la dichiarazione di incompetenza era stata cagionata da fatto della parte istante, che per proprio errore aveva adito un giudice incompetente. Riteneva, poi, fatto di comune esperienza quello secondo cui la durata di un processo civile relativo a beni immobili di competenza del Tribunale, di complessità media, fosse tra i tre e i quattro anni per il giudizio di primo grado, e che, nella specie, la durata media dovesse essere quantificata in quattro anni tenuto conto del tempo necessario all’attuazione della legge n. 276 del 1997, istitutiva delle sezioni stralcio. Ritenuto, pertanto, che la durata del processo eccedente quella ragionevole fosse di sei anni, la Corte d’appello riconosceva il diritto della istante al risarcimento del danno morale in relazione a tale periodo, quantificato in ragione di euro 671,39 per ciascun anno di ritardo, tenuto anche conto che la legittimità della pretesa avanzata non era ancora stata accertata con una prima sentenza. In considerazione del parziale accoglimento della domanda, la Corte compensava per metà le spese processuali.
Per la cassazione di tale provvedimento ricorre X X sulla base di sette motivi; resiste con controricorso il Ministero della giustizia, il quale propone altresì ricorso incidentale affidato ad un motivo.

Motivi della decisione
Deve preliminarmente essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, in quanto proposti avverso il medesimo provvedimento (art. 335 cod. proc. civ.).
Con il primo motivo, la ricorrente deduce, ex art. 360, n. 4 (recte:
5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui ha dichiarato la infondatezza della domanda con riferimento al periodo del processo intercorso tra la notifica dell’atto di citazione e la sentenza con la quale il Pretore di Portici si è dichiarato incompetente.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto, per avere la Corte d’appello dichiarato non fondata la domanda relativamente al periodo del processo intercorso tra la notifica dell’atto di citazione e la sentenza con la quale il Pretore di Portici si è dichiarato incompetente, ritenendo che quel periodo di cinque anni sarebbe addebitabile alla ricorrente stessa per avere instaurato la lite per errore dinnanzi ad un giudice incompetente. Il giudice adito avrebbe, infatti, dovuto rilevare tempestivamente la propria incompetenza per valore e non consentire l’infruttuoso protrarsi della lite, senza che alcuna attività istruttoria venisse compiuta.
Con il terzo motivo, la ricorrente deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ex art. 360, n. 4 (recte: 5), cod. proc. civ., del provvedimento impugnato, nella parte in cui afferma che la durata normale in primo grado di un processo simile a quello della cui durata irragionevole ci si duole, è di quattro anni e che lo stesso presentava una media complessità.
L’affermazione secondo cui costituirebbe fatto di comune esperienza quello che la durata normale di un processo in primo grado è di quattro anni è, ad avviso della ricorrente, del tutto sfornita di motivazione, e, comunque, la rilevazione di una durata media non potrebbe giammai costituire una causa di giustificazione della lentezza delle Autorità giudiziarie, in quanto proprio l’usualità della durata costituirebbe sintomo di una grave situazione di patologica inefficienza del sistema dell’amministrazione della giustizia in Italia. Del tutto sfornita di motivazione sarebbe altresì la valutazione della Corte territoriale circa la media complessità del procedimento, non potendo in ogni caso addebitarsi alla parte il tempo occorrente per l’istituzione e l’inizio del funzionamento delle sezioni stralcio. In proposito, la motivazione sarebbe anche contraddittoria, giacchè l’istituzione di dette sezioni è stata, al di là delle intenzioni del legislatore, un’ulteriore causa di patologico prolungamento dei processi civili in Italia, mentre l’importanza dell’oggetto della controversia avrebbe dovuto indurre alla massima speditezza della procedura.
Con il quarto e il quinto motivo, sviluppati congiuntamente, la ricorrente censura il provvedimento impugnato deducendo il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 4 – recte: 5, cod. proc. civ.), nonchè quello di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), nella parte in cui procede alla quantificazione dell’equa riparazione, e violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nella parte in cui afferma che la riparazione del pregiudizio non patrimoniale spetta soltanto per il periodo eccedente la durata ragionevole del processo e non per la durata complessiva. Premesso che, all’udienza del 12 aprile 2002, la domanda era stata limitata ai soli danni non patrimoniali, la ricorrente si duole sia del fatto che il Giudice di merito abbia riconosciuto il danno morale solo per la parte eccedente la ritenuta ragionevole durata del processo e non anche per la intera durata dello stesso, sia della quantificazione del medesimo danno, giacchè la Corte di appello si sarebbe discostata significativamente dai parametri fissati dalla Corte europea, per la quale va riconosciuto un indennizzo di due milioni di lire per un procedimento durato tre anni e di importo progressivamente superiore in relazione agli anni successivi, sulla base del rilievo che il pregiudizio morale è maggiore tanto più quanto il processo si protrae nel tempo. Una diversa valutazione, del resto, renderebbe ineffettiva la tutela interna. Sulla base dei parametri elaborati dalla Corte di Strasburgo, il danno morale avrebbe dovuto essere liquidato, in relazione ad un processo durato sedici anni, in euro 26.855,76.
