Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 12-10-2011) 15-11-2011, n. 41715

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 29 agosto 2011 i difensori di M.S., sottoposta ad indagini in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 411 e 605 c.p., formulavano richiesta di rimessione ai sensi dell’art. 45 c.p.p. chiedendo, al contempo, la sospensione del processo in corso.

Premesso il riepilogo della vicenda processuale, la difesa evidenziava che l’intrusiva e costante presenza dei mezzi di comunicazione di massa sul luogo del fatto si era combinata con lo spasmodico interesse dimostrato dalla popolazione locale per lo svolgimento delle indagini, culminato in varie manifestazioni pubbliche, molte delle quali dal contenuto violento ed intimidatorio, nei confronti dei protagonisti della vicenda. Ad esse avevano preso direttamente parte alcuni testimoni chiave del processo. Nel corso di esse l’opinione pubblica locale aveva mostrato di credere profondamente al coinvolgimento nella consumazione dell’omicidio di Sc.Sa. di S. e M.C., additate come persone cattive, prevaricatrici, manipolatorie anche nei confronti di M.M., sì da essere destinatarie di ogni genere di denigrazioni e intimidazioni, attraverso ogni forma di comunicazione (lettere, messaggi, commenti su internet e face book, insulti verbali). Tale situazione era ampiamente documentata anche dagli organi di informazione locale che davano atto della profonda ostilità maturata progressivamente non solo nei confronti di M.S. e S.C., ma anche di M. V. a seguito di alcune dichiarazioni da lei rilasciate.

Ad avviso della difesa la particolarità e abnormità di questa situazione trovava conferma anche in alcuni atti del processo, quali in particolare: a) la relazione di servizio del Reparto Operativo Carabinieri di Taranto del 7 ottobre 2010, attestante l’impossibilità di eseguire un decreto di ispezione di luoghi e di ricognizione di cose, cui avrebbe dovuto prendere parte l’indagato M.M., "attesa la folta presenza di giornalisti e la considerevole folla che si era volontariamente radunata nei predetti luoghi e inveiva contro l’indagato"; b) il conseguente provvedimento di traduzione con scorta in abiti civili e con auto di copertura di M.M. sui luoghi del fatto; c) il provvedimento con cui la Procura aveva secretato l’iscrizione del nominativo di S. C. quale indagata nel registro delle notizie di reato per scongiurare fughe di notizie già verificatesi nel corso delle indagini. La stessa ordinanza emessa, in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione, da parte del Tribunale di Taranto, costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p., osservava testualmente che "tutti (e dunque in primis coloro che sono entrati a qualunque titolo nell’indagine) hanno appreso da televisione e giornali quasi in tempo reale le mosse investigative degli inquirenti" e che, per effetto di questa situazione "l’indagine – suo malgrado – è stata privata della forza della segretezza". 2. L’abnorme interesse mediatico sviluppatosi intorno alla vicenda processuale aveva determinato un pesante condizionamento ed inquinamento dell’attività inquirente e giurisdizionale, riferibile al Tribunale di Taranto in ognuna delle sue componenti, così grave e radicato da non potere essere rimosso se non attraverso la rimessione del processo ad altra sede giurisdizionale.

Infatti, nel corso delle indagini, si era assistito alla progressiva svalutazione di un complesso di elementi obiettivi a carico di M.M.: a) la sua confessione; b) il possesso del telefono cellulare della vittima; c) la conoscenza del luogo di occultamento del cadavere di Sc.Sa.; d) il rinvenimento, su indicazione dell’indagato, in data (OMISSIS), di un anello con due chiavi (una delle quali spezzata), nascosto all’interno di un incavo del tronco di un albero di ulivo, riconducibile alla vittima;

e) le risultanze dei tabulati telefonici; t) le dichiarazioni testimoniali; g) le risultanze della prima consulenza medico-legale che riteneva le tracce di unghiature, rilevate sul corpo di M. M., compatibili con un plausibile tentativo di resistenza della vittima nel corso dell’azione omicidiaria.