Con il sesto motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, cod. proc, civ., degli artt. 2 e 6 della legge n. 89 del 2001 e degli artt. 6 e 41 della Convenzione, nella parte in cui il provvedimento impugnato ha negato il riconoscimento delle spese legali sostenute per il procedimento dinnanzi alla Corte europea.
Con il settimo motivo, infine, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del decreto ministeriale 5 ottobre 1994, n. 585, per avere la Corte di appello compensato in parte le spese del procedimento e per essersi discostata significativamente dalla nota spese prodotta, così violando il principio della inderogabilità dei minimi tariffari.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale, il Ministero della giustizia deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e dell’art. 2697 cod. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la Corte d’appello riconosciuto il danno non patrimoniale pur non avendo la ricorrente assolto l’onere probatorio su di essa gravante, neanche attraverso presunzioni, dovendosi escludere che l’equa riparazione spetti per il solo fatto del ritardo irragionevole nella definizione del giudizio.
I primi due motivi del ricorso principale, che possono essere esaminati congiuntamente in considerazione della unitarietà della questione proposta, sono fondati. Con essi la ricorrente si duole, in sostanza, del fatto che la Corte d’appello di Roma abbia ritenuto che il periodo intercorso tra la introduzione del giudizio dinnanzi al Pretore di Portici e la dichiarazione di incompetenza emessa da tale giudice a distanza di cinque anni dalla notificazione dell’atto di citazione sarebbe imputabile a negligenza della parte, che aveva per proprio errore adito un giudice incompetente, e, in quanto tale, destinato ad essere espunto dalla durata complessiva del processo ai fini della determinazione della violazione della ragionevole durata del processo stesso.
In proposito, deve rilevarsi che, ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nell’accertare la violazione del termine di ragionevole durata del processo, il giudice del merito deve considerare la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione.
Nella vantazione del comportamento delle parti, rilevante ai fini dell’accertamento della violazione della ragionevole durata del processo, tuttavia, ciò che rileva è la preordinazione del comportamento della parte alla dilatazione dei tempi di definizione del processo ovvero la manifestazione di un atteggiamento processuale caratterizzato da un sostanziale disinteresse ad una rapida definizione del giudizio (in proposito, v. Cass., 21 marzo 2003, n. 4142; Cass., 9 gennaio 2004, n. 119). La Corte d’appello di Roma, viceversa, al di là di ogni verifica sul comportamento processuale della parte nella fase del giudizio svoltosi dinnanzi al giudice incompetente, ha ritenuto imputabile alla parte tutto il periodo occorso per pervenire alla dichiarazione di incompetenza del giudice adito, senza avvedersi che oggetto della valutazione sollecitata con il ricorso ex art. 2 legge n. 89 del 2001 era proprio la ragionevole durata di un processo iniziato nel 1985 e conclusosi, in primo grado, con sentenza depositata nel settembre 2001. Il fatto che, per errore, la parte avesse adito un giudice incompetente (nella specie, per valore) non poteva dunque esonerare la Corte territoriale dal dovere di verificare se, nel periodo di cinque anni occorso per pervenire ad una declaratoria di incompetenza da parte del giudice originariamente adito – il quale, in base alla formulazione dell’art. 38 cod. proc. civ., all’epoca vigente, poteva rilevare d’ufficio l’incompetenza per valore in ogni momento del giudizio di primo grado -, fossero ravvisabili elementi riconducibili a disfunzioni o ad inefficienze dell’apparato giudiziario, ovvero al comportamento della medesima pare che quel giudice aveva adito. Deve infatti escludersi, in linea di principio, che la erronea proposizione di una domanda dinnanzi ad un giudice incompetente possa di per sè, a prescindere dall’accertamento del concreto svolgimento della fase processuale dinnanzi a quel giudice e dai tempi occorsi per l’accertamento e la dichiarazione della incompetenza, dare luogo alla imputazione dell’intero periodo al comportamento della parte medesima, giacchè, l’ordinamento processuale, sia prima che dopo le modifiche introdotte dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, riconosce comunque al giudice il potere di rilevare d’ufficio la propria incompetenza, anche per valore.
I primi due motivi di ricorso devono dunque essere accolti, così come deve essere accolto il terzo motivo del ricorso principale, con il quale la ricorrente deduce un vizio di motivazione del decreto impugnato nella parte in cui viene determinata in quattro anni la durata normale in primo grado di un processo simile a quello della cui durata irragionevole ci si duole, tenuto conto sia del fatto che quel procedimento presentava una complessità media, sia del tempo necessario all’attuazione della legge n. 276 del 1997, che ha istituito le sezioni stralcio.