3. In coincidenza con il rapido rafforzamento, nell’opinione pubblica locale, fomentata anche dall’abnorme pressione mediatica, del convincimento circa la responsabilità di M.S. e S.C. nella consumazione dell’omicidio, si verificavano alcuni significativi fatti processuali. M.M. ritrattava la sua precedente confessione nell’ambito di interrogatori che non venivano sottoposti ad adeguato vaglio critico. I testimoni mutavano il contenuto del loro racconto con particolare riferimento all’orario in cui avevano visto Sc.Sa. agli inizi del pomeriggio del (OMISSIS). Il consulente medico legale del pubblico ministero mutava le sue conclusioni circa l’ora del pasto della vittima da correlare all’ora del decesso e la causa delle lesioni riscontrate sul corpo di M., ritenute compatibili, alla luce della nuova versione dell’accaduto fornita dall’uomo, con l’urto contro "piante di sarmenti tagliate a becco di flauto". Era oggetto di un’interpretazione meramente congetturale e illogica anche la successione di messaggi scambiati tra M.S., Sc. S., Sp.Ma., Ci.An. che, ove letta serenamente, avrebbe consentito una ricostruzione oggettiva delle azioni delle ragazze, del resto confermata dalle dichiarazioni inizialmente rese dai familiari della vittima sull’ora in cui Sc.Sa. era uscita da casa per recarsi dai M., nonchè dalla confessione di M.; al contrario le suddette risultanze inoppugnabili erano state lette ed interpretate in modo da adeguarle alla tesi della colpevolezza di M.S. e S.C. propugnata dall’opinione pubblica.

Analogo condizionamento, a giudizio della difesa, era verificabile anche con riferimento alle dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti ( Pe.An., G.F., Na.

G., i familiari della vittima, Sp.Ma.), le quali mutavano le indicazioni inizialmente fornite, adeguandole alla nuova prospettiva investigativa, a sua volta influenzata dal dogma imposto dall’opinione pubblica locale circa la colpevolezza, in particolare, di M.S..

4. La difesa di M.S. osserva, inoltre, che la singolare evoluzione di queste ricostruzioni era ampiamente documentata dai provvedimenti emessi dal giudice per le indagini preliminari e dal Tribunale del riesame.

Secondo la prima ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari nei confronti di M.S. il 21 ottobre 2010 – prevalentemente basata su una delle ricostruzioni fornite da M.M. – S., d’accordo con il padre, avrebbe trascinato con forza nel garage la cugina Sc.Sa. con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazza potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, oggetto di conoscenza anche da parte dell’indagata. L’azione omicidiaria sarebbe avvenuta tra le ore 14,28, ora del messaggio con il quale Sc.Sa. aveva segnalato il suo arrivo presso l’abitazione dei M., e le ore 14,35, ora in cui S. risultava avere risposto con il suo cellulare ad un messaggio invitatale dalla sua amica Ci.An..

L’ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto del 22 novembre 2010 rigettava la richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo della predetta misura cautelare argomentando che l’omicidio sarebbe stata commesso esclusivamente da M. S., in garage, tra le ore 14,28 e le ore 14,35.

Il 31 gennaio 2011 il Tribunale del riesame di Bari, nel respingere l’appello interposto avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari – che aveva, a sua volta, rigettato la richiesta di revoca della misura cautelare – riteneva che l’omicidio fosse stato commesso dalla sola S., in garage, prima delle ore 14,20, muovendo dalla premessa che la vittima era uscita dalla sua abitazione intorno alle ore 13,55 ed era giunta presso quella dei M. dopo circa cinque – sei minuti.

5. Dopo la ritrattazione della confessione, effettuata in termini confusi attraverso il lancio di accuse alla figlia, M.M. tornava ad assumersi la piena responsabilità dell’accaduto con diverse lettere inviate alla figlie S. e V. fra il (OMISSIS) e il (OMISSIS) e con una lettera trasmessa al difensore d’ufficio nel (OMISSIS).

Le conseguenti iniziative della difesa di M.S., tese ad interrogare M.M. nell’ambito di indagini difensive, provocavano singolari reazioni da parte degli inquirenti e del giudice per le indagini preliminari, ancora una volta sintomatiche del pesante clima di condizionamento da parte dell’opinione pubblica locale, enormemente amplificata dai mezzi di comunicazione, in cui si è trovato ad operare l’intero Tribunale di Taranto, incapace di prendere criticamente le distanze dall’opinione popolare che voleva M.S. e S.C. autrici dell’omicidio di Sc.Sa..