La censura coglie nel segno là dove contesta il fatto che il giudice del merito abbia tenuto conto, ai fini della valutatone della durata media del processo della cui irragionevole durata la ricorrente si doleva, del tempo occorrente per l’attuazione della legge n. 276 del 1997, istitutiva delle sezioni stralcio. Si tratta, invero, di elemento che, lungi dal poter concorrere alla individuazione della durata media dei processi, rappresenta un particolare atteggiarsi dell’organizzazione giudiziaria per la definizione delle controversie pendenti davanti al tribunale alla data del 30 aprile 1995, escluse quelle già assunte in decisione e quelle per le quali è prevista riserva di collegialità, ai sensi dell’art. 48 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, come modificato dall’art. 88 della legge 26 novembre 1990, n. 353. La istituzione delle sezioni stralcio è dunque una evenienza che di per sè non può rilevare ai fini della valutazione della complessità delle controversie devolute alle medesime sezioni e della quale, soprattutto, non può tenersi conto per la determinazione dei tempi medi di definizione di quei giudizi nell’ottica della ragionevole durata degli stessi.
L’accoglimento dei primi tre motivi comporta l’assorbimento del quarto e del quinto motivo del ricorso principale, con i quali la ricorrente censura il provvedimento impugnato per quanto attiene alla quantificazione dell’equa riparazione e alla affermazione che la riparazione del pregiudizio non patrimoniale spetta soltanto per il periodo eccedente la durata ragionevole del processo e non per la durata complessiva, e dell’unico motivo del ricorso incidentale, con il quale il provvedimento impugnato viene censurato sotto il profilo del riconoscimento del danno non patrimoniale in asserita mancanza di prova in ordine alla sussistenza del danno stesso. Il giudice di rinvio dovrà infatti procedere ad un nuovo esame della domanda di riparazione alla luce delle ragioni che hanno condotto all’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso.
La cassazione del provvedimento impugnato comporta altresì l’assorbimento del settimo motivo del ricorso principale, con il quale si censura la pronuncia di compensazione parziale delle spese del procedimento e la violazione dei minimi tariffari nella liquidazione delle spese stesse, dovendo il giudice del rinvio provvedere ad un nuovo regolamento sul punto all’esito del nuovo esame demandatogli.
Deve invece essere rigettato il sesto motivo del ricorso principale, con il quale viene dedotta violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., degli artt. 2 e 6 della legge n. 89 del 2001 e degli artt. 6 e 41 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui il provvedimento impugnato ha negato il riconoscimento delle spese legali sostenute per il procedimento dinnanzi alla Corte europea.
Questa Corte ha infatti già avuto modo di affermare il principio, che il collegio condivide, secondo cui "nel giudizio di equa riparazione del danno conseguente alla irragionevole durata del processo, la Corte d’appello non può liquidare, ai sensi degli artt. 91 e seguenti cod. proc. civ., in favore del ricorrente vittorioso, le spese che questi abbia precedentemente sostenuto per la sua difesa in giudizio davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e ciò non perchè si tratti di spese superflue, bensì perchè la domanda di equa riparazione, proposta ai sensi degli artt. 3 e 6 della legge n. 89 del 2001 da chi abbia anteriormente presentato ricorso alla Corte europea, non apre un’ulteriore fase di un unico processo, dato che la Corte d’appello è chiamata a pronunciarsi sull’istanza ad essa presentata, non sul precedente ricorso alla Corte di Strasburgo, nè potrebbe aprire un’ulteriore fase, dato che l’estraneità all’ordinamento italiano dell’autorità inizialmente adita radicalmente osta alla configurazione di una translatio iudicii in senso proprio, e dunque gli oneri eventualmente assunti dalla parte istante con l’avvalersi di un difensore per il ricorso alla Corte europea non rientrano tra le spese del processo in ordine alle quali la Corte d’appello ha il potere – dovere di statuire ai sensi degli artt. 91 e seguenti cod. proc. civ., atteso che tali norme (dettate con riferimento alla sentenza ed estensibili in via analogica ai decreti camerali muniti di valore decisorio) riguardano le spese del processo davanti al giudice che adotta i relativi provvedimenti" (Cass., 9 gennaio 2004, n. 123; Cass., 2003, n. 4).
In conclusione, accolti i primi tre motivi del ricorso principale, assorbiti il quarto, il quinto e il settimo, nonchè runico motivo di ricorso incidentale, e rigettato il sesto motivo, il provvedimento impugnato deve essere cassato, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, la quale procederà a nuovo esame della domanda di equa riparazione proposta dalla ricorrente alla luce dei principi suindicati. Al giudice di rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del presente giudizio.

P. Q. M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso principale, assorbiti il quarto, il quinto e il settimo; rigetta il sesto motivo; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, diversa sezione.
Così deciso in Roma, il 21 settembre 2004.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2005

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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