Nei giorni successivi al deposito della richiesta dei legali di esaminare M.M., i pubblici ministeri emettevano un decreto ex art. 391 quinquies c.p.p. con il quale vietavano, per un periodo di due mesi, a M. di comunicare ai difensori fatti e circostanze oggetto dell’indagine, nonostante che la piena conoscenza degli elementi investigativi acquisiti fosse stata già conseguita dai difensori nell’ambito della procedura incidentale di riesame e nel corso dell’incidente probatorio, ammesso proprio per cristallizzare una particolare ricostruzione dell’accaduto (quella sfavorevole a M.S.), fra le varie proposte da M..

Quindi, l’esercizio dell’atto difensivo veniva subordinato alla presenza del pubblico ministero, condizione di cui la difesa segnalava immediatamente l’illegittimità, procedendo tuttavia all’effettuazione dell’atto difensivo, in data 15 gennaio 2010, alla presenza dei pubblici ministeri e dei difensori di M.M..

Nel corso dell’esame, finalizzato a stabilire se le lettere fossero state scritte in assoluta libertà o fossero il frutto di pressioni.

M.M. affermava di non potere rispondere alla domanda se il contenuto delle lettere corrispondesse al suo pensiero, perchè vincolato al rispetto del provvedimento in precedenza emesso dal pubblico ministero. Pur costituendo l’accertamento delle ragioni sottese alla ritrattazione un aspetto fondamentale per apprezzare la credibilità delle dichiarazioni di M.M., i pubblici ministeri presenti all’espletamento dell’atto non effettuavano l’interrogatorio e anche in seguito non si attivavano in tal senso e si opponevano sistematicamente alle iniziative difensive volte a fare chiarezza sulle ragioni per le quali M. si sarebbe determinato a ritrattare la sua originaria confessione, decidendo di accusare la figlia.

Analogo atteggiamento serbava il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto, che respingeva reiteratamente persino le richieste di incidente probatorio avanzate dalla difesa di M. S., dirette ad acquisire, nel contraddittorio fra le parti, le dichiarazioni di M.M.. Il giudice per le indagini preliminari emetteva, inoltre, duce successivi decreti di limitazione della corrispondenza dei detenuti M. e M.S..

I pubblici ministeri, dal canto loro, immediatamente dopo le dichiarazioni rese da M. in sede di indagini difensive, procedevano alla perquisizione della sua cella e al sequestro di tutta la corrispondenza rinvenuta.

Il tentativo degli inquirenti, condizionati dalle aspettative dell’opinione pubblica, di attribuire la ritrattazione della ritrattazione e, quindi, il ritorno all’originaria confessione a condizionamenti esercitati sull’indagato, tramite la figlia V., dal nuovo difensore di fiducia nel frattempo nominato trovava la sua espressione nell’iscrizione del nominativo del legale nel registro delle notizie di reato per infedele patrocinio. Tale contestazione era conseguente al deposito da parte dell’avvocato, presso la cancelleria della Procura, senza "il consenso esplicito" del cliente, di un’ulteriore lettera autografa di M., datata (OMISSIS) e indirizzata al suddetto legale, nella quale M. ribadiva la sua originaria confessione e chiedeva, tramite l’avvocato, la fissazione sollecita di un nuovo interrogatorio.

L’accusa successivamente cadeva, ma il legale veniva rinviato a giudizio per un’altra ipotesi residuale di reato inerente all’esercizio della sua attività professionale, sicchè il difensore era costretto a rinunciare al mandato.

Anche nei confronti dei precedenti difensori di M.S. veniva formulata richiesta di rinvio a giudizio in relazione a fatti inerenti all’esercizio del mandato difensivo.

6. La difesa di M.S. sottolinea inoltre – a conferma della convinta adesione dell’Autorità giudiziaria tarantina all’ipotesi ricostruttiva fortemente condizionata dall’opinione pubblica e della mancanza di serenità dell’ufficio giudiziario – l’ulteriore sviluppo della vicenda processuale. Infatti, nelle more della decisione da parte della Corte di Cassazione del ricorso proposto dalla difesa contro l’ordinanza emessa dal Tribunale di Taranto nella procedura instaurata ai sensi dell’art. 310 c.p.p., il pubblico ministero chiedeva l’emissione di una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di M.S., contenente la contestazione del delitto di omicidio volontario di Sc.Sa. e dei reati ad esso connessi in concorso con la madre, S.C.. Il giudice per le indagini preliminari, nell’accogliere il 26 maggio 2011 la richiesta, svalutava completamente come inattendibili le dichiarazioni rese da M.M., pur conoscendo le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio, nel frattempo pronunziata il 17 maggio 2011 dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, che aveva sollecitato i giudici ad una completa rivalutazione di tutte le dichiarazioni di M.M., senza escludere pregiudizialmente la rilevanza di quelle autoaccusatorie.

L’arresto di S.C. provocava inquietanti manifestazioni di piazza cui partecipavano alcuni testimoni chiave del procedimento ( Pi.An., Sp.Ma.), come sottolineato da alcuni organi di stampa locali.

Una teste, Na.Gi., commentava pubblicamente la colpevolezza di M.S. e partecipava attivamente al dibattito, aperto sulla bacheca di un altro gruppo di face book, sulle componenti femminili della famiglia M..

Un’altra teste, Pi.An., polemizzava a distanza con la sentenza della Corte di Cassazione che aveva avanzato riserve sulla sua attendibilità. 7. Ad avviso della difesa, l’esito più sorprendente del fortissimo condizionamento esercitato dall’opinione pubblica locale sul Tribunale di Taranto era, infine, rappresentato dall’intervenuta revoca della misura cautelare personale nei confronti di M. M.. Peraltro l’uomo, anche una volta tornato in libertà, continuava a proclamarsi in interviste pubbliche l’unico responsabile della vicenda e in un ampio memoriale e in una lunga serie di appunti – il cui sequestro non veniva disposto dagli inquirenti, nonostante un’esplicita richiesta in tal senso dei difensori di M. S. – spiegava le ragioni che lo avevano indotto ad accusare falsamente la figlia dell’omicidio di Sc.Sa..

8. A conferma del perdurare di una situazione locale fortemente condizionata dalle pressioni della stampa e dell’opinione pubblica locale venivano, infine, menzionate le iniziative assunte in coincidenza con l’anniversario della morte di Sc.Sa., tali da indurre M.M. a "blindare" la propria casa con reti metalliche e teloni per contrastare l’assalto dei giornalisti.

9. Con una successiva memoria la difesa di M.S., nel ribadire le considerazioni svolte con la richiesta di rimessione, sottolineava l’ammissibilità della stessa, essendo stati rispettati tutti gli adempimenti previsti dall’art. 46 c.p.p..

10. Il 4 ottobre 2011 la difesa di Sc.Gi., parte offesa costituita parte civile, confutava tutte le argomentazioni poste a sostegno della richiesta di rimessione, osservando che la stessa travisava la realtà logica e cronologica degli accadimenti processuali e giungeva a conclusioni assolutamente apodittiche e prive di qualsiasi supporto probatorio. Rilevava che l’istituto della rimessione, costituendo una deroga al principio del giudice naturale consacrato dalla nostra Costituzione (art. 25 Cost.), ha natura eccezionale e trova giustificazione in circostanze esterne al procedimento, estranee ai rapporti che vengono a instaurarsi tra i protagonisti della vicenda processuale, la cui gravità deve emergere da atti che comprovino l’oggettivo e pregiudizievole legame tra il clima determinatosi nel contesto territoriale locale in cui opera l’ufficio giudiziario e l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del medesimo ufficio. Alla luce di tali principi, nel caso in esame manca una situazione locale grave ed esterna al processo.

Infatti si verte in un’ipotesi di interesse nazionale da parte dei mezzi d’informazione, non vi è prova di alcuna forma di condizionamento dell’Autorità giudiziaria tarantina che ha dimostrato assoluta riservatezza, serenità e autonomia di giudizio.

In realtà l’istanza di rimessione si basa su una non consentita critica del merito dei singoli provvedimenti giudiziari e dei dati processuali che devono essere oggetto di esame nella sede deputata, nel contraddittorio fra le parti, e non su fattori ambientali esterni al procedimento, idonei a condizionare gli stessi magistrati.

Motivi della decisione

La richiesta non è fondata.

1. L’istituto della rimessione è finalizzato a salvaguardare i principi fondamentali, della imparzialità e della indipendenza del giudice e della inviolabilità del diritto di difesa.

L’imparzialità, garantita attraverso la soggezione del giudice soltanto alla legge, è un principio informatore del sistema, una qualifica connaturata all’essere giudice.

La Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, nel novellare l’art. 111 Cost., ha riaffermato il valore irrinunciabile della terzietà e imparzialità del giudice – intesa come neutralità rispetto al risultato – quale precondizione di un giusto processo, in assenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato (Corte Cost., sent. 1 ottobre 1997, n. 306).

2. Così inquadrato, l’istituto della rimessione ha natura eccezionale, attesa la sua natura derogatoria rispetto al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, a sua volta finalizzato ad assicurare non solo la prevedibilità del giudice, ma anche la non manipolabilità a posteriori della competenza (Sez. 1, 10 marzo 1997, n. 1952; Sez. 1, 7 febbraio 1995, n. 740; Sez. 1, 10 marzo 1997, n. 1952; Sez. 1, 20 settembre 1995, n. 4462).

L’eccezionalità si coglie tenendo conto del fatto che, in tanto con la rimessione si deroga alla competenza territoriale e, quindi, al principio del giudice naturale precostituito per legge, in quanto vi siano motivi – "gravi situazioni locali" – per sospettare il giudice di non essere imparziale: la non imparzialità (o il sospetto della non imparzialità) del giudice non può che essere eccezionale.

La natura eccezionale dell’istituto della rimessione è stata altresì messa in luce, anche nella vigenza del codice di rito abrogato, dalla giurisprudenza e dalla dottrina sotto un altro profilo, laddove è stato evidenziato che il giudice non imparziale o sospetto di non esserlo non è il giudice (o non è soltanto il giudice) del processo, ma è, per definizione, l’organo giudicante nel suo complesso e che i fattori inquinanti l’imparzialità debbono riverberarsi sull’intero ufficio giudiziario astrattamente considerato, non su singoli magistrati o su un singolo organo in cui si articoli l’ufficio giudiziario stesso (Sez. Un., 28 gennaio 2003, n. 13687; Sez. 1, 23 febbraio 1998, n. 1125; Sez. 1., 13 ottobre 1997, n. 5682; Sez. 1, 10 marzo 1997, n. 1952; Sez. 1; 25 febbraio 1993, n. 848; Sez. 2, 14 ottobre 1993, n. 3968).

Dal carattere eccezionale dell’istituto discende, come indefettibile corollario, l’interpretazione restrittiva delle norme che lo disciplinano e ciò proprio perchè le stesse incidono in maniera significativa sulle regole attributive della competenza inerenti alla precostituzione del giudice naturale (art. 25 Cost.).

L’evidente portata derogatoria assunta dall’istituto della rimessione di fronte al principio enunciato nell’art. 25 Cost., comma 1, postula, quindi, un approccio esegetico rigoroso, che impone di considerare tassative – e, dunque, soggette ad un criterio di stretta interpretazione – le fattispecie legittimanti il trasferimento del processo.

3. Nell’attuale versione normativa la "gravità della situazione locale" rappresenta l’imprescindibile requisito condizionante l’intero meccanismo derogatorio ai criteri di competenza territoriale che acquisisce valore prioritario, lasciando fuori ciò che è avvenuto nel processo.

Per grave situazione locale che può determinare la rimessione deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale e riguardante l’ambiente territoriale nel quale il processo si svolge, connotato da tale abnormità e consistenza da dover essere ritenuto un concreto pericolo per la imparzialità del giudice – inteso come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito – e possibile pregiudizio alla libertà delle persone che partecipano al processo. I motivi di legittimo sospetto possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa. In tal senso i comportamenti del giudice ed i provvedimenti da questo assunti rilevano solo in quanto dipendano dalla situazione esterna ed assumano valore sintomatico di una mancanza di imparzialità dell’intero ufficio giudiziario.

L’art. 45 c.p.p., così come modificato dalla L. 7 novembre 2002, n. 248, art. 1, legge, attribuisce rilievo alle situazioni locali sotto tre profili alternativi; pregiudizio per la libera determinazione delle persone che partecipano al processo; pregiudizio per la sicurezza o l’incolumità pubblica; motivi di legittimo sospetto.

Il pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo consiste nel condizionamento che queste persone subiscono, in quanto soggetti passivi di vera e propria coartazione fisica o psichica che incide sulla loro libertà morale, imponendo una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità, precludendone altre di segno contrario.

Il legittimo sospetto è, invece, costituito dal ragionevole dubbio che la gravità di un’obiettiva situazione locale giustifichi la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice – inteso come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito – e possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendosi intendere (come già in precedenza chiarito) per imparzialità la neutralità del giudice rispetto all’esito del processo. Va ulteriormente precisato che connotato del sospetto deve essere la "legittimità", così da ancorarne la ricorrenza solo in presenza di dati obiettivi e concreti che consentano di asserire il venir meno della imparzialità del giudice che, con la sua naturalità, assicura il "giudice giusto".

I motivi di legittimo sospetto sono, pertanto, configurabili quando si è in presenza di una grave ed oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice, inteso questo come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito.

La nozione di "legittimo sospetto" è, quindi, più ampia rispetto alla formula "libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo", in quanto pone l’accento sull’effetto, cioè sul pericolo concreto che possano essere pregiudicate la imparzialità o la serenità, e non richiede che quell’effetto sia conseguenza della impossibilità per il giudice di essere imparziale per essere stato coartato fisicamente o psichicamente.

4. Valutata alla stregua dei principi e dei criteri di rigorosa interpretazione esegetica sinora illustrati la richiesta di rimessione non è fondata.

Non sussiste, innanzitutto, il presupposto della "grave situazione locale". Ha, infatti, un’indubbia dimensione nazionale l’eccezionale rilevanza mediatica attribuita alla vicenda che, in alcune occasioni, ha travalicato le esigenze di una doverosa informazione su un fatto di incontestabile gravità per dare luogo alla celebrazione di processi virtuali paralleli a quelli in corso di trattazione nell’unica sede deputata, ha alimentato una morbosa ed esasperata attenzione, ha mortificato il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’art. 2 Cost..

La dimensione non locale bensì nazionale delle campagne di stampa e televisive riservate alla vicenda processuale incide, quindi, su uno dei fondamentali presupposti dell’istituto della rimessione, ossia la "gravità della situazione locale", essendo indubbio che lo spazio attribuito anche dagli organi di informazione e dalle radiolevisioni locali alle notizie sul processo costituisce il riflesso della più generale rilevanza attribuita a livello nazionale. Pertanto, anche l’ipotetico spostamento del processo in altre parti del territorio nazionale non eliminerebbe l’eccezionale clamore mediatico nazionale nè l’interesse dell’opinione pubblica da esso alimentato, sicchè ogni ufficio giudiziario verrebbe a trovarsi in una situazione di potenziale condizionamento (Sez. Un. 28 gennaio 2003, n. 13687).

Nè, d’altra, parte è in alcun modo comprovato che la massiccia campagna mediatica sviluppatasi su tutto il territorio nazionale abbia in alcun modo influito, menomandola, sul sereno ed imparziale esercizio delle funzione giudiziarie da parte dei magistrati di Taranto e abbia condizionato le loro scelte processuali o il contenuto dei provvedimenti di loro rispettiva competenza.

Da questo punto di vista esulano dalla natura dell’istituto della rimessione e non trovano alcuna conferma nel dato normativo (art. 45 c.p.p.) nè alcun concreto riferimento nelle emergenze processuali acquisite le prospettazioni della difesa di M.S., volte ad ottenere una non consentita rivisitazione critica delle scelte investigative adottate dall’ufficio di Procura e degli elementi fondanti l’iscrizione dei nominativi delle persone nel registro delle notizie di reato, a sollecitare una non consentita rilettura da parte della Corte di Cassazione delle risultanze processuali, delle diverse scansioni procedimentali, ad ottenere, in una sede diversa da quella propria costituita dalle procedure incidentali de libertate, il controllo degli elementi posti dal giudice per le indagini preliminari a base delle ordinanze applicative della custodia cautelare in carcere e dal Tribunale a fondamento dei provvedimenti assunti ai sensi degli artt. 309 e 310 c.p.p..

I comportamenti e le scelte del pubblico ministero (assunzione reiterata delle dichiarazioni delle persone informate dei fatti, sottoposizione ad indagini di M.S. e S.C., richiesta di emissione nei loro confronti di ordinanze di custodia cautelare in carcere, iscrizione nel registro degli indagati di professionisti, tempi e modi dell’esame di M.M., richiesta di archiviazione della sua posizione e di revoca della misura cautelare personale adottata nei suoi confronti, controllo della sua corrispondenza, limiti ai colloqui, perquisizione e sequestro dei documenti a lui riconducibili, accertamenti medico- legali sull’ora della morte della vittima, sul cibo da essa assunto in precedenza, sulla natura delle lesioni riscontrate sulla persona di M.M.) prospettati dalla ricorrente non sono il riflesso di una "grave situazione locale" determinata da un’abnorme pressione mediatica, ma costituiscono piuttosto fatti interni alla dialettica processuale, rappresentano l’espressione delle funzioni che l’ufficio di Procura è chiamato a condurre istituzionalmente, si esauriscono nell’ambito dei rapporti intersoggettivi tra i protagonisti del processo e, quindi, non possono in alcun modo assumere rilievo ai fini dello spostamento del processo. In tale ottica, le progressive acquisizione investigative, la plurima assunzione delle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, la valutazione delle loro credibilità intrinseca ed estrinseca, l’approfondimento degli accertamenti medico legali in base all’evoluzione degli accertamenti disposti. la scelta dei tempi degli interrogatori di M.M., la valenza degli elementi raccolti a carico di M.S. e S.C. rispondono alla finalità, propria della fase pre- processuale, di ricostruzione del fatto e delle singole responsabilità e non possono, invece, essere lette come l’espressione di un patologico condizionamento della imparzialità e serenità della funzione giudiziaria ad opera di una massiccia campagna mediatica nazionale con riflessi anche in ambito locale, fermo restando che le singole acquisizioni processuali, comprese le dichiarazioni rese dalla persone informate dei fatti e le diverse versioni dell’accaduto fornite nel tempo da M.M., dovranno formare oggetto delle doverose e approfondite verifiche giudiziali nel contraddittorio fra le parti e che in tale sede potranno essere dedotte eventuali invalidità degli atti causate dall’inosservanza delle regole processuali da parte del pubblico ministero.

Non è, neppure, in alcun modo comprovato che nel circondario di Taranto si sia determinata una situazione di tale natura e gravità da rendere inevitabile l’incidenza negativa sul sereno e corretto svolgimento del processo, tale da menomare l’imparzialità e la serenità funzionale dei giudici, da compromettere la retta amministrazione della giustizia, da pregiudicando oggettivamente l’imparzialità del giudizio e, infine, da coinvolgere l’ordine processuale, inteso come complesso di persone e di mezzi approntati dallo Stato per l’attuazione delle proprie finalità nell’esercizio della giurisdizione e per garantire la genuinità e l’attendibilità dell’esito del giudizio (Sez. 1, 15 dicembre, n. 6638; Sez. 2, 1 febbraio 1993, n. 3968; Sez. 1, 926 aprile 1996, n. 2644; Sez. 1, 13 ottobre 1993, n. 4151).

I provvedimenti adottati dal giudice per le indagini preliminari e dal Tribunale costituito ai sensi degli artt. 309 e 310 c.p.p. per le loro caratteristiche oggetti ve e per il loro contenuto non costituiscono, come sostenuto dalla richiedente, il frutto del condizionamento operato da una "grave situazione locale", ma rappresentano piuttosto l’espressione fisiologica dell’esercizio della funzione giudiziaria e della valutazione degli elementi raccolti dal pubblico ministero nella fase delle indagini e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo (Sez. 4, 7 novembre 2007, n. 4170; Sez. 6, 28 settembre 2006, n. 35854).

Indimostrata, infine, è la negativa incidenza causale sul sereno e obiettivo esercizio della funzione giudiziaria e sull’adozione dei singoli provvedimenti dei commenti proliferati sui social network, aperti ai commenti e ai contributi di una pluralità di persone dislocate in varie parti del territorio nazionale, della costituzione di comitati e di associazioni, di pubbliche manifestazioni correlate all’oggetto della vicenda processuale. Le opinioni manifestate nelle suddette sedi non risultano avere esplicato qualsivoglia valenza cogente nei confronti dei giudici e dell’ufficio del pubblico ministero, non consentano di prevedere reali ostacoli al corretto svolgimento del giudizio o di formulare fondatamente, sulla base di elementi obiettivi, dubbi sulla imparzialità dei giudici tarantini e sull’esito non imparziale e sereno del giudizio (Sez. 1, 23 febbraio 1993, n. 773; Sez. 1, 25 febbraio 1995, n. 5300).

P.Q.M.

Rigetta la richiesta di rimessione e condanna la richiedente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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